10) TIMORE

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Saaràn e Kutula rimasero in silenzio.

Nel ripensare alle cose appena dette e a quelle che da esse rimasero sottintese, il momento di gioia passò e la complicità che così spontaneamente si era venuta a creare tra di loro, s'interruppe.

Per un breve lasso di tempo tornarono a essere individui separati l'uno dall'altro e fu un bene, perché Saaràn ebbe modo di ritornare in sé e riflettere.

Si accorse dell'intimità che si stava riformando velocemente tra di essi e del pericolo che una cosa simile comportava, soprattutto per lui e per la sua famiglia.

Era dolce illudersi, bello ripensare ai momenti felici di un tempo lontano, eppure si ricordò anche di chi furono i suoi padri; di chi era lui in questo momento e di cosa sarebbe stato suo figlio dopo di lui: egli era il Naaxia e davanti a lui sedeva il Khan, il signore padrone dell'Orda, che in un attimo poteva disporre della sua vita così come della sua morte.

Non poteva veramente illudersi che Kutula gli fosse amico.

Per quanto fossero Anda sino dall'infanzia, troppo tempo era passato, troppo potere era scorso nelle mani del suo antico amico, perché costui non temesse di vederselo portare via da qualunque cosa potesse minacciarlo.

E a Saaràn, abituato a scorgere cose non visibili ad altri, non era sfuggita la sorpresa che Kutula dimostrò nello scoprire che la Signora incontrò il Naaxia piuttosto che il Khan.

Quello stupore avrebbe potuto essere fatale per chi non vi avesse prestato attenzione.

Poteva essere pericoloso, molto pericoloso parlare ancora di quelle cose, se Kutula l'avesse giudicato dannoso per il suo prestigio davanti all'Urdu.

Doveva fare molta più attenzione, essere prudente nel pensare e cauto nel parlare, se voleva tornare alla sua Yurta quella sera.

Era nell'animo dei guerrieri Un essere spietati e il Khan, se voleva risvegliarsi alla mattina, doveva esserlo più di tutti.

A un suo cenno il Naaxia aveva avuta salva la vita, ma al medesimo modo, un solo cenno da parte sua e non sarebbe uscito vivo dall'accampamento.

Si disse che avrebbe fatto bene a non dimenticarsi che all'esterno della Yurta vi erano migliaia di guerrieri che non aspettavano altro che un segnale dal loro padrone per farlo a pezzi e metterlo a bollire in un pentolone come cibo per i cani.

Lui era il nemico, il traditore, buono solo per essere disprezzato e segnare un inutile percorso nella Steppa.

Se voleva sopravvivere, doveva tenerselo ben a mente: egli era null'altro che questo, sterco che un giorno avrebbe concimato la pianura.

Quello era il suo posto e né ora né mai avrebbe fatto parte dell'Urdu come gli altri Un.

Perciò, pensò con rammarico, se voleva salvare la sua famiglia e se stesso dalla rovina, avrebbe fatto bene a non dimenticarsene mai.

Si massaggiò i polsi, le spalle, il collo dolente, ogni punto dove ancora la pelle gli bruciava.

La prolungata stretta del Syedan vi aveva lasciato profondi segni che presto sarebbero guariti, ma l'umiliazione subìta nell'animo bruciava molto di più e sarebbe durata ancora a lungo.

Chi aveva dato l'ordine di metterlo alla gogna? Si domandò, mentre vedeva i segni delle corde sui polsi.

Difficilmente un Un avrebbe preso un'iniziativa del genere, se non gli fosse stato detto da un superiore.

Ma da chi, e perché?

Sapeva di correre dei rischi a obbedire al suo Khan, eppure ne avrebbe corsi di più nel disobbedirgli.

OCCHIO LIMPIDOTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang