1° - Malato.

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Non reggeva più.
Non riusciva a tenerlo dentro, doveva dirlo.
Si sentiva stressato, inutile, diverso, debole, non degno.
Per i suoi genitori era già stato un colpo quando non era stato ammesso alle sezioni A e B, e probabilmente quella sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
Tuttavia, per quanto sapesse che probabilmente non sarebbe stato accettato, riteneva necessario levarsi quel peso dal petto una volta per tutte.
Quel giorno, come gli altri, rientrò a casa, si tolse le scarpe e le mise in ordine, salì in camera sua e chiuse la porta a chiave. Si sdraiò a pancia in su sul suo letto, la pelle pallida e gli occhi stanchi, le borse sotto di essi che si facevano sempre più evidenti, i capelli viola scompigliati che ricadevano disordinati sulle coperte turchesi poste sopra al non propriamente comodo materasso. Un sospiro malinconico si fece spazio nel silenzio tombale di quella stanza, disturbato solo dal lieve fruscio del vento invernale che accarezzava dolcemente i lineamenti del giovane, entrando dalla finestra aperta della stanza.
Chiuse delicatamente le palpebre, stanco, con la consapevolezza che sarebbe stata una serata più difficile delle altre. Il cuore batteva forte, colmo d'ansia e preoccupazione, le energie che sembravano non voler farsi sentire, il coraggio che veniva a mancare. Un'altra volta, un sospiro si lasciò andare dalle sue sottili labbra. Si alzò di forza dal suo letto, aprì la porta dalla sua stanza e, con tutta la lentezza del mondo, scese le scale della casa. Si avviò verso la cucina, l'ansia che sembrava prendere interamente possesso del suo corpo, la preoccupazione che aleggiava nell'aria, la tensione e l'agitazione che gli circondavano la mente. Un passo dopo l'altro, superò la porta di legno che separava le stanze. Vide la figura femminile di sua madre lì, il corpo magro e perfetto, la postura rigida ed elegante, il portamento degno di una regina. Con sguardo altezzoso, i suoi occhi truccati con cura si posarono sul ragazzo appena entrato. Il vestito di tessuto raffinato ricadeva perfettamente sulla sagoma della donna, le spalline color dell'ambra che lo rendevano più ricercato, i gioielli indossati che ne aumentavano il prezzo.
- Hitoshi. - salutò poi la figura, limitandosi a fare un cenno col capo. Squadrò per qualche secondo il vestiario disordinato del figlio. - Hitoshi, riordinati la giacca. Non siamo una banda di senza tetto. - lo rimproverò poi. Si avvicinò al ragazzo e, senza scomporsi, allacciò con cura i bottoni della divisa.
- Mamma, siamo in casa... -

- Appunto. Tenta di sembrare un essere civile. -

La signora si allontanò, e ritornò nuovamente ad armeggiare con i fornelli.
- Buongiorno papà. - disse poi il ragazzo, riferendosi ad un uomo seduto comodamente sul divano, la televisione accesa ed una tazza di caffè. Egli si limitò a sua volta ad alzare leggermente l'oggetto in ceramica e riabbassarlo, senza mai però staccare gli occhi dal freddo schermo di quel apparecchio.
- Hai bisogno di qualcosa, Hitoshi? - chiese poi il padre, mentre sorseggiava la sua bevanda.

- Veramente... Sì. - ammise alla fine.

La donna ai fornelli alzò nuovamente lo sguardo. Gli occhi color della notte si posarono rigidi su quelli del ragazzo. Incrociò le braccia, sempre senza scomporsi, mentre con un'espressione sospettosa osservava il viola.
- Dicci, Hitoshi. Non fare il difficile. Non abbiamo tempo da perdere. - disse poi il padre, senza degnarsi di guardarlo.
Un groppo gli si formò alla gola. I discorsi che si era mentalmente fatto, le prove, i monologhi mentali, non erano serviti a nulla. Doveva semplicemente dire due parole, corte, semplici, ma che per lui sembravano essere un ostacolo impenetrabile. Raccolse il poco coraggio che gli restava in corpo e in cuore.
- Mamma. Papà. - disse, serio - Sono gay. -

•~•

La tavola era apparecchiata perfettamente. Vi era una tovaglia bianca, con sopra tre piatti, le rispettive posate e i bicchieri. I tovaglioli erano piegati con cura e riposti di fianco a quelle lastre di ceramica. Una bottiglia di vetro di acqua naturale era posizionata al centro della composizione. Tuttavia, solo due persone erano sedute a tavola. Il signor Shinsou e Hitoshi stesso. Una calda zuppa era servita nelle fondine decorate, bianche, e tutti e due attendevano che il fumo caldo che essa emanava si distogliesse del tutto per poi iniziare a mangiare. Il cucchiaio era impugnato nella mano destra, in attesa di essere usato. L'argento con cui era fatto risplendeva alla luce calda del lampadario che pendeva dal soffitto.
Dopo minuti, il piatto di entrambi smise di fumare, e i due iniziarono quindi a gustarsi la cena. Anche senza fumo, la pietanza rimaneva calda, quindi ci misero comunque un po' prima di finire. Quando le fondine del signor Shinsou e del figlio furono completamente vuote, la signora Shinsou scese furtivamente dalle scale del piano di sopra, una borsa in mano, mentre si addentrava come se nulla fosse nella cucina.
Una volta finito il pasto, il ragazzo si alzò educatamente dal suo posto, prese il proprio piatto e lo poggiò nel lavabo.
- Grazie per la cena. - disse - Vado in camera. -

𝐒𝐇𝐈𝐍𝐊𝐀𝐌𝐈❞ˌ˚» 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝗰𝗲 ˡˡ 𝚑𝚊𝚗𝚊𝚑𝚊𝚔𝚒 𝚍𝚒𝚜𝚎𝚊𝚜𝚎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora