18° - Cena.

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//chiedo scusa per errori

La settimana era passata in modo piuttosto confusionale.
Shinsou sembrava essere sparito nel nulla, e lui era sempre più preoccupato per l'incontro con i genitori di Jirou.
La settimana era ormai passata, ed in quel momento era in camera sua, tentando di finire quei maledetti problemi di matematica di cui, puntualmente, non capiva nulla. Fissava quei numeri scritti con l'inchiostro come fossero degli esseri alieni: li guardava, ma non li osservava; li vedeva, ma non li capiva. Sospirò, chiudendo poi il suo quaderno, dipinto di quelle scritte simili a dei geroglifici, pregando che almeno una di quelle maledette equazioni fosse corretta. Si lasciò cadere sullo schienale della sedia, stanco, mentre giocherellava con la penna bic a far scattare continuamente il tappo. Sospirò, e guardò l'orologio appeso sulla parete della sua camera. Segnava le sei meno venti, aveva ancora un'ora abbondante per prepararsi. Così si alzò e, pensieroso, si buttò sopra le coperte nere e gialle del suo letto, prenendo un fumetto a caso ed iniziando a sfogliarlo. Ci mise poco meno di cinque minuti a stufarsi della lettura, buttando poi il giornalino distrattamente sul suo comodino, sbuffando annoiato. Gli sembrava di essere incapace di fare qualunque cosa: tutto pareva essere più faticoso, noioso, quasi perdeva la propria vitalità. Erano forse i tanti pensieri nella mente a causargli tanto stress?
Certamente, erano quelli. Magari non erano molti, ma erano pesanti e tristi, oppure misteriosi e bisognosi di una risposta. Domande senza un seguito, ipotesi che si facevano sempre più assurde, ricordi di volte e sensazioni che si mostravano sempre più presenti. Che fare in quella situazione? Non lo sapeva neanche lui, ecco cosa. Non gli era mai capitata una cosa simile: tante novità, emozioni, avvenimenti che arrivavano come un'improvvisa tempesta, come un'onda che soprendeva una nave a largo. Intanto giochicchiava con i suoi capelli, mentre già immaginava la cena con i genitori della sua ragazza. La sua ragazza...
Cavoli, come era arrivato a dubitare persino dei suoi sentimenti? Come era finito in quel caos mentale? Era cambiato tutto nel giro di qualche attimo, eppure era stata una completa rivoluzione. Che fosse nel bene o nel male, tuttavia, non lo aveva ancora capito: con la confusione della sua testa, non aveva avuto il tempo per pensare a quello.
Guardò fuori dalla finestra, sconsolato. Le nuvole grigie coprivano la luce del sole, facendo filtrare solo pochi raggi eletti. Un rimasuglio di gelo invernale sembrava essere ritornato a galla, portando con sé quel venticello fresco e pungente che ti faceva venire la pelle d'oca; le foglie ondulavano da una parte all'altra, calme e costanti, mentre tingevano quel paesaggio scuro con una punta di atmosfera primaverile. Si udivano le auto sfrecciare sulla strada, le persone che chiacchieravano, i bambini che giocavano: seppur il tempo non sembrasse essere della loro opinione, tutti parevano essere particolarmente felici e di buon umore. Perché per lui era così diverso? Era sempre stato solare e allegro, eppure in quel momento non riusciva a rimanere vivace e sorridente: era come se qualcosa lo bloccasse dall'interno, come se qualcosa o qualcuno gli impedisse di rimanere completamente sereno. Il problema era ovviamente capire cosa: quante volte si era fatto quella domanda in quei giorni, non lo sapeva neanche lui. Eppure era così, lo sentiva: era perennemente nervoso e in ansia, come se una grande preoccupazione si facesse spazio in lui.
A riportarlo alla realtà terrena fu lo sbattere di una porta, quella di camera sua.
- DENKI! - urlò sua madre - Sono le sette meno cinque! Non dovevi essere da Jirou alle sette?! -

- Mamma rilassati! Sono le sei meno cinque, non le sette. - disse, indicando l'orologio. Quella sospirò, rassegnata alla memoria vacillante del figlio.
- Denki, mi pare di averti spiegato più volte che quell'orologio è indietro di un'ora. Dai, guarda come sei conciato! Vai a prepararti, su! - gli ordinò lei. Lui si alzò di scatto, ricordandosi improvvisamente della cosa, e corse verso il bagno.
Ne uscì dopo solo un minuto: non indossava un abbigliamento elegante, solo un paio di jeans, una maglietta bianca ed una felpa nera. Se solo si fosse ricordato, forse, si sarebbe potuto preparare meglio.
Prese solo il cellulare, ed uscì di corsa di casa. Le strade non erano completamente buie, dopotutto non era più inverno, le giornate sembravano allungarsi. Stava correndo il più velocemente possibile, mentre doveva fare uno slalom infinito attraverso i gruppetti di persone che se ne stavano fermi a chiacchierare. Le auto sfrecciavano, la gente parlava, e lui doveva costantemente controllare il suo orologio da polso: anche in mezzo alla strada, gli sembrava di udire l'inquietante ed insistente ticchettio dell'oggetto che si occupava di ricordargli quanto fosse in ritardo. Girò qualche volta, fino a che non riuscì a scorgere la casa della ragazza. Fece un ultimo scatto, quasi fosse una gara di atletica, e finalmente arrivò a destinazione. Usò lo schermo del telefono per controllare se fosse tutto in ordine: controllò dal riflesso i capelli, che avevano ben deciso di non restare ordinati. Non se ne preoccupò molto: semplicemente tentò di farli ritornare nuovamente decenti con la mano che non reggeva il cellulare, ma nulla di più. Sospirò e, dopo un secondo di preparazione psicologica, andò a bussare alla porta di casa Jirou.
Ci misero qualche secondo ad aprire. Una donna, non molto alta, dai capelli del medesimo colore della figlia, indossava un semplice dolcevita bianco e un paio di pantaloni più scuri.
- Kaminari! Ben arrivato! - esclamò subito, in tono gentile. Lasciò entrare il ragazzo nell'abitazione e richiuse la porta.

𝐒𝐇𝐈𝐍𝐊𝐀𝐌𝐈❞ˌ˚» 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝗰𝗲 ˡˡ 𝚑𝚊𝚗𝚊𝚑𝚊𝚔𝚒 𝚍𝚒𝚜𝚎𝚊𝚜𝚎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora