Capitolo XI

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Capitolo XI
In cui nessuna luna ci fa segno

Harper si svegliò di scatto, scostando con furia le coperte e schizzando a sedere, la fronte madida di sudore e il respiro ansante. Poi si lasciò ricadere all'indietro, premendosi il cuscino sulla faccia per soffocare i singhiozzi e quella terribile voglia di urlare. Gli incubi lo tormentavano ogni notte e lui non aveva ancora trovato un modo per sconfiggerli, per riuscire a dormire decentemente per più di tre ore. Per quanto cercasse di darsi da fare, di essere così stanco la sera da riuscire a dormire, l'ansia cresceva ogni volta che si coricasse e chiudesse gli occhi; ricordi e dubbi lo assalivano, facendogli credere di aver vissuto in una menzogna fino a quel momento. Di aver sbagliato tutto, macchiando irrimediabilmente la propria coscienza. Il buio gli riportava alla mente le immagini delle torture, delle vite che si erano spente davanti ai suoi occhi, delle missioni in cui era stato l'uomo di fiducia di Devon di Aresil. Il semplice scudiero di un principe senza scrupoli, che aveva dovuto piegare se stesso e i propri principi pur di rimanere in vita.

Crudele.

Era una persona crudele, non c'erano dubbi. Era stato un egoista e continuava ad esserlo, aveva sacrificato la propria dignità e solo dopo si era reso conto che sarebbe stato meglio morire. Aveva così tante ferite interne, cicatrici invisibili, che si sentiva il cuore in fin di vita anche se all'esterno era perfettamente integro. Bibiane le aveva viste, quelle cicatrici. E lui si era spaventato a morte, perché avrebbe voluto che non le vedesse, che restassero nascoste e continuassero a fare male soltanto a lui. Ma lei le aveva viste e si era rifiutata di fuggire. Perché sapeva che, se fosse fuggita, quel ragazzo dai capelli corvini e gli occhi fin troppo azzurri avrebbe dovuto pagare lo scotto di un fallimento; e immaginava quanto salata sarebbe stata la punizione, conoscendo Aresil e il principe che decideva del destino di Harper.

Poi Bibiane non era più tornata.

E lui si era sentito un verme, infido e, ancora una volta, orrendamente egoista. Il viso rotondo e delicato della donna di mezza età era andato ad aggiungersi agli altri, una lunga lista di vittime che lui non si era battuto per difendere. Che aveva dovuto condannare contro la propria volontà, quasi fosse un sicario: un mercenario che eseguiva ordini, meschini e terribili ordini in cambio solo della propria vita. Chiuse gli occhi, mordendosi l'interno guancia fino a quando il sapore metallico del sangue non gli riempì la bocca e il dolore fisico non gli diede almeno un po' di sollievo.

Per favore.

Per favore, pregava mentalmente, fa che stia bene. Sperava che l'avessero soltanto mandata via, che non avessero fatto del male a quella donna all'apparenza tanto buona e gentile, che sembrava avergli letto dentro come fosse un libro aperto. A lui, che piuttosto era un libro chiuso e polveroso, con la copertina a pezzi e decine di pagine in meno, strappate e stropicciate.

Per favore.

Si premette per l'ultima volta il cuscino sul viso, poi scostò le coperte e si mise in piedi. Avrebbe avuto bisogno di un bagno, era ricoperto di sudore e detestava quella sensazione: l'unica cosa positiva delle vita da venduto che aveva sempre condotto era stato il lusso a cui aveva avuto accesso, mitigato dalla sua condizione sociale eppure decisamente conveniente. Afferrò una vestaglia e la indossò, poiché non voleva farsi vedere a girare a torso nudo per i corridoi del castello, preparandosi ad uscire. Ma la porta venne spalancata prima che lui potesse anche solo avvicinarsi a essa.

-Harper.- era una guardia che non conosceva, ma che sembrava conoscere lui -Il principe di Aresil ti aspetta per mettervi in viaggio, hai l'ordine di raggiungerlo immediatamente.

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