2010
Incastrata tra un venditore ambulante dalla pelle scura con una grossa borsa Ikea ripiena di roba al seguito e un'anziana signora che legge un libro con occhialetti tondi dalla montatura dorata calati sul naso, vado incontro al mio destino schiacciata su un sedile della Metro Linea A, direzione Battistini, dopo essere stranamente sopravvissuta alla bolgia durante il cambio di linea in stazione.
Più che formata da milioni di persone, la folla, a Termini, sembra un'unica massa vibrante e scalpitante, che ti ingloba e ti trascina, come la corrente quando si alza il vento e i bagnini fischiano per farti uscire dall'acqua.
Ma qui non c'è nessuno pronto a salvarti.
Nell'attesa di arrivare a destinazione, accompagnata dalla voce del tizio-della-metro che annuncia le fermate, con quella particolare musicalità ogni volta che pronuncia "destro", tale da sembrare stia annunciando la notizia più lieta del mondo, mi rigiro nella testa le parole di Andrea.
Mi accompagni a comprare un regalo a mia madre?
Mi mordo l'interno della guancia, pensierosa. Non che io non ne abbia voglia o non ne sia lusingata, anzi, è che mi sembra una prova del nove, piuttosto che un'allegra uscita a due. Cioè: e se non fossi adatta? E se sbagliassi consiglio, poi le facesse schifo e lui se la prendesse con me? Se facessi un danno?
Della mamma di Andrea so solo che si chiama Patrizia e fa l'infermiera al Pertini. Punto.
Che si regala a una che si chiama Patrizia e fa l'infermiera al Pertini?
"Siamo in arrivo a: Spagna. Uscita lato destro. We're now arriving at: Spagna. Right side exit."
Mi metto in coda insieme al nugolo di persone che sciamano come api attraverso le porte scorrevoli della metro, percorro le gallerie ripiene di graffiti e musicisti di fortuna che, seduti sul pavimento lercio, tentano di guadagnarsi la cena e finalmente ritorno all'aperto, respirando di nuovo.
Odio rimanere per troppo tempo compressa tra milioni di sconosciuti.
Cerco di individuare Andrea mentre mi muovo a passo spedito verso la scalinata di Trinità dei Monti e dopo poco spunta il solito brivido caldo e denso come miele che sembra sgocciolare lungo ogni apofisi di ogni singola vertebra della mia spina dorsale: eccolo lì.
Col naso all'insù, le mani in tasca, alto e magro come un chiodo, scruta il cielo sopra di lui e sembra indifferente agli spintoni della gente. D'altronde lui appare sempre indifferente a tutto, chiuso in questo suo bozzolo in cui sembra quasi riflettere sui momenti, assagiarli, sentirli rotolare sulla lingua assaporandone fino alla più nascosta particella, masticarli e mandarli giù.
Spesso mi ritrovo a chiedermi se sia io a incarnare ogni sorta di misticità in questa figura, che mi sembra diventare più bella ogni giorno, o se siano gli ormoni imbizzarriti a primavera.
Propendo più per la prima, certa di vederlo attraverso questo sentimento che si intreccia sempre più, come le maglie delle trame che nonna intesseva ai ferri utilizzando spessi gomitoli di lana colorata, con un incedere ipnotizzante, che crescevano e crescevano fino a prendere forma: un maglione, un cappello, una sciarpa.
Roba grezza, resistente, duratura, calda.
Intrisa di quelle pulsioni che ogni poeta freme al solo pensiero di riuscire a descrivere con i propri versi.
Mi avvicino a lui e lo abbraccio da dietro, infilando il naso tra le scapole e le mani nelle tasche del suo giaccone, riparandomi dal freddo e dai dubbi, crogiolandomi in questa perenne sensazione di essere davvero a casa, quando sono vicino a lui.
Andrea non si scompone, non si volta, non mi parla, fa sempre così, lui: è tutto d'un pezzo. Continua a guardare il cielo terso cercando non so quali segreti, ché oggi, azzurro com'è, non c'è niente che si possa celare alla sua vista.
"Hai tardato un po'."
Mi stringo nelle spalle. "Colpa del giudizio universale della metro."
Si volta con lo sguardo divertito e un mezzo sorriso. "Il giudizio universale della metro?"
