Capitolo 17 - Che ora abbiamo? -

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I successivi due anni furono tremendi. Li rivedo tutti insieme come se fosse un cazzo di film, davanti ai miei occhi. Quello che al tempo credevo fosse stato il mio salvatore si rivelò essere una bestia umana, oltre che mio nonno. Non lo avevo mai conosciuto e credo che mia mamma abbia avuto una valida ragione per non presentarmi a lui. Era aggressivo, calcolatore e un maniaco. Non sessuale, per fortuna. Per due anni interi mi rinchiuse in casa, mi allenò tutti i giorni, duramente, picchiandomi se necessario. Ricordo bene quei giorni.
<<Ci rivendicheremo di tua madre>>
<<Tu sei la mia arma>>
Le frustate se mi fermavo un solo secondo nel colpire l'albero a pugni. Ricordo bene, fin troppo bene. A volte le sue parole mi rimbombano ancora in testa.
<<Tu sei un mostro>>
<<Sei una macchina da guerra>>
<<Non fermarti>>
<<Non urlare, sopporta il dolore>>
Aveva una pacatezza e una calma mentre mi diceva queste cose che mi faceva una paura tremenda. Lui mi fece diventare un Triibrido completo. Lui catturava i colpevoli, io li uccidevo. Era questo il meccanismo. Se non li uccidevo, al patibolo di fronte alla casa. Un pilastro di metallo posizionato a terra. Aspettai per due anni che qualcuno mi salvasse. Qualsiasi persona. Ma nessuno si accorse di me. Della mia assenza. A parte Alan. Mi avrebbe detto in futuro che lui, insieme a suo padre John, avrebbero usato tutti i mezzi possibili per farmi uscire da lì. Non ci riuscirono. La casa era accerchiata da un incantesimo quindi sembrava invisibile all'esterno. Mi liberai da sola. Dopo due anni, allenata come non mai, lo uccisi. Involontariamente. Mi stava urlando contro le solite cose: mia mamma non avrebbe voluto una figlia così ingrata, mia mamma avrebbe voluto essere rivendicata, avrebbe voluto che io fossi un mostro. Ma io non ci credevo, mai. Presa dalla rabbia, la mia magia andò fuori controllo. Il suo cervello esplose in piccoli pezzettini. Stavo rivivendo la scena. La realizzazione che effettivamente ero un mostro. Scappai di casa, avevo 14 anni. Avevo passato il mio periodo pre adolescenziale rinchiusa in casa ad allenarmi come se fossi un militare. Odiavo la mia vita ai tempi. Uscii di casa con la faccia piena di sangue e iniziai a correre verso il bosco, verso la libertà. Dopo due giorni, trovai Alan vicino alla mia casa. Mi abbracciò e mi portò a casa sua. Raccontai tutto a suo padre, con le lacrime a gli occhi. John era sempre stato gentile con me, come un padre.
<<Non preoccuparti, ora ci prenderemo cura di te vero figliolo?>>
Ricordo Alan annuire e sorridermi. Ricordo di aver rivisto il mare per la prima volta dopo anni, e di essermi sentita bene. Amavo il mare e lo amo tutt'ora. Riesco a sentire di nuovo la libertà, la forza di avercela fatta. Poi lo scenario cambia. Le scuole superiori. Gli anni che non saprei se definire i più belli della mia vita o i peggiori. Una ragazza più bassa di me, con una felpa nera, uno zaino su una spalla e uno skate sotto braccio fa la sua entrata. Mi passa di fianco e io la seguo. Sta salutando chiunque incontri. Ero famosa ai tempi. Mi ero guadagnata la mia posizione di popolare solo grazie alla mia mente, non per quella che ho in mezzo alle gambe. Ero considerata la paladina della giustizia - difendevo qualsiasi persona dai bulli - ed ero un genio in matematica. Nemmeno la prof di matematica sapeva spiegarsi come riuscissi a fare delle equazioni in trenta secondi. La ragazza viene affiancata da qualcuno, Ashley.
<<Ehi!>>
<<Ciao brutta persona>>
<<Sei sempre così simpatica la mattina?>>
Erano passati due anni, avevo sedici anni. Appena entrai nella scuola feci subito amicizia con Ashley.
<<Che ora abbiamo?>> chiesi.
<<Chimica>>
Entrammo in classe come due cazzo di modelle. Viste da fuori sembravano proprio delle gran belle ragazze, con una certa sicurezza. A scuola ero intelligente e facevo tutti i compiti, ma quando non mi andava non seguivo le lezioni e facevo rumore. Lo scenario cambia di nuovo. Io e Marcus. No. Fa troppo male. Chiudo gli occhi e aspetto che passi. Ricordo bene tutto. Le chiacchierate, le passeggiate mano nella mano, i messaggi a scuola, gli incontri in bagno, le dichiarazioni. Poi la fatidica domanda, il mio no, la sua rabbia, la droga, lo stupro, i pianti, le urla, lo scoprire di essere incinta, la verbena e lo strozza lupo, i calci, il sangue, il bambino non c'è più. Chiudo gli occhi ancora per un po'. Le lacrime stanno scendendo di nuovo. É stato orribile. Posso assicurare. Poi la vendetta, la piccola vendetta. La scena davanti a me cambiò di nuovo. Ero di fronte casa sua. Una me diciassettenne arrabbiata, corre verso l'auto e la prende con le mani. L'adrenalina scorreva nel mio corpo. Il giorno dopo avermi picchiato era scomparso, volevo ucciderlo ma sopratutto Alan e Anthony volevano ucciderlo. Presi l'auto e la scaraventai nel muro, dove c'era la sua finestra. Ci furono delle urla, ma non ci feci caso al tempo. Il mio dolore era troppo forte. Casa mia. Suppongo che fosse passato qualche mese, si. Questa è la mattina in cui ho scoperto che Ashley se ne era andata dalla città. Andai a casa sua e la mamma mi congedò con una porta in faccia e un' espressione schifata. La chiamata.
<<Ashley, dove sei?>>
L'entrare a scuola senza di lei era una botta in testa, avevo tutti gli occhi addosso e anche se ero popolare, non mi piaceva farmi vedere da sola. Significava debolezza. Che pensiero stupido. Solo qualche anno dopo avrei capito che sto meglio così, da sola.
Una me preoccupata si precipita in segreteria.
<<Posso sapere dov'è Ashley Cooper?>>
<<Ashley Cooper non fa più parte di questa scuola>>
La faccia della delusione.
<<Come?>>
<<Non posso dirle altro mi dispiace signorina>> il soggiogamento:
<<Dimmi dove si trova Ashley Cooper>>
<<La madre ha fatto il trasferimento, ha cambiato città>>
<<Lei è molto gentile!>> corsi verso il bagno. La messaggiai, la chiamai una decina di volte ma niente. Era andata via. Per un buon motivo, mi ricordai.
Spero stia bene dalla baby sitter.
Il pianto, altri pianti. Chiamai John e gli raccontai tutto. Mi promise che avrebbe indagato stesso in mattinata insieme al branco. Dopo scuola appresi che era andata via, mi aveva abbandonato senza una valida motivazione, un saluto. Ero distrutta. Non compatitemi, il dolore ormai sembrava far parte di me, ancora tutt'oggi.
Poi ricambiò lo sfondo. La mattina della rivelazione.
<<Tuo padre é Niklaus Mikaelson, uno degli originali>> la corsa, il viaggio a New Orleans, le lacrime dopo le parole di Klaus, la scoperta di Alexandra Junior. Mi sveglio di colpo e mi alzo con un scatto. Ero distesa a terra a pancia all'aria. Mi guardo intorno e sono a casa dei Mikaelson. Mi giro e li vedo tutti in piedi, di fronte a me. Hanno tutti quell'espressione, l'espressione della rivelazione, quell'espressione che fai quando hai appena ricevuto notizie brutte. Poi ci arrivo. Hanno visto tutti, proprio tutto. Comprese le ragazzine, compreso quell'uomo che non conosco, compreso Klaus, Hope!
Un proiettile mi arriva dritto al petto.

Alexandra Mikaelson - the eldest childWhere stories live. Discover now