7 - la partenza

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Quando lo aveva visto partire, in lontananza, seminascosto dalle braccia ricurve della foresta proibita, con la Granger saltellante al suo fianco come un cagnolino dispettoso, quasi aveva tirato un sospiro di sollievo.
Minerva McGranitt era una donna abituata a sbandierare una spavalderia imparata negli anni, a lasciar intuire una risoluzione affinata con impegno e dedizione, eppure con lui ancora non riusciva a sentirsi serena.
E non per paura, non per sfiducia.
Ma come sempre per vergogna.
Era passato poco più di un mese dall'inizio delle lezioni.
Un mese nel quale, fondamentalmente, lei si era nascosta.
Era rimasta appollaiata nella torre più alta, quasi affogata in un trono che Albus da prima e Severus subito dopo avevano occupato con i loro corpi sicuramente più imponenti, mentre lei, dall'alto dei suoi ottant'anni, si sentiva ogni giorno più piccola, più incline a soccombere sotto il peso di una scuola risorta, che necessitava di un polso tanto fermo quanto clemente.
La guerra era ancora troppo vicina per poter smettere di fare paura.
E Severus a girare nel castello rendeva più tangibile un tempo che tutti avrebbero voluto dimenticare.
L'uomo nero dallo sguardo di tenebra aveva passato le prime settimane rinchiuso nel suo mutismo tagliente, abbandonando il silenzio solo per dispensare punizioni eccessive e battute sarcastiche, volte ad intimidire gli animi di ragazzini che erano cresciuti nella sua leggenda...e sotto l'ombra del sua storia famigerata.
Lo aveva visto sparire nel suo studio alle ore più improbabili della notte, per provare a sfuggire alla sua personale condanna, inflitta da un tribunale poco incline a rispettare la sua necessità di solitudine.
Durante il giorno la Granger gli dava la caccia, lo braccava come avrebbe fatto con uno squalo pericoloso, di cui si teme e si ammira la potenza indomabile.
E lui aveva sbuffato, aveva sibilato parole cariche di disprezzo, aveva snocciolato tutto il sarcasmo di cui era capace, tutti gli sguardi gelati e le minacce che custodiva gelosamente nella sua cartucciera di difesa dal mondo.
E poi dopo un po', anche lui, si era arreso.
Aveva cominciato a non sgattaiolare più fuori di notte, come un topo, facendo attenzione a non permettere alla sua porta di fare rumore, così che quella della Granger, subito accanto e pronta a spalancarsi al minimo segnale, non avesse potuto rivelargli il pigiama a quadretti e i capelli arruffati del suo nuovo, personale incubo.
Aveva cominciato a non lanciarle più degli sguardi taglienti.
A non abbandonarla in un corridoio nel bel mezzo di una conversazione che lei cercava ostinatamente di sostenere.
Lo aveva scoperto a targiversare più del dovuto di fronte ad una pozione sulla quale lei chiedeva spiegazioni.
Lo aveva sorpreso ad aspettarla fuori dalla sala grande, una volta finita la cena.
Sempre con il suo sguardo schifato, sempre con i suoi modi poco gentili, sempre con tutta la cattiveria che aveva spinto a forza dentro la gola dal giorno stesso in cui era venuto al mondo, in una casa sbagliata, nella parte sbagliata di una città sbagliata.
Ma restava lì, con una scusa nemmeno troppo verosimile, la aspettava, le rivolgeva una battuta carica di astio in ogni sua sillaba, e se la trascinava nei suoi sotterranei, dove per qualche ora, in totale silenzio, sopportava e anelava la sua presenza, al cospetto del suo regno di formule e misteri.
Con il tempo Minerva aveva capito che qualcosa di quella ragazzina, diventata avvocato in un tempo difficile da eguagliare, aveva smosso una parte nascosta del mago di ghiaccio.
Dell'eroe scomodo.
Non sapeva cosa fosse successo.
Sapeva solo che da un giorno all'altro lui aveva smesso di scappare.
Di questo ne era certa.
Perché se Severus Piton avesse voluto scappare, se avesse voluto nascondersi, se avesse voluto impedirle di importunare la sua solitudine, semplicemente, lo avrebbe fatto.
Era un uomo che era stato in grado di gettare fumo negli occhi al mago più potente e pericoloso della storia, era stato un uomo capace di sopportare con lo sguardo impassibile e gli occhi asciutti, la parte peggiore del mondo, e degli uomini.
Era stato solo.
Per tutta la vita.
E di colpo, in un giorno di inverno, non lo era stato più.
Oh, non parlava.
Non parlava mai.
Ma la guardava in modo diverso.
Senza il fastidio che aveva sempre riservato ad ogni essere vivente.
La guardava e non diceva niente.
Si limitava a voltarsi di scatto, e farsi seguire.
Ma non scappava più.
Minerva non sapeva se questo, Hermione, lo avesse capito.
Non sapeva se riuscisse ad apprezzare la magia invisibile che si stava consumando sotto i suoi occhi, ma sapeva che anche lei, di colpo, aveva smesso di dargli la caccia.
Di riservargli sguardi carichi di una sfida autoimposta a suon di ideali e promesse.
Di alzare le pupille al cielo e di domandarsi perché stesse mandando a rotoli la sua brillante carriera per un mago che non sapeva cosa fosse la gratitudine, o semplicemente la grazia.
Quando le loro ricerche, consumate gomito a gomito in un sotterraneo umido e maleodorante, avevano dato i primi frutti, lui non si era nemmeno dato la pena di provare a dissuaderla.
Forse era rassegnazione, ma Minerva McGranitt aveva vissuto troppo a lungo per non riconoscere una necessità.
E Severus Piton aveva bisogno di lei.
Lo stesso Severus Piton che non aveva mai avuto bisogno di nessuno.
Lo stesso Severus Piton che non era uno stupido.
Che non lo era mai stato.
E che adesso, per la prima volta nella sua vita, concedeva a se stesso una necessità, seppur camuffata ad arte.

Erano arrivati nel suo studio sulla torre in una mattina di ottobre.
Lei stringeva al petto un maglioncino troppo leggero, infreddolita fin dentro alle vene da un clima che le pietre nascoste nella pancia di un castello vecchio di secoli, non facevano che rendere più impietoso.
Lui custodiva negli occhi una scintilla di riscatto tanto luminosa quanto inafferrabile, sotto la sua esperienza di maestro dell'inganno.
Le avevano srotolato sotto gli occhi una cartina malconcia.
Le avevano parlato di quartieri malfamati, di angoli bui, di zone d'ombra della civiltà nelle quali avrebbero dovuto immergersi fino al collo.
Non avevano aspettato un sua reazione, né tanto meno un qualsiasi genere di suo permesso, ed erano scivolati fuori da una porta che cercavano in ogni modo di evitare dal loro arrivo al castello.
E adesso lei se ne stava lì, affacciata sulla finestra più alta della torre più alta, e li guardava partire verso una missione che avrebbe dovuto togliere il fiato a chiunque e che invece, a loro, regalava un nuovo respiro.
Non conosceva Hermione Granger, la vecchia preside di Hogwarts.
Almeno non la conosceva più.
L'aveva lasciata come una giovane eroina che aveva visto troppi morti, e se l'era ritrovata in un'aula di tribunale come avvocato tutto d'un pezzo, strizzata in un tailleur che faceva di tutto per renderla più vecchia dei suoi anni.
Ma conosceva Severus Piton, per quanto un uomo come Severus Piton si potesse conoscere.
E sapeva che quella partenza rappresentava per lui un nuovo modo di martoriarsi l'anima.
Di guardare negli occhi i suoi demoni.
Di provare, ancora una volta, a chiedere scusa.
E così, mentre sparivano tra i segreti di una foresta piena di ombre, Minerva McGranitt si rese conto che avrebbe potuto vivere abbastanza per vedere giustizia.
Giustizia per un uomo che, la giustizia, l'aveva sempre avuta a scorrergli forzatamente nelle vene.
Per un uomo a cui, di giustizia, non ne era mai stata rivolta nemmeno una briciola.
Per un uomo che, dopo tutta la vita, finalmente non era più solo.

Di vento, di sabbia e di silenzioWhere stories live. Discover now