"Oh sì, proprio lui. Sai, la metro vede, la metro sa. Se ti sei comportato bene fino al momento in cui arriva il treno allora potrai salirci senza problemi; se invece hai compiuto qualche malfatta allora troverai un muro di gente a bloccarti l'ingresso, un tempo d'attesa infinito o il treno che parte non appena hai messo piede in stazione, anche se hai corso per le scale mobili. È un giudizio che va quasi oltre il divino."
"Chi te l'ha raccontato?"
"Mio padre. Cercava di convincermi i tutti i modi di comportarmi bene ogni volta che ci dovevamo spostare utilizzando la metropolitana."
"E cos'hai fatto tu di sbagliato oggi, piccola Bea?" Si avvicina piano alle mie labbra. "Hai per caso formulato pensieri impuri sulla mia persona?"
Ma come fa?
Come.
Fa.
Ad avere sempre una maledettamente imbarazzante risposta pronta.
Scuoto la testa a destra e sinistra velocemente, troppo velocemente, come una bambina con le manine sporche di cioccolata cui si chiede se è stata lei a finire i dolci del calendario dall'avvento quand'è ancora il 3 dicembre.
"Se solo tu mi lasciassi soddisfare ogni tuo desiderio..." sussurra, soffiandomi bollente sul collo.
Ma che fa, ma è scemo?
Ma non le può fare queste cose in pubblico.
Non la vede, la gente?
Io sono indign-
"Beatrice." Mi soffia, sulla clavicola destra. Chiudo gli occhi e abbandono le braccia lungo i fianchi.
Con le dita mi sfiora il dorso della mano che ho precedentemente abbandonato mollemente, lasciando che seguisse la gravità. Piano, mi annusa dietro il lobo dell'orecchio, mordicchia, soffia.
Questi momenti ormai, in questi mesi, seguendo il loro naturale corso si stanno facendo sempre più frequenti, raddoppiandosi, quadruplicandosi, centuplicandosi.
Sono ipnotizzata.
E pronta ad averlo più di quanto voglia ammettere, raggelata dalla paura dell'ennesimo dopo.
"Io..." Deglutisco, con la gola secca. "Tu... Tu non puoi fare così ogni volta che vuoi ottenere qualcosa."
"Ma io non voglio ottenere qualcosa. Sarebbe più giusto dire che voglio ottenere qualcuno, ma la verità è che ognuno è il proprietario di se stesso, sai bene come la penso. È per questo che non voglio averti, io voglio unirmi a te. Sommarmi a te. Proprio come con i tuoi amati numeri, come un'addizione in cui invertendo l'ordine degli addendi il risultato non cambia."
Non rispondo, totalmente catturata dall'immagine di me e lui che ci sommiamo.
Fremo, impaziente, nei confronti di cosa?
Non so.
"Ma ne parleremo più avanti." Prosegue, poi si allontana e con un sorriso mi tende la mano. "Pronta?"
Vorrei dire: "No, che pronta? Io che ne so che si regala a una Patrizia che lavora al Pertini? Io sono solo una con gli occhi e i sogni troppo grandi e la scatola cranica ripiena di ricci neri, così ingombranti che mi hanno sfrattato il cervello."
E invece dico: "Pronta."
Sentendo le gambe della stessa consistenza di gelatine alla frutta, lo prendo per mano e ci immergiamo nel via vai di Via dei Condotti.
Quasi riesco a immaginare come ci vedono i passanti: lui con il suo incedere spavaldo e sicuro, io con i passi tremolanti e impauriti di chi sta ancora imparando a camminare e a stargli dietro.
*
Due ore e due milioni di sciarpe, profumi, collane, guanti e borsette dopo, ciascuna incapace di convincerlo appieno, siamo seduti sugli scalini di Piazza della Rotonda a consolarci con un gelato di Grom.
"Parlami di lei" Esordisco.
Sospira. "Sai quanto non sia capace a esprimermi a parole, figurarsi descriverti mia madre."
"Ma io non vedo chitarre in giro, quindi mi sa che ci dobbiamo arrangiare a modo mio. Raccontami un aneddoto."
Sbuffa sonoramente, poi abbassa gli occhi. "Una volta..." Tentenna. "Da piccolo non riuscivo a dormire bene, sai? A scuola mi avevano raccontato di questo mostro con la testa di drago e i denti aguzzi, che quando faceva buio si nascondeva sotto il letto e non appena vedeva qualche piede o mano penzolare oltre il confine della rete divorava tutto senza pietà."
