13c) NEMICI SVELATI

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A questo non era preparato, perché era convinto che i suoi avi, pur senza aiutarlo, nemmeno l'avrebbero osteggiato. Invece era proprio questo che aveva dovuto imparare a sue spese. Era talmente deluso da desiderare di sedersi senza rialzarsi più.

Forse l'avrebbe fatto se il sentiero non avesse deviato allontanandosi dalla riva per inoltrarsi nuovamente nella foresta. Era più ampio e se ne vedeva meglio la traccia nella vegetazione. Buon segno. A passo incerto prese a seguirlo. Aveva bisogno di riposo, di un giaciglio che non fosse fatto di foglie. La testa gli ronzava e faticava a tenere aperti gli occhi. Si sentiva stanco come mai prima d'allora.

Qualcosa gli diceva che presto avrebbe incontrato altra gente e, se era fortunato, prima di notte avrebbe trovato un tetto sulla testa e un letto comodo in cui giacere.

Trovò la cosa allettante. Era stanco, deluso da tutto, desiderava un poco di pace. Lo considerava un suo diritto, un giusto premio per le sue fatiche. Eppure non riusciva a dimenticare che era poco più di un animale all'interno di un recinto alto e robusto. Lui, un Varego, un uomo libero di un popolo che non conosceva la schiavitù, era schiavo delle tradizioni e dei suoi avi con un'unica via per affrancarsi dalla loro tirannia: ucciderli uno alla volta. Ucciderli senza pietà allontanandoli da sé alla prima occasione. I suoi avi. Quello di cui aveva sempre avuto timore e rispetto.

Si rendeva conto che per liberare se stesso avrebbe dovuto andare contro a ciò che per un Varego era più sacro e vero: la famiglia. Avrebbe dovuto disonorare gli antenati e il nome che avevano portato. Non gli piaceva per nulla doverlo fare, eppure non aveva altra scelta.

In fondo l'aveva già fatto una volta, là, in riva al fiume.

Ma cosa stava pensando?

Per quanto non avesse mai fatto nulla per allontanarsi dalle tradizioni del suo popolo, nemmeno aveva mai sentito così forte il desiderio di rispettare i suoi morti. Non capiva, o meglio non si capiva. Era stanco, stanchissimo, avanzava a fatica. Ogni passo gli divenne insopportabile.

L'essere un Sanzara improvvisamente gli divenne un peso difficile da portare. Avrebbe dato qualunque cosa per poter tornare indietro. Avesse saputo come farlo, avrebbe schioccato le dita e sarebbe diventato invisibile a tutti quanti, e prima che agli altri a se stesso. Non sopportava nemmeno l'idea di guardarsi riflesso, odiava ogni cosa di sé senza una ragione plausibile, senza un motivo reale.

Tutto questo era incredibile, perché non gli era mai successo. Si era detestato, sì, aveva odiato coloro che l'avevano trasformato in un mostro immondo, ma mai con tale intensità suicida. Nella sua mente comparvero volti che non conosceva, una madre che non era la sua, gente che guardava con disapprovazione le sue azioni senza sapere chi fossero.

Avevano ragione... Si disprezzava per quello che avrebbe dovuto fare ai suoi antenati. Non era più un uomo, era un mostro. Piuttosto meglio togliersi la vita! Eliminare se stesso da tutto quello che più rispettava e onorava. Che ci pensasse un altro a soddisfare quel bisogno bestiale e antico, lui ne aveva abbastanza!

Come se si trovasse in un sogno, Aldaberon si trovò a impugnare il pugnale che gli aveva donato Alfons, sfilandolo dalla custodia e puntandoselo lentamente appena sotto al cuore.

Vedeva la sua mano muoversi senza incertezze, scorgeva la lama d'acciaio rivolta verso di sé e la punta affilata premergli contro gli abiti e la pelle, eppure da qualche parte nel suo cervello qualcosa stava urlando di fermarsi, di non farlo.

Una parte di sé riteneva giusto quello che voleva fare, mentre un'altra ne era inorridita.

Ma allora perché lo stava facendo, se l'idea stessa di conficcarsi quella lama nel corpo lo faceva rabbrividire?

LA MASCHERA E LO SPECCHIO-Prima ParteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora