EPILOGO

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Guidavo verso una destinazione ignota. Guidavo con gli occhi fissi sulla strada, occhi che però non erano né lucidi né tanto meno bagnati. Occhi che non avevano versato nemmeno una lacrima.

Il mio cuore batteva all'impazzata e la mente non riusciva a smettere di pensare che tutti i cattivi della storia erano stati miei amici.

Garreth era stato il mio datore di lavoro per due anni e il mio intuito, a cui mi ero sempre affidata, non si era accorto di nulla.

Il Traghettatore mi aveva manipolato a suo piacimento portandomi a costruire una trappola per le persone che invece volevo proteggere. Perché in fondo quell'incontro era stato una trappola fin dall'inizio: era stato Garreth a decidere quando i Greens e i Blacks avrebbero scoperto la verità, era stato lui a decidere quando si sarebbero fatti la guerra e quando avrebbero deposto le armi.

Eravamo stati tutti delle marionette nelle sue mani.

Che senso avrebbe avuto rimanere ancora in quella fabbrica?

Avevo spinto io affinché Blacks e Greens si unissero.

Ero stata io a offrirli su un piatto d'argento a Garreth.

Ero stata io a sbagliare.

Ero stata io a metterli in pericolo.

Da quando quella storia era iniziata avevo solo commesso degli errori, avevo solo fatto soffrire le persone che non se lo meritavano e mi ero fidata di chi mi aveva mentito.

Potevo capire lo shock di tutti quelli che mi stavano intorno, erano tutti arrabbiati, tristi, infuriati. Io ero rimasta lì seduta in mezzo a quel caos come un corpo vuoto, senza più spirito.

Mi ero ripromessa che non avrei più toccato il fondo così, mi ero ripromessa che non avrei più permesso a nessuno di ridurmi come avevano fatto mia madre e Nick.

Eppure era successo di nuovo, mi ero ancora una volta fidata delle persone sbagliate. Non erano servite a nulla le mura che avevo eretto intorno a me, niente aveva impedito al Traghettatore di superarle.

Non avevo concesso la mia fiducia a nessuno nel corso di tre anni. Non mi ero aperta nemmeno con Kora, la persona che mi era stata accanto più di tutti, ma lo avevo fatto con lui. Ero stata una stupida, mi odiavo per quello che avevo fatto agli altri e soprattutto a me stessa.

Odiavo il Traghettatore anche più di mia madre. Lo odiavo perché mi aveva mostrato come le mie difese fossero fragili, come chiunque potesse infiltrarsi nel muro di ghiaccio che mi proteggeva.

Con mia madre mi ero sempre convinta di essere stata troppo debole, troppo ingenua, troppo impreparata ad affrontare il mondo. Ma questa volta nonostante tutto l'arsenale di armi a mia disposizione, mi ero fatta fregare di nuovo e stavo soffrendo di nuovo.

Pensavo che non avrei mai più potuto soffrire come a Denville, ma mi sbagliavo perché quella volta il dolore era più intenso, così intenso da non permettermi di respirare.

Accostai la macchina in una strada isolata, in posto qualunque di Bluebay e lasciai che la mia rabbia venisse fuori, che esplodesse con la speranza che potesse portarsi via un po' di quella sofferenza.

Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, urlai fino a non riuscire più a sentire la mia voce, urlai fino a quando le mie corde vocali non mi chiesero pietà.

Cosa c'era che non andava in me? Combinavo solo disastri. Credevo di essere forte, di essere intelligente, ma ero stata ingannata così tante volte da perderne il conto.

Mi accorsi che nessuna lacrima era ancora scesa, nessuna dannata lacrima mi bagnava il viso.

Ero forse insensibile?

Come potevo non piangere di fronte al fatto che la mia mentore fosse morta?

Come potevo non piangere quando avevo appena saputo che Charlene, la persona che mi aveva accolto come una nipote, non c'era più?

Forse il problema di tutta quella storia ero io, ero sempre stata io. L'erede del Lancaster Originale che si fa imbrogliare come una ragazzina. Charlene aveva sempre detto che quello era un onore: essere l'erede diretta era una cosa rara, una cosa di cui andare fieri. Mi aveva raccontato delle conseguenze, ma era sempre stata fiera del fatto che fossi io la persona in questione.

Avevo accettato quello che ero e anche tutto ciò che ne conseguiva, solo per Charlene. Avevo visto come fosse orgogliosa di me, come fosse fiera di quello che ero e come, per una volta, la persona che mi trovavo di fronte non volesse cambiarmi.

Mi voleva bene così com'ero.

Quel giorno nel suo negozio quando mi aveva raccontato come secondo lei io fossi l'erede diretta di Enrico VII io non le avevo creduto.

"In base a cosa lo dici? Perché io e non Kora?" Era arrabbiata per il fatto che credesse di conoscermi, quando in realtà non sapeva niente di me.

I suoi occhi erano dolci, comprensivi, disposti a darmi fiducia: "quello che hai fatto nel parco non è un'abilità che una semplice Lancaster dell'Acqua possiede... tu hai trasformato un intera area in una distesa di ghiaccio. Tu sei potente, Riley, sei la Lancaster più potente degli ultimi secoli... nella tua anima risiede la magia del primo Lancaster!"

"Tutto questo potere cosa comporta?" Le avevo chiesto

"Pragmatica come al solito..." mi aveva sorriso. "Quando Enrico fu ucciso, un membro del branco che gli aveva fornito il potere cercò di stappargli quella magia dal corpo ovviamente non ci riuscì, ma..."

"Ma?" L'avevo spinta a continuare, consapevole che non ci fosse niente di buono in quello che voleva dirmi.

"Ma riuscì a maledire i suoi eredi..."

Scossi la testa e ricacciai indietro il ricordo delle sue parole, di quello che mi aspettava in futuro e che avevo cercato invano di dimenticare.

Mi ricomposi, respirai piano, regolarizzai il mio battito e afferrai il telefono.

<Jay, sono Riley, dobbiamo vederci... solo noi due, ho qualcosa di cui parlarti.>

Proprio mentre stavo spegnendo lo schermo del telefono, l'occhio mi cadde sui messaggi che mi ero scambiata il giorno prima con il Traghettatore. Lo avevo memorizzato come <occhi antracite> con un faccina con l'occhiolino e la linguaccia.

Come avevo fatto a sbagliarmi così tanto?
In fondo non ne sarei dovuta rimanere sorpresa: noi due eravamo come acqua e fuoco, incompatibili, due elementi che non possono coesistere senza annientarsi a vicenda.

"Siamo acqua e fuoco, Stone..." Ripetei in silenzio.

Il telefono suonò, ricevetti l'indirizzo in cui io e Jay ci saremmo incontrati e mi affrettai a raggiungerlo. Era il momento di chiudere definitivamente quella storia.

Non volevo saperne più niente di quel mondo.

Pov Caleb:

Strinsi l'anello di mia madre tra le mani e le sue parole risuonarono nei meandri dei miei ricordi:

"Caleb, tesoro, tu sei un combattente, sei un eroe, ma non uno di quelli che fa risplendere la sua armatura alla luce del sole. Tu sei quel guerriero che ama agire nell'ombra, che ferisce per non essere ferito, che combatte per difendere i più deboli e se questo significa soffocare il vero se stesso, è disposto a farlo..."

Quelle furono le parole che mi disse per spingermi a scappare dalla nostra casa, ad abbandonare come un codardo i miei genitori e a lasciarli morire.

Lei si sbagliava: io non ero un eroe, non lo ero mai stato e non lo sarei mai stato.

Non dopo tutto il male che avevo fatto.

Il male faceva parte di me, anzi era una parte di me e non aveva più senso combatterlo... dovevo solo annegarci dentro.

Siamo ACQUA e FUOCOWhere stories live. Discover now