Ridacchio tra i baffi e lui mi lancia un'occhiata affilata. "Tu credevi al giudizio universale della metro."
"Okay, okay, continua." Alzo le mani. "A te la parola."
"Grazie." Leccando velocemente le gocce del gelato che gli sono crollate sul dorso della mano, riprende a raccontare. "Ecco, io avevo il terrore di lasciare andare giù anche il più minimo lembo di pelle, vinto dal sonno e dalla gravità, e avevo risolto che la soluzione migliore fosse non addormentarmi. Trascorrevo queste nottate infinite a occhi sbarrati, stretto al cuscino, sussultando al minimo rumore e la mattina mi svegliavo con due occhi talmente gonfi dal sonno che sembrava mi avessero pestato."
Non riesco a non perdermi nell'immaginare questo mini Andrea tutto ricci ed espressione persa, che, afferrando con i pugnetti stretti l'orlo della coperta, rimane sveglio tutta la notte a osservare il soffito scuro per paura che gli si mangino i piedi.
"Il soffitto non era scuro, avevo incollato tutti i pianeti con papà, un'edizione speciale della DeAgostini sulla galassia."
Sgrano gli occhi. "E tu che ne sai, a che stavo pensando?"
Mi guarda con aria di sufficienza. "Perchè non lo stavi pensando, lo stavi dicendo."
Ops.
Quante altre cose che ho solo creduto di pensare, fino ad ora, ho in realtà espresso ad alta voce?
"Comunque" prosegue, con un gesto della mano volto a invitarmi a passare oltre. "Mamma dopo una, due, tre mattine alla fine è riuscita a estorcermi la confessione. Ha preso la questione molto seriamente - non come qualcuno qui al mio fianco - e mi ha detto che dalle notti successive ci avrebbe pensato lei.
Quella stessa sera, dopo avermi messo a letto, ha avvicinato la sedia al mio capezzale e mi ha raccontato la storia di questo ragazzo, un po' burino - Romualdo si chiamava - che se ne andava in giro in canotta bianca a stanare tutti i mostri mangia bambini della città. Una notte li trovava sotto al letto, un'altra nelle fogne, altre volte si nascondevano dietro le tende nei teatri, insomma erano ovunque."
"Roba che manco la peste nel 1348." Non riesco a trattenermi dal ridacchiare ancora.
"Ma la vuoi finire?" Con un movimento troppo repentino per i miei poveri riflessi, mi spalma il gelato sulla punta del naso, direttamente dal cono. "E poi che ne sai te, dell'anno in cui si è diffusa la peste?"
"Lascia perdere" Bofonchio, mentre cerco di togliermi gli ultimi appiccicosi residui di gelato dal naso. "Continua."
"Ebbene, dicevamo: Romualdo li trovava tutti e li nascondeva in questi sacchi di iuta che si trascinava sulle spalle, no? E poi li buttava nel Tevere così che venissero portati nell'isola dei draghi, trascinati dalla corrente. Una notte dopo l'altra mi sono addormentato tra le sue storie, con le palpebre rese troppo pesanti dalle parole che vi si appoggiavano sopra da permettermi di avere paura. E quando aveva il turno di notte e non poteva rimanere al mio capezzale a raccontarmi la storia della buonanotte ero comunque tranquillo, ché sapevo che Romualdo, tutto canotta e grossi bicipiti, li avrebbe eliminati tutti."
"E poi? Quand'è che ha smesso?"
"Mai." Sorride. "Quando ho smesso di avere paura dal drago-sotto-al-letto le ho chiesto storie diverse, tipo Masterchef*: io dicevo che ingredienti volevo trovarci, in forma di personaggi, ambientazioni o altro, e lei mi preparava la ricetta per la notte successiva, traendo spunto e ispirazione dai libri che hanno sin dall'inizio dei tempi invaso casa mia. E nonostante fossi più severo di Cracco, Bastianich e Barbieri messi insieme, ha sempre superato tutte le prove.
Ancora oggi, quando riesce a beccarmi a letto a orari umani o, più semplicemente, io sono disposto a lasciarglielo fare, mi racconta una storia. Solo che ora il più delle volte 'ste maledette storie hanno la stessa morale: darmi una mossa e capire che voglio fare della mia vita."
Mi fermo a riflettere in silenzio, mentre un'idea inizia a prendere forma nella mia mente.
