58- La stronza e il presuntuoso-

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Lui scappa, scappa dai nostri litigi, dai problemi e da me, ma questa volta non mi sento neanche in colpa, e mi chiedo il perché, dato che ormai mi sento colpa persino per la fame nel mondo.

Forse è perché non abbiamo finito? Perché ho molte cose da dirgli, molte cose che in realtà non so neanche dove prenderle, perché quando le cerco, non le trovo mai.

"Merda!" impreco battendo un pugno contro il muro sbucciandomi leggermente un paio di nocche. Che fare? Io, di parole per lui ne ho a migliaia, ma lui per me ne avrà altrettante?

So qual'è la cosa giusta da fare, lasciarlo andar via, lontano da me e da qualsiasi nostro scontro. Oh, questa si che è la cosa giusta.

Ohh, fanculo!

So che la cosa giusta è questa, cioè io qui e lui da qualche altra parte nel mondo, stare separati è sicuramente il meglio, ma spesso il meglio non è quello che ci rende felici, e non posso perdere altro tempo, così percorro a grandi, anzi grandissime falcate il corridoio, il salotto e l'ingresso, senza neanche preoccuparmi di chiudere la porta alle mie spalle. Richiamo l'ascensore, ma neanche lui oggi ha tempo per me, così intraprendo una lunga discesa di scalinate, 9 piani per l'esattezza.

Dovrebbe essere qua, ma non c'è, può darsi sia nell'ascensore, ma di tempo per decidermi ce ne è voluto quindi non credo proprio.

Esco di furia dal portone guadagnandomi un occhiata confusa e leggermente impaurita dal portinaio di cui non me ne curo e guardo a destra, a sinistra e avanti, ma di lui nessuna traccia. Non sento neanche il super tanfo del suo profumo ai fiori del Marocco che amo da impazzire, ma questo deve rimanere un segreto.

Inizio a correre, forse un po' svestita dato che i brividi ricoprono la mia pelle, stanca, dopo la giornata, e non lucida, dopo Einar.

Corro, corro fino ad imboccare la strada verso il parchettino della zona, sotto la sola luce delle poche stelle e di pochi lampioni, fino a ritrovarlo li, seduto su quella panchina malandata di questo parco malandato, a contemplare quelle poche e rare stelle della serata, da solo, senza anima viva data l'ora.

Mi avvicino cautamente, altrimenti mi sbrana, ma soprattutto lo faccio per paura di una mia reazione, quando mi sveglierò da questo stato di handicap che mi sta portando a commettere un'eresia.

Einar si volta di scatto, probabilmente dopo aver sentito qualche suono o rumore causato dai miei passi, guardandomi con odio, nonostante non avrebbe potuto sapere chi ci fosse, se io o uno sconosciuto e il mio sguardo subito dopo il suo viso ricade sulle sue nocche, spaccate e grondanti che mi urlano aiuto senza le parole.

Mi siedo al suo fianco, a debita distanza senza più incrociare neanche per sbaglio i suoi occhi.

Non so cosa dire, cosa fare, non so niente, neanche il perché io sia venuta. Il perché lo abbia cercato, il perché adesso, mi sento nel posto giusto, senza neanche averlo in realtà un posto giusto nel mondo.

"Vattene" la sua voce, roca, autoritaria, mascolina si fa sentire, accaparrandomi leggermente la pelle. Una voce che poche volte mi ha impaurita e tante altre, rasserenata.

Sospiro, smettendo di guardare il nero del cielo per concentrarmi sulle mie Dottor Martens, che porto ancora nonostante il caldo. "Non voglio andarmene" rispondo, anche se con timore, e non riesco proprio a capirla la causa di questo timore dato che non sono mai stata debole, se non adesso. "E io non voglio che tu stia qui!" esclama facendomi sobbalzare, cosa di cui lui se ne accorge, infatti sbuffa ma non aggiunge altro, per poi voltarsi dall'altra parte.

Segue un momento di silenzio, dove ne io ne lui siamo abbastanza coraggiosi da emettere parola, e sinceramente neanche le trovo queste parole. Ed è proprio questo quello che mi fa incazzare, essere consapevole di avere mille migliaia di parole dentro di me, perché sono sicura di aver un sacco di cose da dire, ma non sapere dove si trovino o peggio come tirarle fuori.

Soy el diablo, pero soy graciosa ( fase di revisione )Where stories live. Discover now