Ricordi.

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Chi diavolo era quella ragazza?

A Frank pareva di sentire ancora il suo sguardo puntato addosso.

Quando si era accorto della sua presenza, lei era sembrata così spaventata.

Eppure era lui quello che aveva paura degli altri.

O meglio, aveva paura di quello che gli altri potevano dirgli.

Questa storia andava avanti da troppo.

Ricordava ogni singolo episodio. Ogni singolo scherzo, ogni singola umiliazione, ogni singolo insulto.

Se li archiviava in un luogo non ben definito della sua mente, in attesa.

In attesa di cosa?

Lui non lo sapeva.

A volte, ripensandoci, sentiva un bruciore insopportabile nel petto, una sensazione opprimente. Gli veniva solo voglia di urlare, di prendere a pugni i muri.

E l'aveva fatto.

Nella penombra della sua camera, aveva consumato parte della sua voce, aveva provato tutti i tipi di urla: quelle prolungate, quelle deboli, quelle decise, quelle con la disperazione dentro, quelle con la frustrazione, quelle da togliere il fiato, quelle da farsi pizzicare la gola.

E aveva anche preso a pugni i muri, si era scorticato le nocche, aveva rovinato l'intonaco blu, creato depressioni nel cemento, segni indelebili della sua rabbia.

Era in quei momenti così bui che percepiva una parola, una sensazione, quasi gli fosse stata marchiata dentro col fuoco:

Vendetta.

E forse era proprio questo che voleva, forse voleva solo un po' di vendetta, ristabilire l'equilibrio, tornare ad avere una dignità.

Ricordava ancora perfettamente quella volta che Thomas, Bob e Dylan, i ragazzi più popolari della scuola in assoluto, verso l'inizio del primo anno gli avevano strappato via qualcosa dal cuore.

Ai tempi non aveva ancora paura.

Andava ancora tutto bene per lui.

Era ricrezione, lui stava frugando nel suo armadietto.

L'avevano bendato, a sorpresa, da dietro.

Frank si era messo a ridere.

«Dai, ragazzi, lasciatemi.»

«Vieni con noi, Iero. Abbiamo una sorpresa per te.»

E lui non si era preoccupato, non aveva temuto il peggio, li aveva seguiti.

Dopo qualche passo aveva udito una porta cigolare.

Poi, un'odore quasi insopportabile, un misto di ammoniaca, prodotti per pulire i pavimenti e piscio.

Delle risatine, quelle risatine che avrebbero continuato a perseguitarlo.

Con un pezzo di nastro adesivo gli avevano tappato la bocca.

Lui tentava di parlare, senza successo.

Gli avevano infilato la testa nei cessi, più volte, ripetutamente, e lui tentava di ribellarsi, e non ci riusciva, e si sentiva soffocare, e l'aria iniziava a mancargli.

Si fermarono, dopo qualche minuto, e lui sentì una superficie dura schiantarglisi contro il cranio, per farlo cadere in un sonno profondo.

Quando si svegliò, aveva freddo. Non era più bendato.

Qualcosa di gelido picchiava contro la sua schiena.

In quel momento, si accorse di avere i polsi legati all'indietro, come ad abbracciare il palo che gli sfregava la schiena, ma al contrario.

E aveva freddo, molto freddo.

Le risate iniziarono a rimbombargli nelle orecchie, prima deboli, poi forti, come se stesse riacquistando l'udito.

Aprì di scatto gli occhi, guardandosi intorno.

Si accorse di essere nudo, nudo come un verme, fatta eccezione per i boxer.

Era nel cortile della scuola, legato all'asta che sorreggeva la bandiera.

Davanti a lui, vicina, vicinissima, una telecamera, sorretta da quei tre.

Nel riflesso dell'obiettivo vide se stesso riflesso, con una botta in testa, e una scritta campeggiargli sulla fronte, nera, probabilmente fatta con l'indelebile.

Pansy.

Da lì, ricordava solo di aver tentato di trattenere le lacrime di rabbia, e che dopo poco arrivarono dei professori a liberarlo.

--

Scosse la testa, tentando di cacciare via questi ricordi. Facevano male. E quello era solo uno degli svariati episodi. Il primo, il più traumatico.

Si osservò il polso.

Pansy.

A volte se lo scriveva, a penna, per non dimenticare, per non lasciare che la sua rabbia di affievolisse.

Anche se, d'altronde, gli altri studenti non mancavano del ricordarglielo quasi ogni singolo giorno.

Raggiunse l'aula di chimica, dove trovò Gerard seduto ad uno dei banchi in prima fila.

Di solito anche lui si sedeva lì.

Avrebbe preferito stare infondo, per essere meno osservato, ma lì ci stavano i "fighi".

Davanti, almeno, non ti dava fastidio quasi nessuno.

Si sedette dietro Gerard, che si voltò.

«La camicia?»

«L'ho cambiata.»

Abbassò lo sguardo.

«Senti Frank...La prossima volta stiamo dentro, usciremo di nuovo tra un po', okay?»

«Okay, non preoccuparti.»

Ma sapevano entrambi che non era okay.

Gerard squadrò ancora per un attimo l'amico, quando notò che un bottone sul petto era sbottonato.

Nemmeno ci pensò.

Allungò le braccia e glielo sistemò, per subito ritrarle.

Nel momento stesso del contatto con la pelle di Frank, gli era partito un fremito.

«Oh, grazie.» Disse lui disinvolto.

«Ho dovuto fare in fretta.» Tralasciò il particolare della ragazza.

«Di niente.» Rispose Gerard, con la voce lievemente tremante.

Poi, la lezione cominciò.

I'm not o-fucking-kay.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora