Dear Diary - The Vampire Diar...

De Dottie93

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DELENA [AU: Tutti umani] Elena Gilbert è una ragazza di diciotto anni, all'ultimo anno di liceo, ch... Mai multe

Dear Diary
Today I saw a boy
And I wondered if he noticed me
He took my breath away
Diary, do you think we'll be more than friends?
I can't get him off my mind (parte 1)
I can't get him off my mind (parte 2)
And it scares me (parte 1)
And it scares me (parte 2)
'Cause I've never felt this way (parte 1)
'Cause I've never felt this way (parte 2)
Does he know what's in my heart? (parte 1)
Does he know what's in my heart? (parte 2)
Should I tell him how I feel...? (parte 1)
Should I tell him how I feel...? (parte 2)
I thought he smiled at me (parte 1)
I thought he smiled at me (parte 2)
As he walked by (parte 1)
As he walked by (parte 2)
As he walked by (parte 3)
As he walked by (parte 4)
Now I can't wait to see that boy again (parte 1)
Now I can't wait to see that boy again (parte 2)
Now I can't wait to see that boy again (parte 3)
Now I can't wait to see that boy again (parte 4)
Now I can't wait to see that boy again (parte 5)
One touch of his hand (parte 1)
One touch of his hand (parte 2)
One touch of his hand (parte 3)
One touch of his hand (parte 4)
One touch of his hand (parte 5)
One touch of his hand (parte 6)
So, diary, I'll confide in you (parte 1)
So, diary, I'll confide in you (parte 2)
So, diary, I'll confide in you (parte 3)
So, diary, I'll confide in you (parte 4)
He smiled (parte 1)
He smiled (parte 2)
He smiled (parte 3)
He smiled (parte 4)
And I thought my heart could fly (parte 1)
And I thought my heart could fly (parte 2)
No one in this world knows me better than you do (parte 1)
No one in this world knows me better than you do (parte 2)
Please, tell me what to say (Parte 1)
Please, tell me what to say (Parte 3)
Diary, tell me what to do (parte 1)
Diary, tell me what to do (parte 2)
Diary, tell me what to do (Parte 3)
...or would that scare him away? (Parte 1)

Please, tell me what to say (Parte 2)

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De Dottie93

Ok, questa è la parte 2 di 3, tanto fluff. Sento il dovere di avvisare che la fiaba in questo capitolo non è mia, l'ho generata con un generatore apposito trovato con Google (che non ricordo più quale sia), ma ce l'ho voluta inserire perché è un sacco carina, e perché intendo usarla come Easter Egg su "The Sound of Silence" :3

Giovedì prossimo.

Ecco quando sarebbe stata la data del prom. Elena gli aveva appena inviato un messaggio. Lui aveva deciso di prendersi quel lunedì di completa pausa, forse era per questo che stava facendo un solco nel suo appartamento. Aveva finito per andarsene là, visto che sua madre gli lanciava occhiate inquisitorie dal divano, ed era troppo presto perché Ric fosse tornato da scuola ed essere psicanalizzato sul suo, di divano.

Aveva usato il lavoro come scusa.

Impegnava i lunedì per mettersi in pari con gli arretrati, ma quella settimana, sorprendentemente, non ne aveva, perciò aveva anche troppo tempo per pensare, e se avesse parlato con sua madre aveva paura che si sarebbe scoperto un debole sentimentale.

Già era fin troppo umiliante così.

C'erano dieci giorni esatti, da lì al ballo più importante per la vita di una studentessa del liceo, e ci voleva un discorso da uomo a uomo.

Un consiglio su cosa fare. Dopotutto, una ragazza vera lui non l'aveva mai avuta. Aveva avuto solo avventure di cui non si era dovuto preoccupare, in generale: né di loro, né dei loro sentimenti. Di Elena, invece, gli importava tutto.

Partendo dal fatto che non voleva rompere con lei, doveva trovare il modo giusto per farlo. Non poteva semplicemente dirle "non ci possiamo vedere più perché ho deciso così" o qualcosa del genere, perché di come si sarebbe sentita gli importava eccome.

Certo, non si illudeva che sarebbe stato facile – diamine, non era facile nemmeno per lui – ma cos'altro avrebbe potuto fare?

Influenzava le decisioni della sua ragazzina molto di più di quanto gli sarebbe piaciuto.

E dimenticava troppo spesso che era una diciottenne sognatrice, e che credeva che il loro fosse l'amore che dura tutta la vita. Che poi, magari lo era davvero, ma come si faceva a ipotecare il proprio futuro su una cosa del genere?

Un futuro che lei nemmeno aveva iniziato a vivere.

Si chiese perché mai si era illuso che potesse finire in modo diverso. A lui le cose non andavano mai come voleva, ma quando Elena si era aggirata così bene nella sua vita e tra i suoi problemi, si era permesso di sperare che fosse tutto giusto.

Era così giusto che gli aveva fatto paura e se n'era andato.

Forse, era stato troppo giusto.

E lo era ancora. Talmente tanto che pensare di porre fine a una cosa del genere faceva un male cane, sembrava addirittura una cosa stupida, inutile. Ma che altra scelta aveva? Chiudere gli occhi, fare finta di niente e rovinarle la vita?

Aveva finito per privarla del College, che altro poteva portarle via?

Intanto, erano tre quarti d'ora che ci pensava su senza cavare un ragno dal buco. Era riuscito solo ad accumulare frustrazione.

