9 - mani

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-    "Lo ha ucciso?"

Era la domanda più sbagliata che avrebbe potuto fare.
La più insolente, crudele e forse anche stupida domanda che potesse venirle in mente.
Eppure era anche l'unica in grado di dare una spiegazione a quei passi fatti di fretta, a quel gelo irreale, a quel silenzio assordante che li importunava da dieci minuti tra i vicoli di Nocturn Alley.
Hermione era una donna curiosa, così come era stata una ragazzina insopportabile a forza di esserlo, curiosa.
Ma questa volta era diverso.
Sul viso di quell'uomo pieno di segreti e silenzi, era comparsa la prima traccia di un dolore che non era stato così abile a mascherare.
Forse era stata l'abitudine ad averla accanto, l'attitudine ormai sbiadita a manifestare un fastidio utile a tenerla lontana, forse era il buio tutto intorno che gli faceva credere di essere nascosto, o forse era semplicemente il fatto che aveva dimenticato per un attimo cosa si provava ad essere un assassino.
E, quello sguardo carico di fiamme che le lanciò in un vicolo maleodorante, risultò troppo flebile, troppo incline a trovare una via di uscita da una domanda scomoda.
Aveva già visto quello sguardo una volta, qualche tempo prima, quando la sua curiosità le aveva fatto fare il primo passo falso.
O il primo passo giusto.
Quando gli aveva chiesto se avesse paura.
Quella volta si era arrabbiato.
Le aveva sputato in faccia tutto il veleno di cui era armato e aveva provato a chiuderla fuori dalla sua vita.
E poi, improvvisamente, era cambiato.
Oh, non che fosse diventato meno insopportabile, meno acido, scorbutico o sarcastico.
Però era diventato diverso.
E sembrava che di colpo quel ruolo fosse diventato troppo pesante persino per lui.
L'uomo senza sonno e senza sogni.
L'uomo senza vita e senza voglia di viverla.
Era nato così il loro strano rapporto fatto di bugie dette con il solo scopo di essere scoperte.
Era nato così il loro rapporto fatto di silenzi davanti ad un camino quasi spento e di libri letti nella pancia di in castello gelato.
Era nata così l'amicizia più assurda che avesse mai visto la luce.
Se amicizia si poteva chiamare.
E ferirlo con quella domanda, con quella voglia di scoprire le carte a forza, senza dargli il tempo di affogare in un silenzio sintetico la sua ennesima colpa, le parve improvvisamente qualcosa di crudele.
Perché con il tempo quell'impossibile mago era diventato qualcosa di più di una giustizia da difendere.
Era diventato Severus, da difendere.
E Severus era fatto di contraddizioni insormontabili, di fiele, di vestiti neri, di cultura quasi fastidiosa, di odore di pergamena e di whisky.
Era fatto di poche parole dette malamente, di occhi al cielo, di battute sarcastiche e di un cuore che probabilmente batteva ancora sotto tanto di quel dolore da faticare a sentirlo.
E quel Severus no, lei non voleva ferirlo.
Con un gesto fece per prendergli la mano.
Poi si ricordò di essere l'avvocato che si era ritrovato tra i piedi senza che lo avesse mai chiesto e si ricordò anche che essere umani, con lui, non poteva essere giusto.
Si fermò appena in tempo, prima di svoltare l'ennesimo angolo pieno di immondizia e di rifiuti umani.
Si fermò prima di superare quel confine che lui aveva imposto al resto del mondo.
Si fermò per chiedergli scusa.
A voce alta.
Provando a non farsi schiacciare dalla vergogna.
Si fermò e basta.
E parlò.

-    "Non volevo...
Sta bene professore?"

Era la sua voce quella che le era scappata dalle labbra, ma lei faticò a riconoscerla.
Era stanca, invecchiata, e satura di una paura opprimente per aver sbagliato a mostrare le carte.
Per aver tentato un all-in con una stracciata doppia coppia, sbattuta in faccia a chi teneva stretto tra le mani un poker di assi.
Lui la guardò.
La luce fredda della luna si mischiava con la poca che riusciva a superare lo strato di polvere spesso un dito del lampione in fondo alla strada.
Una ruga marcata tra le sopracciglia gli si fece largo sulla pelle diafana.
Per un attimo il silenzio intorno divenne più spesso e il gatto, prigioniero di chissà quale sventura, smise di miagolare in lontananza.

-    "... non è più un mio problema, né tanto meno un problema del ministero, se è questo quello che ti preme di sapere!"

Lo disse senza inflessione, senza entusiasmo, senza slancio e addirittura quasi senza voce.
Lo disse a lei, che improvvisamente si sentì ancora più inetta di quanto avrebbe potuto immaginare.
Poi si voltò, riprese a camminare.
E a quel punto quella maledetta mano sfuggì al suo controllo, e afferrò quella del mago di ghiaccio, dalle parole gelide e dalla pelle calda.
Lo vide girarsi di scatto.
Rivolgerle uno sguardo che di disgusto aveva poco, ma di sorpresa aveva tanto.
Lo vide indietreggiare, vittima della poca abitudine al contatto e al calore umano.
Lo vide serrare le labbra, lasciando che diventassero bianche, più ancora della sua pelle, più ancora del pallore della luna.
Hermione tremo per un istante.
E non era paura.
O meglio, forse era una paura che non conosceva del tutto.
La paura di dire la cosa sbagliata.
Di ferirlo più di quanto l'ennesimo incantesimo mortale non avesse fatto poco più di una manciata di minuti prima.
Perché far soffrire un uomo che ha lacerato la sua stessa esistenza in ogni modo possibile era più semplice di quanto si sarebbe mai aspettata.
Perché quell'anima tenuta insieme con i fili marci di una vita da costringersi a vivere, sembrava non essere più in grado di reggere un'ennesima sfida, per quanto piccola e insulsa potesse apparire.
E questo lei lo percepiva.
Lo sapeva senza essere in grado di spiegarsi il perché.

-    "No, io voglio sapere se lei sta bene.
Non mi interessa cosa è successo là dentro!"

Glielo disse.
Perché era vero.
Probabilmente un uomo era morto, quella notte, mentre un altro si era ucciso, ancora un altro po'.
E a lei importava solo quello.
Avrebbe voluto saper dire quell'unica parola in grado di cancellargli quella ruga tra gli occhi, avrebbe voluto saper fare quell'unico sorriso in grado di fargli credere di essere ancora un uomo, capace di qualcosa di più grande di un incantesimo mortale, avrebbe voluto dirgli che credeva in lui, ancora una volta.
E invece non gli disse niente.
E stette ad aspettare che fosse lui a parlare.
E lui non parlò.
Perché lui era Severus Piton.
L'uomo abituato ad andare in guerra con il mondo intero, a vincerla, e a soffocarsi nei sensi di colpa per non essere stato in grado di salvarlo.
Era l'uomo delle contraddizioni, dell'impossibilità di comunicare qualsiasi cosa che non fosse una battuta tagliente o una frase sputata senza grazia.
Era l'uomo che ritraeva la sua mano, facendola sparire tra le pieghe di un mantello da sempre impeccabile, e che si dissolveva senza dire una parola nell'oscurità della notte a cui aveva rubato il colore.

Di vento, di sabbia e di silenzioWhere stories live. Discover now