Capitolo 18 - Hope

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Precedo la sveglia illuminandomi la faccia con lo schermo del cellulare appena pochi secondi prima che suoni. Sono le 7;14, e non c'era alcun motivo per svegliarsi così presto, ma non è importante dato che non ho chiuso occhio per tutta la notte. Il dormitorio è ancora nella stretta di Morfeo e il silenzio sarebbe quasi surreale se non fosse per qualche voce lontana provieniente dal campo di football dove i giocatori più ambiziosi si stanno già scaldando per la partita di stamattina. Chissà se Artem è già in campo. Chissà se sta dormendo. Chissà. Provo a cercare un surrogato della sua attenzione entrando su Instagram e guardando se ha visualizzato la storia che ho caricato stanotte, prima di andare (senza risultato) a dormire. Era la mia pagina preferita de "Le notti bianche" che sto rileggendo, dato che Artem me lo aveva dato in prestito l'altro ieri notte. Avevo sottolineato una frase specifica: "Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?" sperando di suscitare una sua reazione, ma niente. Ha visualizzato, però. E vedere quel pallino che ritrae un cappuccio nero con poche ciocche arruffate che sporgono irriverenti mi fa tremare il cuore per un attimo.
Artem_Y.
Vedere il suo nome scritto fa anche più male. È come se si dispiegasse in tutta la sua potenza. E fa ancora più male accorgersi di ragionare come una ragazzina cotta, senza speranze. E decisamente incasinata. Decido di smettere di farmi seghe mentali, alzarmi, curandomi di non svegliare Kate e chiudermi in bagno. Probabilmente a quest'ora le cucine sono chiuse, non potrò fare neanche colazione nonostante io stia morendo di fame. Ieri, con Jason, ho praticamente rifiutato la cena per intero. Dopo aver fatto una doccia veloce, raccolgo i capelli semiasciutti in una coda alta trascurando le poche ciocche che sfuggono alla presa, infilo una felpa leggera con cappuccio, un pantaloncino leggero e le mie dr. Martens. Ho deciso che andrò a sedermi in un angolo remoto dello Yale Bowl finché non si faranno le 8:30. Un po' d'aria fresca mentre albeggia è assolutamente ciò che mi serve dopo questa nottataccia. Presa la borsa e chiusa la porta con delicatezza, percorro il corridoio a testa bassa, senza accendere la luce, rievocando le emozioni della sera prima e martoriandomi una mano con l'altra. Dopo aver svoltato a destra verso l'uscita vengo sorpresa da un enorme distributore di caffè, té e latte. Benedizione! Prendo un doppio espresso macchiato bollente e salgo verso la tribuna, dove mi accomodo in un posto appartato e lontano.
Sono le 7:30, il panorama dello Yale Bowl semideserto è mozzafiato, ed essere l'unica anonima spettatrice mi fa sentire... Importante. I pochi ragazzi che sono già in campo ad allenarsi non sembrano aver notato la mia presenza, io invece ho sentito che la partita inizierà per le 9:30, e per quell'orario sarò andata via, non voglio rischiare di incrociare i miei occhi con quelli di Artem.

Un fischio acuto e pungente mi fa sussultare facendomi rovesciare mezzo bicchiere di caffè ormai freddo addosso. -Oddio!-, mi alzo per un riflesso incondizionato, scusandomi con chi siede vicino a me. -Oddio, scusatemi! Mi sono addormentata!- parlo più veloce e più forte del normale, in preda ad un imbarazzo e un'agitazione che superano qualsiasi immaginazione. Lo stadio è gremito di spettatori e la partita è già iniziata, ma nessuno sembra aver fatto caso a me, per fortuna. Infilo le mani nella borsetta alla cieca e sfilo il telefono per vedere che ore sono... Cazzo! Le 10:10! Mi copro la faccia con le mani. Avrò russato a bocca aperta con un bicchiere di caffè in mano sotto gli occhi di mezza Yale! Ma in fondo, posso biasimarmi? Sono due notti che non dormo completamente, sono esausta! Mentre mi perdo tra questi pensieri, mordendomi il labbro inferiore, i miei occhi incrociano per un attimo il campo e la mia attenzione viene catturata da una barella che aveva fatto la sua apparizione sotto il boato e i fischi della tifoseria. Nel trambusto generale raccolgo tutte le mie cose e inizio a sgomitare a destra e sinistra per scendere più velocemente possibile verso l'ultimo gradone, perché vedo in lontananza che la persona infortunata porta una folta capigliatura riccia.
