Chicago 6 Parte

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Dopo che Logan ebbe pagato gli ingressi, passarono i controlli ed entrarono nella sala iniziale del museo.  Per la prima volta dall’inizio del viaggio, Brenda assistette alle spiegazioni di un altro componente del gruppo.

Kiki, con diligenza e passione, spiegava ai suoi compagni le varie opere che si snodavano lungo il percorso della galleria d’arte. In particolar mondo si soffermò davanti al dipinto “Colazione in riva al fiume”, dove tre personaggi in una terrazza consumavano piacevolmente la colazione, vicino ad un fiume che si scorgeva alle loro spalle, lungo il quale scorrevano delle canoe.

«Io amo Renoir e i suoi dipinti» ammise senza paura di alcun giudizio, facendo in modo che il gruppetto si fermasse davanti alla tela su olio per catturarne i dettagli.

La donna di spalle, in abito scuro, osservava le canoe sul fiume mentre i due uomini rappresentati si rilassavano: uno fumando il sigaro, l’altro identificato come il sig. de Lauradour, amico del pittore, godendosi il banchetto.

«Era il pittore della “joie de vivre”, perché voleva sempre rappresentare soggetti che suscitassero gioia, dato che nel mondo di infelicità ce n’era già abbastanza. Così chi avesse visto uno dei suoi quadri avrebbe potuto scorgere la bellezza della vita e dimenticare per un po’ la tristezza che ci circonda.»

Ascoltavano con attenzione il racconto sul pittore, uno dei massimi esponenti dell’espressionismo francese.

«Ma perché ebbe così tanto successo?»  chiese Brenda, incuriosita dai colori del dipinto.

«Probabilmente perché dipinse con grande maestria scene della quotidianità come ad esempio l’opera “La colazione dei canottieri”, in cui rappresentò una pranzo al ristorante tra amici.»

«Lui sì che aveva vissuto per il suo sogno» commentò la biondina, per nulla stanca di poggiare su tacchi vertiginosi.

«Sì, hai ragione, Amber.» Kiki si avvicinò lentamente al quadro.

«Pensate, quando la moglie morì, le dedicò una piccola tela in segno di devozione, un mazzo di rose a testimoniare il suo amore per lei e per la pittura.»

«Forse per dimenticare il dolore» commentò da distante Jacob, avvolto in un silenzio avvolgente e impermeabile.

Kiki continuò la spiegazione come se non avesse udito.

«Una passione che non finì mai. Pensate, da vecchio in carrozzina, si faceva aiutare a tenere in mano i pennelli legandoli alle dita, nonostante soffrisse di artrosi, per poter continuare a coltivare la ragione per cui era nato.»

Emily, in disparte, si commosse. Brenda era impaziente di altri particolari, Aberdeen era impaziente e basta.

«E tu sei mai riuscito a vendere o a fare una mostra dei tuoi quadri?» chiese sarcasticamente Aberdeen, aspettando una risposta che conosceva già.

Kiki scosse la testa e Aberdeen sorrise beffardo.

E la sua mente tornò al passato, quando da ragazzino sua madre scoprì che lui saltava le lezioni per seguire i corsi di pittura. Era seduto a tavola e lei urlava: «Kiki, devi studiare! Non devi perdere tempo con i disegni!»

«Mamma, non sono disegni, è quello che mi piace fare.»

«Ma cosa stai dicendo?»

«È quello che farò da grande» ribatté lui impaurito, tentando di sfidare l’autorità materna.

«Non sai i sacrifici che io e tuo padre abbiamo fatto per te, abbiamo lasciato la città in cui siamo nati e ci siamo trasferiti ad Anchorage per darti un futuro!»

«Ma io voglio dipingere» si giustificò ancora lui, con gli occhi intimoriti e lucidi.

«Sei solo un ragazzino e non puoi sapere cosa vuoi!» urlò così forte da infrangere la sua sensibilità. «Vieni qui ascoltami» continuò a sbraitare mentre lui usciva dalla porta di casa in lacrime.

Ora, in quel museo, appesi alle pareti c’erano solo sogni realizzati, gli stessi che i grandi maestri avevano coltivato da bambini, cresciuti qua e là spontaneamente come i fiori in un campo, senza che qualcuno lo chiedesse o li volesse. Erano stati assecondati e sudati e si erano trasformati in opere d’arte, da cui tutti potevano prendere ispirazione, come a voler spronare chiunque si fermasse davanti a far lo stesso con la propria vita, piccola o grande che fosse, perché ogni uomo dentro di sé ha il potere immenso di realizzare se stesso.

Era ciò che Kiki aveva tentato di spiegare alla madre quando stava per lasciare la città in cui era cresciuto per cercare nel mondo il suo sogno e lei, in lacrime, gli ripeteva di non partire, di trovarsi un buon lavoro e crescere una famiglia.

Probabilmente aveva vinto lei, ora che le parole di Aberdeen gli avevano rimarcato di non essere riuscito a far esporre anche uno solo dei suoi quadri.

Eppure questi capolavori esposti nel museo possedevano la facoltà, in persone come Kiki, ma anche in gente comune e senza talento, di far svanire in un batter d’occhio la paura della sconfitta o l’angoscia dell’ennesimo fallimento, che maturano con gli anni, e di liberare quei sogni e quelle ambizioni che tutti custodiamo dentro e che non muoiono mai. Le forme, i colori e i contrasti delle opere riaccendevano dentro di loro la consapevolezza data dall’irrazionale, che esistevano altre strade, altri modi di essere a dispetto della sicurezza di un lavoro ben pagato, di una casa sicura, della routine quotidiana; la libertà concessa a pochi eletti, che hanno il coraggio di seguire il proprio cuore nonostante tutto.

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