Capitolo 9

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Apro leggermente gli occhi e un fastidioso dolore al collo mi provoca un giramento. Grugnisco, mentre porto una mano a massaggiarlo. Sono ancora mezza addormentata, non so bene dove mi trovo. Muovo la testa da un lato all'altro, e mi metto seduta dritta sulla sedia. Guardo fuori dalla finestra, osservo il piccolo spazio che mi ospita, e noto il letto sfatto. Mi alzo, trovo un bigliettino sul tavolo. La calligrafia è tutta storta e fatico a capirla.

"Grazie per ieri sera.

Pede."

Identifico le lettere una a una, e metto insieme la frase insieme a tutto ciò che è successo, appunto, ieri sera.

Pede, Pede, penso, scuotendo piano la testa.

Mi faccio un tè caldo, mangio due biscotti, e mi infilo in doccia. Dopo essermi messa una tuta grigia, una maglietta a maniche corte e le mie fedeli scarpe da ginnastica, sono pronta. Non so bene cosa fare, in realtà. Forse dovrei continuare a cercare lavoro.

Decido intanto di chiamare il contatto che il responsabile del locale dove lavora Alice mi ha lasciato.

Dopo qualche bip, sento una voce femminile rispondere: «Bar da Bob, come posso aiutarla?»

«Ehm, sto cercando il responsabile...» borbotto.

Mi sono dimenticata come si chiama, che stupida.

«Ele? Elena, sei tu?»

«Oh cavoli, Alice, scusami, non ti avevo riconosciuta!» esclamo.

Non ci avevo proprio pensato, che avrebbe potuto rispondere lei. Ecco perché non è rimasta stamattina, aveva il turno.

«Mate! Mate, è Elena, la ragazza che ti ho presentato!» urla Alice, staccandosi un poco dalla cornetta del telefono.

Subito dopo, percepisco un po' di imbarazzo da parte di Alice, che aspetta silenziosa l'arrivo del responsabile.

Mi rendo conto che la sua reazione è dovuta alle vicende della sera prima, così intervengo affermando: «Alice, senti, non ti devi preoccupare per ieri sera. Ho trovato il tuo biglietto, non mi devi ringraziare di nulla. Sappi che per qualsiasi cosa, puoi contare su di me».

«Cazzo, tu sì che sei un'amica» dice piano, per poi aggiungere velocemente: «Ho detto tante stronzate?» La sento mangiucchiarsi qualcosa, presumo sia la penna con cui prende gli ordini.

Sorrido, e rispondo: «Uhm, no, ma ne possiamo riparlare quando vuoi».

La capisco, è questo il fatto. So cosa vuol dire essere guardati in modo diverso dalla propria famiglia, so cosa vuol dire non essere sostenuti da chi ti ha messo al mondo, so cosa vuol dire dover andare via di casa perché casa quella non è.

«Ecco Mate, te lo passo, noi ci vediamo dopo.»

Mi sono messa d'accordo con il responsabile, Mate, per provare a lavorare giovedì sera. Mi ha raccomandato di vestirmi di nero, e di essere puntuale, "Non come la tua amichetta qua", ha detto, con quell'accento strano.

Il resto della giornata passa tranquillo, rimango chiusa in mansarda, svogliata, a cercare di non farmi venire uno dei soliti attacchi di panico, se così li posso chiamare. Mi distraggo leggendo Follia, di Patrick McGrath, e mi immedesimo così tanto nella protagonista che credo non abbia nemmeno tutti i torti a lasciarsi attirare dalla passione, dal pericolo, dalla tentazione.

Emozioni. Sensazioni. È questo che manca. Ci manca il brivido, ci manca quella scarica che ci fa pensare che la vita sia degna di essere vissuta.

Butto fuori il naso dalla finestra più volte, e i miei occhi finiscono sempre all'ultimo piano dell'edificio di fronte. Al piano di Ryan.

Mi sono nascosta per così tanto tempo, lascio la presa sui miei pensieri. Posso davvero continuare a vivere così? Posso davvero lasciare che quell'episodio condizioni il resto della mia vita?

È vero, quello è stato molto più che pericoloso. Ma non è di quel tipo di pericolo che parlo. Parlo davvero di brividi, di adrenalina. Quello che mi è successo è stato infinitamente crudele. E non lo perdonerò mai. Ma ho bisogno di sentirmi di nuovo viva.

