XIX

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Avevamo trascorso un anniversario magnifico, mi aveva stupita come solo lui era in grado di fare, mi aveva dato tanto amore, mi aveva dedicato una giornata intera senza mai mettere mani al cellulare, aveva preferito me alla partita della sua squadra del cuore, aveva accontentato ogni mio capriccio.Mi resi conto durante quella giornata passata insieme h24 di quanto fosse cresciuto dalla prima volta che lo avevo incontrato, e ne ero orgogliosa, avevo finalmente un uomo al mio fianco, anche se aveva poco più di 18 anni, io accanto sentivo di avere un uomo. Lo sentivo dai suoi gesti, dalle sue parole, dai suoi modi di fare, lo avevo capito mentre facevamo l'amore. Ritornammo poi alla vita di tutti i giorni, con una marcia in più, con maggiore sicurezza e anche con un motivo in più per cui mia suocera poteva sparlare (parlo della giornata a Napoli, lontano dai suoi occhi infami). Riprendemmo a vederci nel tardo pomeriggio dopo aver lavorato, sulla panchina della piazza. Era passata una settimana dal nostro stupendo anniversario e noi eravamo sulla nostra panchina a ridere e a scherzare con alcuni nostri amici delle gaf che avevamo fatto in giro per Napoli. Io raccontavo a Ubaldo delle figure che aveva fatto Francesco nel momento del check-in in hotel, quando mi spacciò per sua moglie davanti alla commessa di Zara che non voleva farlo avvicinare ai camerini femminili, e lui raccontava la mia camminata disinvolta di quando ebbi la brillante idea di mettere il tacco a spillo per scendere per Napoli. Ridevamo come matti, come non avevamo mai fatto, e ripensavamo alle scemenze che eravamo stati in grado di fare. Era una giornata tipica, come eravamo abituati a trascorrere, o almeno così doveva essere. Quando nel bel mezzo delle risate Francesco prende la vespa e si allontana per andare a prendere una busta di San Carlo al pomodoro, nonostante gli avevo ripetuto che non mi andava. Così lo vidi allontanarsi, mentre io rimasi a scherzare con Ubaldo e Giovanni, suoi amici ma anche miei vicini di casa. Ero rimasta su quella panchina che sapeva di noi, quando all'improvviso un tonfo cupo geló tutto il sangue che mi circolava in corpo. Ricordo la corsa fino a giù il paese, la vespa in mille pezzi e una valanga di sangue che rigava il volto di Francesco. Un urlo lacerante uscì dalla mia bocca, mentre cercavo disperatamente di farlo svegliare. Nel giro di pochi minuti un folla di gente si creò intorno a noi, gente che mi guardava con aria sconfitta, che mi esortava ad allontanarmi da quello che era ancora il mio fidanzato. I minuti che passarono dal momento dell'incidente fino all'arrivo del l'ambulanza sembravano non passare mai. Cercavo invano di rianimarlo, non riuscivo nemmeno a capire dove fosse la ferita, il sangue era troppo da permettermi di capire e man mano che passavano i minuti lui ne perdeva sempre più. Fino a che dopo 12 minuti di agonia arrivò il 118 che caricò Francesco da terra e corse in ospedale, dove nel frattempo i suoi genitori si stavano recando. A me rimase il suo bracciale pieno di sangue e il dolore straziante nel cuore. Avevo 16 anni ma non ero stupida, sapevo bene che la situazione era grave, l'avevo capito dal momento in cui con il cuore in gola ero arrivata in piazza e l'avevo visto a terra. Erano andati via tutti, lì in piazza ero rimasta io, i suoi amici e quella maledetta campana di gesso che si usano per evitare la sosta davanti agli esercizi commerciali. Quella campana un tempo bianca era diventata rossa, aveva ridotto in fin di vita l'amore della mia vita. Non me ne capacitavo. Non volevo crederci. Ma la batosta non tardò ad arrivare. Dopo pochi minuti da quando Francesco era stato soccorso, l'avevano trasferito dall'ospedale di Aversa, la nostra città, al Cardarelli di Napoli. Quel trasferimento non lasciava pensare a nulla di buono. Non mi sbagliavo, aveva avuto un violento trauma cranico, ed era entrato in coma poco dopo.
Quel referto medico fu una bomba lanciata nel mio corpo, che mi aveva letteralmente distrutto in mille pezzi.

Io e Te, il resto non conta ❤ Where stories live. Discover now