La Lucciola

By violgave

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[COMPLETA] Nella frenesia della vita, c'è una ragazza con una determinazione inarrestabile e un unico obbiett... More

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By violgave

Ho coltivato sogni d'amore, dipingendo immagini

di sguardi che si incontrano come stelle nel cielo,

ma nell'inesplicabile danza del destino, mai avrei previsto

che solo i miei occhi potessero donare luce ai suoi.


Le lacrime mi rigavano le guance e un peso sul petto mi rendeva difficile respirare.

Un freddo gelido serpeggiò per la mia schiena mentre le catene dell'immobilità si stringevano implacabilmente.

Un senso di impotenza divorava ogni pensiero, ogni tentativo di movimento schiacciato da una forza sconosciuta.

La mia mente era in uno stato di allerta, ma il mio corpo era una prigione, con il respiro affannato a suscitare solo una debole ondata di agonia.

Una presenza sfuggente si materializzava di tanto in tanto all'orlo del mio campo visivo, una figura evanescente che danzava al confine tra mondo reale e dimensione oscura.

Il suo volto rimaneva nascosto nell'ombra, ma emanava un'aura di malevolenza inconfondibile.

Mi strinsi alla coperta in cerca di un aiuto, schiusi le labbra pronta ad urlare ma le parole rimasero imprigionate in una gola stretta da dita invisibili.

Il terrore aumentava, una tempesta che gonfiava il mio petto, facendo affiorare l'angoscia in ogni centimetro del mio essere.

L'atmosfera si faceva sempre più densa, un'oscurità viscosa che inghiottiva il respiro e incrinava la ragione.

La paura diventò tangibile, un'entità viva che sembrava nutrirsi del mio sconforto.

Non c'era fuga, solo l'implacabile percezione di essere vulnerabile in balia di forze oscure.

E poi, dall'ombra, emersero gli occhi.

Due punti di luce malevola che fissavano la mia anima, una connessione diretta con l'ignoto.

Si muovevano lentamente, quasi fluttuando nell'aria, la loro intensità aumentò ad ogni battito del mio cuore.

Si avvicinarono, sinistri e inafferrabili, fino a toccare il mio corpo con un contatto che bruciava come ghiaccio.

Con un balzo, mi svegliai.

Il peso insopportabile che aveva oppresso il mio petto era svanito, così come l'incubo che aveva consumato la mia mente.

Il mio respiro era rapido, affannato, ma le guance erano ormai asciutte.

Tastai la coperta con le mani, cercando di discernere se fossi davvero sveglia o ancora intrappolata in un sogno.

Guardandomi intorno notai che si era fatta mattina, la luce calda dei raggi del sole filtrava attraverso la finestra, dipingendo motivi di luce sul pavimento.

Fu il suono dei clacson delle auto bloccate nel traffico a convincermi che ero veramente sveglia.

L'assenza di rumore del mio ricorrente incubo notturno sembrava ormai un ricordo lontano.

Mi sollevai dal letto, l'ansia ancora palpabile nelle vene. Forse cercare un aiuto professionale avrebbe dissipato questa spirale di terrore notturno.

Tuttavia, la realtà cruda e concreta era lì a ricordarmi delle mie limitazioni.

La ricerca di un nuovo lavoro era diventata una necessità pressante, e finché non avessi trovato una fonte di reddito stabile, non avrei potuto permettermi di consultare uno specialista.

Matthew aveva le sue spese e non potevo gravare ulteriormente sul suo bilancio già teso.

Mentre riflettevo su questa realtà inclemente, il senso di impotenza che avevo sperimentato nell'incubo sembrava ancora avvolgermi come un abbraccio gelido.

Le catene dell'incertezza stringevano il mio futuro con la stessa forza con cui avevano intrappolato il mio corpo nel mio sogno notturno.

Mi alzai e, sentendo il peso della responsabilità sulle spalle, mi diressi al piano di sotto.

Sapevo che dovevo affrontare la situazione, ma ogni passo sembrava essere accompagnato da un peso insostenibile.

La piccola cucina era immersa nella penombra e le pareti gialle erano piene di cartoline portate da Matthew ogni qualvolta ritornava da un viaggio di studio.

Sui ripiani chiari ogni cosa era sistemata accuratamente e la tavola era già apparecchiata per la colazione dalla sera prima, Esther era solita a fare così.

Cominciai a mangiare fissando il vuoto.
Matthew entrò nella cucina, sfregandosi gli occhi stanchi.

Ci scambiammo un breve cenno di saluto con la testa e si sedette davanti a me, afferrando distrattamente il barattolo della marmellata.

La sua voce, carica di sonnolenza, ruppe il silenzio.

-Come hai dormito?- Mi chiese ignaro del mio ricorrente inferno.

-Poco e male.- Risposi, cercando di mascherare l'ombra di ansia che si stagliava dietro le mie parole.

Addentai la mia fetta di pane, burro e marmellata.

Esther uscì dalla loro stanza sbadigliando.

Si sedette al tavolo con noi con gli occhi chiusi e appoggiò la testa sulla spalla del suo ragazzo, mio fratello.

Erano fidanzati da circa tre anni, si erano conosciuti quando lui era andato a studiare portoghese in un'università in Brasile ed era stato ospitato dalla sua famiglia, era stato amore a prima vista dicevano.

Le caratteristiche di Esther non erano solo superficiali, ma una rappresentazione accurata della sua bellezza.

La pelle ambrata, gli occhi scuri e profondi, i capelli neri che sembravano narrare storie di un mondo lontano.

Era un ritratto vivente dell'esotico e del misterioso, un'immagine che mi faceva sospirare involontariamente.

Ma ogni pensiero era un riflesso del mio stato d'animo turbato, e preferii concentrarmi sul mio cibo piuttosto che permettere a quei sentimenti di prendere il sopravvento.

Continuai a mangiare in silenzio, ascoltando il tintinnio delle posate contro i piatti.

La tensione dell'incubo notturno si stava ancora sciogliendo dentro di me, ma cercai di non farlo trasparire.

Con la luce del giorno, decisi che era giunto il momento di affrontare il mondo esterno.

Così optai per una sosta al supermercato che si trovava nelle vicinanze per rifornirmi di ciò di cui avevo bisogno.

Mentre percorrevo le strade di San Francisco, mi trovai circondata da un flusso costante di persone, una fiumana ininterrotta di volti sconosciuti che mi facevano sentire come se fossi solo una piccola parte di una grande e caotica città.

La struttura silenziosa e ordinata del negozio sembrava contrastare con le emozioni turbolente che agitavano il mio interno.

Ero concentrata sulla mia lista della spesa, cercando di creare un legame tra i dettagli ordinati del mio mondo esterno e il caos emotivo che mi consumava.

Mi diressi verso il reparto dei prodotti per il bagno, consapevole che li avrei dovuti condividere con Esther.

Gli scaffali si estendevano davanti a me, come sentieri di scelte e riflessioni.

Senza farci troppo caso raggiunsi lo scaffale dei dolci e, con un gesto naturale, presi i biscotti preferiti di Matthew e li depositai con cura nel carrello.

Consultai la mia lista e mi resi conto che mancavano solo i miei cereali preferiti, esaminando ogni confezione con sguardo attento li trovai posizionati sul ripiano più alto dello scaffale, come se volessero nascondersi da me.

Li fissai con una leggera espressione di scontento, come se fossero colpevoli della mia momentanea frustrazione.

Mi alzai in punta di piedi nella speranza di raggiungerli.

Stesi il braccio il più possibile, sfiorando appena la confezione dei cereali.

-Tanto ti prendo!- Udii prima che qualcosa si schiantasse violentemente contro di me.

Una risata infantile risuonò nell'aria mentre cercavo di mantenere l'equilibrio, pregando di non cadere in mezzo al supermercato.

Riuscii a rimanere con le piante dei piedi saldamente ancorate a terra, osservai con frustrazione i miei cereali giacere sul pavimento unto dell'edificio.

Una figura si avvicinò cauta e li afferrò al mio posto.

-Sono mortificato.- L'uomo mi porse goffamente i cereali pettinandosi con l'altra mano i suoi capelli biondo cenere, corti e impeccabilmente lisci.

-Théo, chiedi subito scusa alla signorina.- Ordinò spostando gli occhi smeraldi più in basso, verso una figura minuta e bambinesca che ubbidì immediatamente.

Alla vista di quel piccolo faccino angelico non potei non sorridere.

-Grazie.- Dissi quindi, depositando finalmente la mia futura colazione nel carrello.

-Li ho assaggiati una volta, sono troppo dolci. Non so come la gente riesca a mangiarli.- Commentò poi, come se condividessimo una piccola confidenza.

Il suo sguardo si spostò verso Théo, intento a esplorare con molto interesse la sua narice sinistra.

Un cenno di saluto goffo e timido fu il suo addio, e con dolcezza prese la mano del bambino, un quadretto di connessione e affetto in mezzo al caos quotidiano.

Qualche ora dopo bussai con cautela alla porta fredda della stanza d'ospedale.

Madelyn, con un caloroso sorriso, mi accolse.

-Ciao, Amber.- Mi salutò, invitandomi ad entrare.

Nel secondo letto della stanza, zio Barnaby riposava, immerso in un sonno profondo.

Sul suo comodino troneggiava una piccola tela, i colori vivaci danzavano sulla superficie, creando un'armonia visiva avvolgente.

Era un rassicurante rito, sapere che il dipinto occupava un posto privilegiato, sempre a portata di sguardo.

Il mio cuore si gonfiò d'orgoglio per quel mio piccolo capolavoro.

Tuttavia, non potei evitare di spostare lo sguardo altrove.

Mentre la aiutavo a riporre i suoi vestiti puliti, la signora Black mi raccontò della sua giornata.

Era appena tornata da una visita di controllo nella sua clinica di fiducia e non smetteva di ripetermi quanto bene fossero andati i suoi esami.

-Là sono tutti molto gentili con me.- Mi confidò con un sorriso, mentre le dita scorrevano sullo schermo del cellulare, immersa in una partita a Candy Crush.

Mi accomodai sul bordo del suo letto, vicino a lei.

-C'è un ragazzo, credo si chiami Jacob... o era Jack?- Sollevò le spalle dopo un attimo di riflessione, quindi decise di proseguire con il racconto.

-È cieco, lo incontro spesso, sai? Povero ragazzo.- Sospirò, e io accavallai le gambe, ascoltandola.

-È così giovane, mi ha detto che ha ventiquattro anni... o forse erano venticinque.- Vinse la sua partita e sorrise soddisfatta, ne iniziò subito una nuova.

-È gentile, tanto gentile con me, molto di più di alcuni medici.- Storse il naso facendo la sua prima mossa.

-Ah, povero ragazzo.- Ripeté, e con premura raddrizzò una piccola ciocca di capelli candidi e ricci dietro l'orecchio.

-Di cosa avete parlato?- Domandai, curiosa.

Il suo modo di parlare aveva catturato completamente la mia attenzione.

Sebbene le sue parole fossero semplici e basilari, erano intrise di quel tipo di fascino che mi richiamava all'immagine della mia nonna.

Sollevò appena le spalle, i suoi occhi dallo sguardo penetrante come quelli di un gufo si posarono su di me.

-Bah, non molto. È un ragazzo di poche parole.- Mormorò, lasciando che il suo sguardo vagasse nell'aria, come se cercasse di recuperare ogni dettaglio sfuggito.

-Sai, riesce a orientarsi nella clinica da solo, come se avesse inciso la strada nella sua mente, e non vuole che nessuno lo accompagni.- Continuò, piegando il naso in una smorfia.

La stranezza della situazione mi avvolse. -Ma perché?-

Lei rise, e istintivamente mi assicurai che non avesse in qualche modo svegliato mio zio.

-E io che ne so, non gliel'ho chiesto.- Tornò a concentrarsi sullo schermo del cellulare, come se la questione fosse stata definitivamente archiviata.

-Però poi mi ha detto che sta cercando un'assistente.- Come se si fosse completamente dimenticata della partita in corso, mi fissò intensamente.

Un brivido mi percorse le braccia, quegli occhi glaciali erano davvero inquietanti.

-Hai detto che cerchi lavoro, giusto?- Annuii sospirando.

-Allora perché non fai domanda per quel posto?- Abbassai lo sguardo, scoraggiata già in partenza.

-Tanto mi licenzierebbero nel giro di due settimane, se va bene, finisce sempre così.-

-Oh, ragazza mia, almeno ci avrai provato!- Esclamò quasi indignata.

Sorrise e prese le mie mani fra le sue, accarezzandole.

Al contatto con la sua pelle rugosa, mi sentii stranamente rassicurata.

-Fallo per tuo zio.- Indicò con un cenno della testa il suo compagno di stanza.

Alzai un sopracciglio, sorpresa dalla sua richiesta.

-Madelyn, non ho mai assistito una persona cieca... non so se ne sono capace.- La donna mi osservò per un lungo istante, poi, prendendo fiato, gettò la testa all'indietro scoppiando a ridere.

-Se io e la mia poca pazienza riusciamo a tollerare l'eloquenza senza fine di tuo zio, tu non avrai problemi con quel ragazzo.- Mi assicurò.

Nonostante il suo riso, in quel momento traspariva una profonda preoccupazione per me e per quel ragazzo, ciò mi spinse a considerare seriamente la sua proposta.

Era chiaro ormai a tutti che avessi bisogno di un lavoro, quando mai mi sarebbe potuta ricapitare un'occasione simile?

Mi disgustava l'idea di passare il resto dei miei giorni chiusa in un ufficio, non volevo neanche immaginarmi seduta su una sedia a guardare il computer per tutto il giorno.

Ma il pensiero di non poter aiutare mio zio mi disgustava ancora di più.

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