11 - whisky

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Si ritrovava a guardarla in silenzio, con il terrore che potesse parlare.
Perché lei sapeva parlare.
Maledizione se sapeva farlo!
E sapeva colpirlo in quell'unico millimetro che restava scoperto dalla corazza, tramortendolo con domande scomode.
Forse lo aveva sempre fatto, fin da bambina.
Ma gli occhi di una studentessa saccente erano molto meno pericolosi di quelli di una donna che aveva affrontato un demone di troppo.
E quella donna, con dentro quel demone, lo lasciava senza parole.
Con una voglia malata di dimostrarle che no, lui non era un assassino, anche se era stato costretto ad esserlo per tutta la vita.
Che di lui non restava solo una bottiglia di whisky mezza vuota e troppi ricordi difficili da dimenticare.
Che sapeva uccidere, sapeva farlo in fretta, ma che questo continuava a martoriagli quel poco di cuore che era scampato alla sua vita.
Ma si rendeva conto di non saper parlare, Severus Piton.
Si rendeva conto, nel silenzio freddo del suo studio scaldato male da un fuoco quasi spento, che avrebbe voluto risponderle che no, non stava bene.
Erano anni che non stava bene.
Che si era dimenticato cosa volesse dire stare bene.
Perché forse bene, lui, non ci era mai stato.
E che avrebbe voluto imparare a starci, bene.
Anche solo per un attimo.
Senza paura di non esserne capace.
E invece stava fermo, con un bicchiere di whisky in mano e una pergamena che non riusciva a leggere nell'altra, a fingere di poter continuare la sua vita, che di vita non aveva proprio niente.
E lei se ne stava lì, seduta davanti a lui.
Anche lei con un bicchiere mezzo vuoto e la bocca mezza piena di domande alle quali non avrebbe più permesso di uscire.
E stavano in silenzio, così come avevano imparato a fare.
E si guardavano, ogni tanto, per poi tornare a nascondersi nei rispettivi diversivi, costruiti con tanta astuzia e poca intelligenza.
Sentiva la saliva scendergli nella gola, e la voglia di parlare risalirgliela lentamente.
E quando avvertì la sua voce importunare il silenzio si rese conto che era troppo tardi per tornare indietro.

-    "No..."

Era solo una sillaba, che avrebbe potuto confondersi con il crepitare del fuoco.
Ma lei era Hermione Granger.
Sempre più attenta degli altri, sempre più sveglia degli altri, sempre più fastidiosa degli altri.
E non gli avrebbe concesso il lusso di fingere indifferenza.

-    "No, cosa?"

Glielo chiese sollevando lo sguardo dal bicchiere e puntandolo nel suo con una facilità che a Severus parve impossibile.
Per un attimo pensò di fingere.
Poi si sentì ridicolo.
Lui, l'uomo che avrebbe dovuto far paura persino alle ombre della notte.
Che si era allenato una vita per fare paura.
E che invece soccombeva sotto lo sguardo velato dal whisky di una ragazzina che poteva vantare poco più di venti anni.
Restò in silenzio.
Ma capì immediatamente che quella via di fuga non gli sarebbe stata concessa.
Tentò il suo sguardo gelido, condito dal sopracciglio sollevato e dalle mani incrociate sul petto.
E non funzionò neppure quello.
Perché quell'avvocato insolente aveva smesso di avere paura.
Di lui, e forse anche del mondo.

-    "No cosa, professore?"

Per un attimo la odiò.
Lei, e la sua puntigliosità sfiancante.
Poi odiò se stesso per aver concesso alle parole di sfuggirgli dalle labbra.
E infine si odiò ancora di più per essere diventato così ruvido da non saperle dire la verità senza tremare fin nelle viscere.
Si concesse un lungo sorso di whisky.
Lo stesso che gli aveva anestetizzato le mente e i pensieri per tante notti, prima di quella mattina, e che adesso sembrava solo volergli sussurrare all'orecchio di provare a dirgliela, la verità, e di vedere a cosa avrebbe portato il farsi scoprire uomo.
Con le sue paure, i suoi fantasmi e il suo dolore che gli lacerava l'anima.
Lanciò il bicchiere nel fuoco.
Il rumore del vetro infranto cancellò per un attimo gli strascichi della voce di lei che ancora echeggiavano nella stanza, in un ultimo, disperato tentativo di cancellare anche quella traccia di umanità che si era lasciato scappare nelle prime luci dell'alba.
E non ci riuscì.
Perché lei lo guardava con quegli occhi carichi di attesa e di una comprensione pronta a distendersi ai suoi piedi.
Liberi dal giudizio.
Liberi da tutto.
Come i suoi non sarebbero mai stati.
Appoggiò la schiena alla sedia, mentre gli ultimi barlumi di un fuoco ravvivato dall'acool si spegnevano nella stanza.

-    "No...non sto bene!"

Ecco.
Lo aveva fatto.
E adesso sembrava tutto più facile.
Perché ad una persona, ad una sola, lui lo aveva detto.
In una manciata di sillabe aveva lasciato uscire la sua vita schifosa, la sua condanna eterna, i macigni lasciati rotolare su un cuore che non sapeva più nemmeno di avere e tante di quelle ferite impresse sull'anima da non essere più in grado di contarle.
E lei se ne stava lì.
Rigirando tra le mani il poco di whisky che le restava nel bicchiere.
E lo guardava.
Senza dire niente, ma pensando di tutto.
Perché le leggeva negli occhi la voglia di sussurrargli quell'unica cosa capace di farlo stare meglio, senza riuscire a trovarla.
Le leggeva negli occhi la paura di parlare, o di non farlo.
E poi fu costretto a leggerle sulle labbra, perché lei non lasciò uscire nemmeno un suono.

-    "Neppure io..."

E Severus Piton si rese conto che quella ragazzina era riuscita a trovarla, l'unica cosa giusta da dire.
E seppe per la prima volta cosa significasse essere in due.
A stare male in silenzio.
Ad aver paura di parlare.
Seppe che insieme si soffre, ma che da soli si soffre di più.
E seppe che, infondo, a qualcuno aveva permesso per un attimo di guardare la sua anima.

Di vento, di sabbia e di silenzioWhere stories live. Discover now