Sento di perdere contatto con la realtà quando dopo pochi secondi mi accorgo che la persona che stanno portando via, infortunata, è Artem. Inizio a correre ancora più veloce, e quando sono ormai a un palmo dal campo Artem alza gli occhi verso di me, e mi rivolge un sorriso tenero, per tranquillizzarmi, nonostante non fosse messo affatto bene. Mi accorgo di guardarlo letteralmente a bocca aperta, col cuore che mi trema nel petto, e che nel frattempo senza neanche rendermene conto sto cercando la via più veloce per fiondarmi sul campo.
-Signorina!- un energumeno della sicurezza mi afferra per i fianchi sollevandomi da terra. -Dove stai cercando di andare? Questa è una zona dedicata al personale sportivo!- mi ammonisce con una voce baritonale.
-Sono un'infermiera!- pronuncio acida, balbettando e sbattendo le palpebre dieci volte al secondo, noncurante del rischio che stavo correndo affermando una tale assurdità.
-Ah sì? Allora per prima mettiti dei vestiti puliti!- mi allontana con forza con un braccio, precludendomi l'accesso al campo e al fiume di persone che seguivano la barella di Artem, probabilmente verso l'Infermeria.
Spazientita, tenuta a bada dal braccio del gigante sbarrato davanti a me, mi faccio furba e decido di passare sotto, piegandomi sulle ginocchia e scappando via come un fulmine, mentre il titano della sicurezza continua a urlarmi dietro ogni genere di insulto. In men che non si dica sono già dietro la barella di Artem, ma prima di affacciarmi verso di lui per farmi vedere decido di sciogliermi i capelli (semmai servisse a camuffare la mia pessima cera di questi giorni).
Sento che Jason e Marcus si stanno rivolgendo a me, ma non riescono ad ottenere neanche l'un percento della mia attenzione.
-Cos'è successo?- chiedo in preda al panico al paramedico mentre nel giro di pochi secondi sistemano Artem che alterna lamenti e imprecazioni sul lettino dell' infermeria.
-Questo devi chiederlo al Dr. Harlock, signorina- mi ragguaglia con una voce stridula, mentre il famigerato Dottore varca la soglia dell' infermeria. Sento anche che Artem continua a chiamare il mio nome, alternato alle imprecazioni e ai lamenti, così come Jason e Marcus, e che tutti sono un po' sorpresi dalla mia agitazione, ma nessuno riesce a calmarmi.
Saranno "le notti bianche", sarà il doppio espresso e il risveglio brusco, o semplicemente il terrore che ad Artem abbiano torto anche solo un capello.
-Ok!- pronuncio una volta sola ad alta voce. -Adesso mi calmo e mi siedo!- grido ammutolendo tutti i presenti nella stanza. E ciò che dico faccio, raggiunta immediatamente da un abbraccio di Jason. -Dr. Harlock, Hope è la mia ragazza. È una ragazza sensibile, si preoccupa facilmente e vuole molto bene ai suoi amici- prova a scusarsi perché è imbarazzato dal mio comportamento. Ma il dottore non si lascia scomporre.
-Speriamo che non ci sia nulla da preoccuparsi, signorina Hope.- mi tranquillizza con uno sguardo sorridente. Allora mi faccio coraggio e incrocio brevemente il viso sofferente di Artem che mi fa una pernacchia per farmi sorridere. Ma non ottenendo alcun risultato, mi prega a mani giunte di stare tranquilla mentre Marcus e Jason ascoltano le parole del Dr. harlock e non fanno caso a noi. Non potrei descriverlo diversamente se non così. Cerca di proteggermi anche in questi momenti. -Questa tibia non mi sembra rotta nonostante sia parecchio gonfia. Ma servirà una radiografia immediatamente, per scongiurare il fantasma di una rottura. Nel frattempo proceda con cicli di ghiaccio di quindici minuti ogni 2/3 ore- Harlock si spiega con Artem, che annuisce serio. Dopodiché si rivolge al paramedico -prepariamo tutto per una radiografia- pronuncia secco, -ci vediamo tra pochi minuti- aggiunge rivolgendosi a tutti noi prima di sparire dalla stanza con il paramedico. Anche Marcus mi sembra più nervoso del solito, ma non capisco il perché. Così Jason, che se ne sarà accorto ancor prima di me, lo invita a tornare alla partita, ed insieme si congedano lasciandomi da sola con Artem.
Nel momento in cui Jason e Marcus abbandonano l'infermeria, guidati dal Dr. Harlock (? C'è già il paramedico donna, quindi devi dirmi se devo cambiarlo) poso cautamente il mio sguardo su Artem, che a testa bassa pronuncia delle parole quasi incomprensibili, non per come le avesse modulate, ma proprio per il loro contenuto. -Puoi andare, se vuoi, non sei costretta a restare qui...-.
Non riesco a non accennare un sorriso divertito.
In realtà era un sorriso parecchio amaro, perché stare con lui era letteralmente tutto ciò che avrei voluto ad ogni ora del giorno e della notte. Era ironico che mi chiedesse di andare negli unici minuti che avevamo a disposizione da soli, quindi non riuscii a fare altro che avanzare di pochi passi a stringergli la mano. Per quanto potesse sembrare una mossa ardita da parte mia, che non mi ero mai pronunciata per prima, la paura di perderlo, o che gli fosse potuta accadere qualcosa di brutto, suonava come un invito ad approfittare al massimo del tempo che avevamo a disposizione.
-Non c'è altro posto dove vorrei essere in questo momento-, ammetto in preda ad una folle sincerità, supportata dalla mia preoccupazione.
-E poi non ho nulla da fare-, lo prendo in giro per provare a tirarlo un po' su, toccando con la punta del mio indice il suo naso all'insù. Ma pare che i miei tentativi di salvare la situazione e di esprimere ad Artem tutta la mia vicinanza stiano sortendo l'effetto opposto, perché le linee feline degli occhi, gli angoli spavaldi della bocca e la fronte distesa e ampia si stavano tutti accartocciando in un'espressione rabbuiata di apprensione e tristezza che non ci mette molto a trasformarsi in un pianto che irrompe come un fiume in piena. Mi abbraccia, curandosi però di nascondere il suo viso contro il mio ventre.
-Grazie. Per esserci!-singhiozza, stringendo la mia mano a sua volta.
-Hey, Hey!-, provo a strattonarlo delicatamente per farlo girare verso di me.
Avevo dimenticato quanto i suoi occhi cristallini, rotti dal pianto, risultassero ancora più taglienti e veri. E quel momento implorava verità, supporto e condivisione, quindi non avrei mai potuto anteporre i problemi con Jason a lui. Non persi tempo a sedermi accanto a lui, afferrare la sua testa riccioluta con la mano e accucciarla appena sopra la mia spalla. -Shhhh. Va tutto bene. Io ci sarò per sempre, e tu lo sai. Tu lo sai anche se io non lo so ancora. Perché mi conosci meglio di quanto nessuno abbia mai fatto, inclusa me stessa.- gli sussurro all'orecchio con decisione, senza alcun rimpianto, nonostante stessi praticamente ammettendo a me stessa che anche io amavo Artem.
Improvvisamente, con un guizzo degli occhi che tornano a illuminarsi, desiderosi di chiedermi qualcosa, prorompe con un:
-Cosa credi succederà se... non potrò mai più giocare a football?- e lo chiede come se io avessi una risposta certa, inequivocabile e assolutamente affidabile. Così provo a formulare una risposta di cui sento tutto il peso della responsabilità, pur navigando a vista circa la diagnosi che Artem avrebbe ricevuto. Mi infondeva una certa sicurezza il fatto che ci sarei stata io accanto a lui, e questo mi faceva sentire forte, sicura che insieme avremmo superato ogni ostacolo.
-Credo che diventerai il migliore giocatore della squadra, e credo anche che otterrai una borsa di studio. Io credo nel tuo talento, Artem, e dovresti farlo anche tu- continuo a parlare mentre tengo la sua testa stretta a me, ed è più facile così, senza guardarsi negli occhi, dire la verità.
-E se dovessi fermarti per un po' ti starò accanto, ti aiuterò con lo studio, verrò a trovarti ogni giorno finché non sarai guarito.-
Non sapevo se lasciarmi confortare dal suo silenzio, ma prometteva di sicuro bene il fatto che avesse smesso di singhiozzare, carezza dopo carezza.
-Non me lo merito. Non merito tutto questo.- pronuncia scontroso, staccandosi repentinamente dalla tua presa.
-Ti ho messa nei guai più volte, guarda cosa sto combinando. Ho tradito Jason, ti ho messa nei pasticci con i tuoi genitori, e...-, prova a continuare, ma esita un attimo, e dopo si zittisce definitivamente.
Devo ammettere che la sua reazione mi aveva spiazzato e mi aveva fatto sentire vulnerabile, perché questa era stata (forse) la prima vera volta che parlavo con lui senza filtri a causa della mia preoccupazione, e quindi ero molto determinata a non far sprofondare la nostra relazione nel limbo un'altra volta. Volevo che restasse così, e addirittura mi sentivo forte abbastanza da iniziare a pensare che tra qualche tempo avrei potuto dirlo a Jason.
Quindi decido di allontanarmi di due passi... Ma non riesco ad assecondare di nuovo questo cambiamento. Dovrei lasciare Jason per questo? Ne ho abbastanza della sua volubilità. -Ti ho praticamente detto che rinuncerei a tutto per te! Fammi capire una cosa, tra di noi funzionerà solo se uno dei due decide di rifiutare l'altro? Devo respingerti per non farti cambiare idea su noi due?-, mi irrigidisco, e, come di consueto, cerco con gli occhi la prima via di fuga disponibile. È un riflesso incondizionato che ho sempre quando mi sento in pericolo, vorrei scappare.
-Non ti respingerei mai! Al contrario... Ti vorrei soltanto per me!-
- Bene! Allora ti chiedo un piccolo miglioramento, non di diventare la persona più strutturata al mondo, ma un po' meno volubile, non la più sicura, ma un gradino sotto la contraddizione continua, non la più prevedibile, ma quanto basta per non essere quella più lunatica! Sono stan...!- mi mordo la lingua non appena noto che entra il dottore, che sempre molto gentile e sensibile, fa finta di non aver sentito nulla dopo aver scambiato con Artem uno sguardo di complicità.
-Buone notizie, Signor Young!- borbotta, curandosi di non esprimere manifestamente il suo sollievo, per mantenere una certa professionalità.
-Si tratta di una banale, ma ovviamente dolorosa, distorsione. Le raccomando due settimane di assoluto riposo, di continuare la terapia col ghiaccio a cicli di quindici minuti per quattro volte al giorno, e di applicare una pomata locale che troverà prescritta nel certificato medico di dimissioni. Le faccio avere delle stampelle tra massimo quindici minuti assieme ai miei migliori auguri di pronta guarigione. Si prenda pure il suo tempo per tirare un sospiro di sollievo.-
Osservo Artem annuire instancabilmente alle parole della dottoressa, senza mai proferire parola.
È sorpreso per la diagnosi? Gli angoli delle sue labbra tornano repentinamente a disegnare un sorriso sereno, e persino i pochi ricci sparsi sulla fronte sembrano balzare di felicità ad ogni cenno entusiasta del suo volto, che finalmente torna a tingersi di un tenue color pesca.
Non so se sono nella posizione per fargli le mie congratulazioni, visto che la dottoressa ci ha interrotti proprio nel momento in cui gli stavo vomitando contro la mia ripugnanza per la sua volubilità.
Forse è così che funziona l'amore, è capace di incenerire anche una tonnellata di orgoglio: e io finora non l'avevo mai sperimentato con nessuno tanto profondamente. Neanche con me stessa, perché sono la prima persona con cui mi comporto in maniera intransigente.
Una volta che la dottoressa abbandona la stanza, io rimango in un angolo, ad esitare sui miei stessi pensieri, senza comprendere che la mia reazione all'esterno poteva sembrare quantomeno anomala. In un qualsiasi altro momento della mia vita, in compagnia di qualsiasi altra persona, sono sicura che mi sarei già catapultata a congratularmi per la diagnosi, probabilmente l'avrei fatto anche con Melanie, perché così è fatta Hope, o meglio, così era fatta.
Con qualsiasi altra persona Hope avrebbe resistito alla tentazione, con qualsiasi altra persona Hope avrebbe fatto sempre la scelta giusta, detto la cosa corretta, agito esemplarmente.
Ma non con lui.
Perché?
L'amore è anche questo? Agire inspiegabilmente come se non fossi più tu, e le leggi del tuo carattere non fossero più soggette alla "forza di gravità" della tua morale?
O scoprire finalmente chi sei davvero, venire a patti con chi fingevi di essere?
Sento come se la mia mente, il mio corpo, i miei organi fossero costruiti di domande, come se potessero scorrermi anche nelle vene. Sono in un altro dei miei loop, e non ricordo neanche come si fa a respirare. Probabilmente avrò ereditato la capacità di fingermi morta da un animale che ho incarnato in una vita precedente.
Ho passato tutta la vita a impostare, controllare, cronometrare, vigilare... e adesso mi sembra di non avere il controllo neanche sul mio respiro. Come può qualcosa irrompere così forte, così caoticamente dentro te da renderti incapace di controllarti? Di gestire le tue stesse reazioni?
Forse... lo amo anche io?
O magari... mi piace tanto? Oppure è solo attrazione fisica, e una volta esaurita smetterà di farmi questo effetto?
Non faccio in tempo a terminare questo viaggio mentale che fiondo a pressare le mie labbra serrate su di lui, per constatare autonomamente la veridicità del mio ultimo pensiero.
Lo voglio, ma vorrei non volerlo.
Sono così arrabbiata, perché mentre provo a sedermi cavalcioni su di lui, vedo la vecchia Hope andare in frantumi e nonostante la vergogna che provo non riesco a fermarmi. Sento che il mio corpo brucia.
-Wow, bastava un "sono felice che sia tutto ok" ma va benissimo così- sussurra Artem al mio orecchio, visibilmente imbarazzato per quello che sto facendo al punto da distogliere lo sguardo da me.
-Se è vero che mi ami, come hai detto, allora dimostramelo Artem- lo imploro, mentre cerco freneticamente l'elastico dei suoi pantaloni della divisa da football, per insinuare le mie mani nei suoi boxer.
-Hai cambiato ancora idea? Non mi sorprenderebbe!- lo accuso, stavolta con le lacrime agli occhi. La sua ritrosia mi distrugge. Distrugge me e la mia autostima. Assieme al mio orgoglio e a quel briciolo che resta della mia dignità.
Oddio.
Non sono più in me, questo è ormai assodato.
Sto combinando un casino.
Mi sto comportando come una pazza. E la cosa assurda è che lo so, ma non riesco a controllarmi.
- Hey, hey, hey! E adesso che ti prende?- bisbiglia Artem, mentre delicatamente cerca le mie mani e le sposta da dentro i suoi boxer.
Preme sui miei fianchi leggermente come se anche lui stesse facendo un grande sforzo per contenersi, e, dopo poco, mi invita a scendere dal lettino.- Non e' così che deve andare Hope!- pronuncia queste parole con una certa severità, facendo no con la testa.
Allora mi rendo conto le poche lacrime che mi rigavano il volto si trasformano in un lampo in un pianto singhiozzante.
Faccio bene a dubitare di lui e della sua volubilità. Probabilmente non gli piaccio abbastanza.
-Non voglio... che ti sembri il contrario... anche io ho una voglia pazza di te! Ma non deve essere qui, con Jason in mezzo a noi. Io ti rispetto Hope, e quando arriverà il momento giuro che sarà il momento più bello della tua vita.- Alza le spalle dal lettino e stringe entrambe le miei mani dentro le sue. - Ti amo!- aggiunge, e sento come se mi avesse sparato dritto al cuore, perché sento che i miei battiti mancano di un colpo. Riprendono solo quando Luke ci spaventa, entrando all'improvviso in infermeria con un'aria spavalda e apparentemente disinteressata: -Se volete passare... Dopo... Ci sarà un festino in camera mia!- taglia corto, uscendo senza salutare e senza aspettare una risposta da parte nostra.

#LOVEME - Tutta colpa di un bacioTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang