27. Territorio Minato

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Jared.


Busso alla porta di Janise due volte e rimango in attesa di una risposta. Dalla camera non proviene alcun rumore, il che mi fa pensare che stia dormendo. In sottofondo, si sente soltanto il chiacchierio monotono della televisione accesa.

«È aperto» Janise alza la voce e tossisce. Anche se in questi ultimi giorni le sue ferite sono migliorate, le costole incrinate le danno ancora un bel filo da torcere.

Faccio roteare il pomello della porta e varco la soglia. Mi guardo attorno e noto che la camera è in perfetto ordine: non ci sono vestiti a terra, libri gettati sulla scrivania, armi attaccate al muro, o cibo sul pavimento. Sembra semplicemente una stanza di ospedale, con il comodino colmo di pastiglie e unguenti, e una coperta piegata sul fondo del letto.

Janise è sdraiata sul materasso e tiene le braccia unite sopra le lenzuola, come se volesse imitare la postura di una mummia; la testa è rialzata da ben due cuscini, che le permettono di guardarsi intorno senza fare movimenti bruschi con il corpo e di concentrarsi sulla televisione, attaccata alla parete di fronte.

Con un dito, mi fa cenno di venire avanti, accanto a lei. Non distoglie lo sguardo dalle immagini che passano nello schermo, e dall'espressione che ha dipinta sul volto non sembra di buon umore. Ma sfido chiunque a esserlo, quando si è costretti a restare immobilizzati a un letto per settimane.

Mi siedo al suo fianco e la osservo, nella speranza di notare miglioramenti. «Come ti senti?»

«Come una prigioniera» rantola, senza ricambiare lo sguardo «Vorrei alzarmi, ma non posso. Vorrei uscire, ma non posso. Vorrei tornare ad allenarmi, ma, guarda un po', non posso

Trattengo una risata. So che la farebbe infuriare. «Mi riferivo alla tua condizione fisica, Janise. Stai meglio?»

Lei alza le spalle e pigia un tasto del telecomando con forza. «Almeno, riesco a respirare senza stramazzare a gambe all'aria, adesso. Non lo definirei stare bene, ma, sì, è un passo avanti.»

«Non dovresti lamentarti. Te la sei passata davvero brutta» la rimprovero. Il solo ricordo delle sue condizioni dopo lo scontro con i Sottomessi nello stabile mi fa stringere i pugni «Tralasciando l'umore sotto ai piedi, posso assicurarti che ti trovo più in forma. Stai continuando a prendere le medicine?»

Janise alza gli occhi al cielo e cambia ancora canale. «Siete così monotoni! Tutti a farmi le stesse, noiose domande» sbuffa «È ovvio che le sto prendendo. Diamine, non vedo l'ora di potermi alzare di nuovo e uscire da questa prigione! A volte, ho come l'impressione che la stanza stia per inglobarmi all'interno. Sto diventando claustrofobica, paranoica, sedentaria e lagnosa. Sto diventando un'umana, ecco.»

Il modo in cui si lamenta mi rende allegro. È evidente che stia meglio: i primi giorni dopo l'incidente non spiccicava parola e stava continuamente sotto effetto di antidolorifici. Nonostante le rassicurazioni di Gabriel, tutti noi eravamo preoccupati per la sua ripresa.

«E poi, sto diventando un'eremita!» Janise continua a parlare a ruota libera, enumerando le sue problematiche con fare stizzoso «Sto quasi sempre da sola, Jared. Ti pare normale? Nessuno che mi venga a trovare! Le giornate, qui dentro, sono infinite. Ho letto due volte il manuale di Difesa Demonica, tre volte il volantino delle pizze takeaway di Nando's e ho imparato a memoria la programmazione di ogni canale in televisione. E, nel frattempo, ho ricevuto si e no quattro visite. E tre erano di Nolan.»

«Questo spiegherebbe come mai tu stia parlando così tanto, adesso» ribatto, con un sorriso sfrontato.

Lei socchiude gli occhi e mi fissa con rancore; poi, stringe il telecomando nella mano e me lo scaglia contro. La mossa è impacciata ma rapida e mi coglie impreparato. La scatoletta di plastica mi colpisce sul polso, mentre tento di pararmi il volto, e rimbalza sul pavimento.

Hybrid - L'EsperimentoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora