3.3 Litil

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Luciana raggiunse in fretta i piani più alti, quelli in cui erano collocate le camere private della famiglia reale. Quella di Flora, come aveva avuto modo di constatare in altre occasioni, era nell'ala sud dell'ultimo piano. La principessa l'aveva scelta da bambina per lo spettacolo che le offriva la linea dell'orizzonte meridionale: un piccolo squarcio del mar Litil, che separava quelle terre dall'isola di Pecama. Quel mare il cui nome aveva, in antico defico, il significato di "speranza".

La giovane si fermò davanti alla porta chiusa, e bussò. Non ricevendo alcuna risposta, colpì ancora quella dura superficie opaca, e quasi si fece male alle nocche. Le sovvenne solo in quel momento che l'intero castello era stato architettato da uomini esperti nelle antiche arti magiche e che, nonostante la fragile apparenza del materiale, era meno scalfibile della più dura delle rocce.

«Sono Luciana, sono venuta per parlare con te, fammi entrare!»

Non si spazientì soltanto perché immaginava che discutere con Alcina fosse stato terribile per la fanciulla rintanata in camera; lei non era avvezza a contrariare i genitori e si domandò se l'amore di Flora per quel popolano la spingesse ad azioni folli e avventate.

La Lugupe, senza riflettere se fosse un'eccessiva libertà quella che si stava arrogando, spinse la porta verso l'interno e notò con stupore come questa non fosse stata chiusa a chiave.
La luce del tramonto filtrava dalla finestra spalancata, illuminando il pavimento costellato di vasi di vetro. Lì erano stati collocati piccoli mazzi di fiori, che la giovane ipotizzò essere omaggi floreali dello spasimante.

Flora era nel suo letto a baldacchino, nascosta sotto lenzuola dalla sfumatura rosea, la testa sotto il cuscino, prona. Dai piccoli e ritmici sussulti della stoffa che copriva quasi per intero la sua figura, si capiva che stava piangendo. Luciana le si avvicinò, le accarezzò la schiena affettuosamente e lei si mostrò. Era spettinata, gli occhi castani venati di rosso, come se le lacrime scorressero da ore sul suo volto; indossava ancora la veste da notte, non si era preoccupata di lavarsi e sistemarsi; e non aveva neanche mangiato.

Luciana non aveva mai visto nessuno in simili condizioni e si chiese se fosse possibile che il diverbio con la madre l'avesse ridotta a quel modo. Ma lei non sapeva – e come avrebbe potuto? – che quella notte, all'appuntamento fissato, lui non era venuto. Lui non era venuto e Flora credeva che la loro relazione l'avesse spaventato, quel continuo celare, la paura dei sovrani, che chissà cosa avrebbero fatto se avessero scoperto che da mesi i due amanti si incontravano di nascosto nella periferia di Nilerusa!

O che gli fosse accaduto qualcosa? La fanciulla singhiozzante aveva avuto ogni sorta di brutto pensiero: dapprima che il padre, tornato anzitempo dal Pecama, lo avesse scovato e gettato in prigione, poi che si fosse ammalato – ma in questo caso avrebbe potuto avvisarla – o che fosse addirittura stato ucciso.

Che non l'amasse più? Flora non era riuscita a evitare le lacrime per tutta la notte. Sperava che lui sarebbe giunto, anche all'alba, e che l'avrebbe trovata in quello stato, a soffrire per lui, e che l'avrebbe rassicurata sui suoi sentimenti. Invece aveva atteso invano e l'ora di tornare al castello era arrivata prima di quanto era stata in grado di sopportare. Era rientrata con il cuore gelato, incapace di dire nulla, di fare nulla. Aveva rifiutato di alzarsi, e solo la rabbia di Alcina era riuscita a ridarle la voce con la quale le aveva gridato di andarsene. Non voleva vedere nessuno, non voleva mangiare niente, sarebbe rimasta lì a morire per il dolore.

La presenza di Luciana non la infastidiva, ma sentiva di non poterle spiegare. Continuò a piangere, anche quando l'altra provò ad asciugarle le lacrime, come cercando il modo migliore di iniziare una normale conversazione.

Selenia - Trono rovesciatoDär berättelser lever. Upptäck nu