Andrea, che ha finito il suo gelato, si solleva e si piazza sotto al Pantheon che si è stagliato, imponente e meraviglioso, sotto i nostri occhi per tutto il tempo del racconto.
Si muove, curioso, preso da uno dei suoi soliti guizzi in cui pare alla ricerca di qualcosa che agli occhi di noi profani appare invisibile.
Si muove attorno alle colonne corinzie, sfiora con le dita il liscio granito, resistente nel tempo e sfuggito quasi per miracolo alla devastazione dei templi pagani e io lo lascio fare.
Lascio che trovi la risposta alle sue continue domande.
Quando, però, lo vedo girare attorno all'edificio, non riesco a fare a meno di raggiungerlo.
"Sai" gli dico ridacchiando, affiancandolo e prendendolo sotto braccio. "E' curioso che tu stia passeggiando a questo modo attorno al Pantheon."
"Perchè?" Mi stringe e continua a circumnavigare l'edificio.
"Lo vedi il fossato?" Indico il nastro concavo che circonda l'edificio e lui annuisce. "Alcuni hanno trovato la ragione del suo essere in seno a un semplice fatto: spesso l'acqua affluiva dal sottosuolo, durante le alluvioni periodiche. La vecchia rete fogniaria, in disuso ormai dal 500 d.C. circa, che scorre, indisturbata e ignorata dai più, sotto i nostri piedi nel centro storico, riprendeva miracolosamente a funzionare quando il Tevere straripava e pare che il fossato fosse atto a contenere l'acqua. Ma" mi fermo, sventolandogli un indice davanti al naso. "Io preferisco un'altra versione."
"Ovvero?"
"Leggenda vuole" continuo, riprendendo a muovermi "che un tale Pietro Baialardo, un antico stregone, avesse fatto un patto col diavolo in persona: in cambio del suo Libro del Comando e degli enormi poteri conferitigli, al momento della sua morte egli avrebbe consegnato la sua anima a Sua Maleficienza. Quando sentì, però, che la sua ora si avvicinava, gli donò quattro noci e si rifugiò in questo edificio, che, in quanto consacrato soprattutto dalle ossa di milardi di martiri, risultava inespugnabile dal diavolo. Ebbene: pare che quest'ultimo, adirato per l'impossibilità di recuperare l'anima che gli spettava di diritto, sfogò la sua furia camminando ancora e ancora attorno all'edificio, un numero di volte così infinitamente elevato da scavare al suo passaggio, volta dopo volta, il fossato che si dipana ancora oggi davanti ai nostri occhi."
"E quindi?"
"Sai bene come io ti consideri diretto discendente di Lucifero, Andrea. Passeggiando a questo modo non fai che confermare ogni mia teoria."
"Oh." Si apre in un sorriso. "Già. E ho ancora intenzione di essere bollente e dannato per molto, molto tempo."
Accompagna le sue parole a una sonora pacca sul sedere che mi dà così, su due piedi, davanti a tutti, mentre arrossisco fino alla punta dei capelli.
"Ma ti pare modo?"
"Oh, sì." Mi abbraccia e mi bacia, suadente. "E sapessi quali altri modi, mi paiono, a me."
"Ah, ehm, sì." Mi affretto a cambiare discorso. "Sai, ho avuto un'idea sul regalo di tua madre. Ti porto in un posto."
*
Mezz'ora dopo siamo fuori dalla Feltrinelli, con una bustina di cartone arancione in mano, e io sono incollata alla vetrina del negozio accanto ad ammirare una borsa bellissima, piccola, nera, quando Andrea sgancia la bomba.
"Sai" inizia, pacatamente. "E' un bene che tu ti sia messa quel vestito così carino oggi."
"Perchè?" Chiedo sospettosa, distogliendo svogliatamente lo sguardo dalla meraviglia in vetrina e scrutando il vestito verde bottiglia che mi arriva a metà ginocchio, le gambe coperte da collant velate nere e le ballerine, sempre nere, dall'aria vissuta.
"Perchè oggi andiamo in un posto."
"Dove?"
"Ma è ovvio" dice, sollevando il pacchetto. "A dare il regalo a mamma. A cena, a casa mia."
***
* Mini contraddizione "storica": in realtà Masterchef è andato in onda a partire dal 2011, quindi Andrea non potrebbe sapere ancora per un anno che diamine sia. Temo di non aver saputo resistere al paragone.