Mi sdraio a letto, fisso il soffitto e le sue chiazze nere, le ragnatele negli angoli.

Dio, che postaccio, mi dico, per poi riprendere il filo del mio monologo.

Riuscirò mai a lasciare che una persona mi si avvicini? Finché sono ragazze mi è indifferente, ma quando è un uomo... chiudo gli occhi, lasciando uscire una lacrima silenziosa.

Mi sono chiusa a riccio. Reagisco per difendermi. Non so più chi sono, come sono, non so se sono io, non so cosa pensare.

Mi asciugo le lacrime che mi hanno attraversato le guance, e mi rimetto in piedi.

Esco, portandomi dietro solo il cellulare, infilato nella tasca dei pantaloni. Saltello giù dalle scale, l'appartamento dei ragazzi è silenzioso, così proseguo fino al piano terra. Faccio scattare la porta d'entrata, e una volta fuori vedo Marco, Ryan e... Alice, di spalle, con i capelli color mogano tenuti su da una fascetta.

«Avanti, solo un'ultima volta.» Marco parla languidamente a Pede.

«Dammi ciò per cui ti ho pagato e falla finita» risponde lei, la voce tesa.

Ryan è appoggiato al muro, le mani in tasca, quel sorriso da stronzo a illuminargli gli occhi.

Si gode la scena, penso, provando disgusto.

«Alice» chiamo, avvicinandomi a loro. Vedo Marco passarle una piccola scatoletta di metallo, e Alice se la intasca credendo che io sia stupida e non l'abbia vista.

«Oh, la bambolina.» Marco si rivolge a me, tirandosi su le maniche di una ridicola camicia scura, a fiori.

«Alice, andiamo.» Ignoro il tizio, appoggiando la mano sul braccio di Pede.

«Non si saluta?» mi chiede, avvicinandosi a me.

Ryan rimane al suo posto, ancora con le mani in tasca e l'espressione beffarda. I capelli gli vengono scompigliati dal vento leggero, gli occhi velati di grigio nascondono l'azzurro cristallino di quando avevo incrociato il suo sguardo per la prima volta.

«Ciao, coglione, hai finito di rompere il cazzo?» gli faccio un sorrisino finto, prendendolo chiaramente in giro. Lui rimane zitto, strizza gli occhi, per poi sorridermi di nuovo. Faccio un passo verso di lui, e continuo: «Ora, anche se ti dispiacerà, noi ce ne andiamo». Mi rigiro verso Alice, rimasta a bocca aperta per tutto il tempo.

«Ehi, stronzetta, vedi di abbassare i toni.» Marco mi afferra il braccio, e il mio corpo sussulta visibilmente, provocandogli una risata.

«Finiscila, idiota» lo spintona Ryan, allontanandolo. «Alla ragazzina ci penso io» dice, gli occhi puntati nei miei. Marco alza le mani in segno di resa, e inizia ad andarsene imprecando.

Deglutisco, il mio cuore accelera e la sento, quella stupida, cazzo di paura. Mi gioco il mio ultimo briciolo di rabbia per rispondergli: «A me non ci pensa nessuno. Io penso a me stessa, e tu devi starmi fottutamente alla larga».

Ryan sorride, mettendosi tra me e Alice. Si avvicina, costringendomi ad arretrare verso il muro scrostato del civico 32. Mi alza il mento, sento gli occhi caricarsi di lacrime, ma il mio corpo non trema. Non ho sussulti, tremori, niente. Il suo profumo inebria il mio olfatto, i suoi occhi schiariscono sotto la luce del sole.

«Ti conviene stare alla larga, piccola.» Il tono dolce, il tocco sicuro ma delicato. Il suo viso è abbassato sul mio.

«Ryan.» La voce di Thomas, incredibilmente seria, interrompe il nostro scambio di sguardi.

Ryan abbassa lentamente la mano, si raddrizza nella sua altezza, e inclina la testa, osservandomi ancora una volta da capo a piedi. Poi si gira di scatto e, rivolgendosi a Thomas, esclama: «Tieni le tue puttane alla larga».

Le mie labbra si aprono in un misto di sorpresa, offesa, irritazione.

«Vaffanculo, stronzo» dico in un sussurro. Mi rivolge un'ultima occhiata, come a dimostrare che mi ha sentito forte e chiaro, e prende la stessa direzione che l'altro suo compare ha imboccato, a grandi falcate, pochi minuti prima.

SOTTO LE PERSONEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora