Capitolo 3 - Prima festa.

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«Sharon, sbrigati o me ne vado senza di te!», urlai mentre ero seduta sul mio letto a braccia conserte.

Ero stufa di aspettarla, avevo passato almeno un'ora a sbuffare e minacciarla, con lei che urlava "cinque minuti e sono pronta".

E la cosa peggiore era che lo ripeteva ogni cinque minuti, a dir poco estenuante direi.

«Dammi soltanto...», fece per ripetere ed io mi alzai di scatto.

«No, ti do un secondo per uscire da quel bagno o giuro che vengo lì e ti trascino fuori tirandoti dai capelli!», la minacciai.

Non stavo affatto scherzando e lei lo sapeva tanto che, ad un certo punto, sentii scattare la serratura della porta.

Ma, ovviamente, non l'aveva sbloccata, bensì si era rinchiusa lì dentro!

«Sharon, sai meglio di me che sono in grado di sbloccare una serratura soltanto usando una forcina, quindi ti consiglio di muoverti», le feci notare e la sentii lanciare un mugolio lamentoso.

Poco dopo, fuoriuscì dal bagno, piombando in camera tutta nervosa mentre sbatteva i tacchi sul pavimento con violenza.

«Dovevo mettere soltanto un altro po' di mascara! Non vedi che mostro sembro?», urlò indicandosi la faccia.

Io la guardai per un momento e non capii cos'avesse che non andava.

Era davvero stupida, quando ci si metteva: non capiva quanto bella fosse e che non avesse bisogno di riempirsi la faccia con quel miscuglio di porcherie.

«Prima o poi ti cadranno le ciglia, se continui di questo passo», replicai. E secondo me sarebbe potuto accadere davvero.

Lei, per tutta risposta, mi mostrò la linguaccia, facendomi alzare gli occhi al cielo.

Mi avviai verso la porta, credendo che lei si trovasse alle mie spalle, ma quando posai la mano sulla maniglia sentii la sua voce chiamarmi.

Mi voltai e la trovai seduta sul suo letto con due lucidalabbra tra le mani.

«Secondo te quale mi sta meglio?», mi chiese un parere ed io le lanciai un'occhiataccia.

A parte il fatto che erano molto simili, quasi uguali, tendente sul color pesca, quindi sarebbe stata molto superflua la scelta.

Ma, arrivando al punto, era tardi ed io non volevo arrivare per ultima: odiavo essere osservata dalla gente, specialmente perché eravamo delle matricole e nessuno ci conosceva ancora.

Erano le otto e trenta e non intendevo perdere un minuto in più qui dentro a causa sua.

Perciò, la raggiunsi a grandi falcate e la afferrai per un braccio, per poi trascinarla letteralmente fuori dalla nostra stanza.

Quando mi chiusi la porta alle spalle vidi lei che mi guardava con un'espressione contrariata.

«Non osare replicare, Evans», la avvertii.

«Oggi sei più nervosa del solito, mi sa che il botto che hai preso alla testa ti ha fatto male davvero», dichiarò ed io la guardai male, facendola ridere.

Mi prese a braccetto e mi stampò un bacio sulla guancia.

«Ti voglio bene, tanto, lo sai?», disse poi, nel tentativo di rimediare alla sua affermazione.

E aveva funzionato. Lei era mia sorella, magari non di sangue ma per scelta sì.

Ci eravamo conosciute all'età di otto anni e faceva ormai parte della mia vita da undici anni, certo c'erano stati dei litigi in passato - proprio perché eravamo persone molto diverse - ma riuscivamo sempre a risolvere in un modo o nell'altro, alla fine di rafforzare il nostro rapporto.

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