Avrebbe fatto molto meglio a restare fuori città, quando se n'era andato, forse per allora Elena sarebbe riuscita a farsene una ragione e mandare qualche lettera di presentazione come tutte le ragazze della sua età.

Sarebbe stato meglio che lo odiasse?

Non riusciva a capirlo.

Esiste il modo giusto per lasciare qualcuno?

Con un grugnito, uscì di casa e bussò alla porta del suo migliore amico. Ormai doveva essere tornato, con quanto tempo aveva rimuginato e rimuginato.

Dall'interno provenivano dei suoni abbastanza concitati.

«E adesso?» chiedeva una voce che avrebbe riconosciuto tra mille. «Mica mi posso nascondere sotto al letto!»

«Non farti vedere.» l'avvisò l'uomo. «Ci vorrà un secondo.»

Aprì la porta, con una faccia strana. Damon notò che stava cercando di dissimulare il suo nervosismo.

In modo pessimo.

«Damon.» lo salutò Alaric, impacciato. «Cosa fai... ehm... da queste parti?»

Avrebbe riso se non fosse stato maledettamente preoccupato. «Ci vivo.» replicò, secco. Lo spostò da una parte. «E ho bisogno di un consiglio.»

«Ma che cazzo?»

Caroline si nascose dietro un plico di libri.

«Stai calma, Barbie.» fece il ragazzo, contrariato. «Non sono qui per denunciare Ric che irretisce ragazzine appena maggiorenni.»

L'uomo sospirò, di sopportazione. «Tu irretisci una ragazza della stessa età da almeno sei mesi, ti ricordo.» gli rifilò uno scappellotto. «E comunque non è qui per questo.»

Ci tenne a precisarlo, anche se Damon scrollò le spalle.

«Non mi interessa perché è qui.»

Forse avrebbe dovuto importargli: Caroline era la ragazza di suo fratello, e Alaric era super fidanzato con Jenna, la zia della sua ragazza, ma non riusciva davvero a interessarsi di qualcosa che non riguardasse direttamente Elena, non in quel preciso istante.

«Comunque nessuno te l'avrebbe detto.» chiarì la ragazza, piccata. «Sappi solo che è una buona ragione.»

«Ne sono sicuro.» era ironico. Occhieggiò i fogli sulla scrivania, accanto a lei: erano compiti. Ne prese qualcuno. «Questi non sono compiti di storia.»

Alaric si affrettò a strapparglieli dalle mani.

«Li ho solo presi in prestito dalla sala insegnanti.»

E avrebbe anche dovuto riportarceli il prima possibile, prima che qualcuno si accorgesse che mancavano, perciò era meglio che non li toccasse nessuno. Damon specialmente.

Il ragazzo alzò le mani in segno di resa. «Non sono qui per giudicare.»

«Perché sei qui, allora?» lo incalzò Caroline, alzando solo gli occhi dallo schermo del portatile.

Sembrava digitare cose furiosamente.

«Non per qualcosa di cui parlerei davanti a te.» stavolta fu lui a rispondere piccato.

Lei però stava borbottando quello che leggeva e dopo lo copiava sul PC.

«Oh, perfetto.» l'aveva sentito, dopotutto. «Nessuno di noi due dovrebbe essere in questa stanza. Sarà il nostro segreto. Se tu non dici niente di su me, io non spiffererò niente su di te.»

Dopo, proseguì nel suo lavoro.

Ogni tanto cercava il supporto e il consiglio di Alaric con delle frasi del tipo: "Questo secondo te è buono?" oppure "Ti sembra che possa andare bene? È coerente?"

Lui si limitava a stare là, senza davvero guardarli.

Aveva un fottuto bisogno di confidarsi. Alaric era sicuramente l'unico a cui poteva chiedere, e forse il fatto che la Barbie fosse lì era un segno del destino: chi meglio della migliore amica della sua ragazza poteva indirizzarlo sul modo giusto di fare le cose?

Conosceva Elena meglio di chiunque.

«Si tratta di Elena.» confessò, quindi.

Di nuovo, Caroline alzò gli occhi dallo schermo. «Be', mi pare ovvio

Il tono era quello di chi ti sta chiedendo di non perdere tempo, e Damon le indirizzò un'occhiata infastidita: era una cosa parecchio intima da esternare, e lui non lo trovava affatto facile. Delle sue cose aveva parlato solo con la persona che era la radice dei suoi problemi, e non era stata una passeggiata.

E adesso stava per farlo con loro.

«La faccenda del College?» intuì, invece, Alaric.

«Mi sta distruggendo.» si stese sul divano, nemmeno il suo amico fosse stato lo psicoterapeuta su cui lui stesso aveva scherzato. «Non so più come mi devo comportare.»

Non che l'avesse mai saputo, ma prima era perché le opzioni erano troppo varie.

Ora invece no.

Ora c'erano solo due vie: ignorare i problemi di Elena e continuare a farle fare scelte sbagliate in nome del loro rapporto oppure lasciarla libera.

«Benvenuto nel club.» fu la battuta amara di Caroline. «Stamattina avrei voluto strozzarla. E, come se non bastasse, ha saltato tutte le lezioni fino all'ora di pranzo, immagino fosse con te.»

Effettivamente, erano rimasti insieme finché Damon non aveva insistito perché frequentasse almeno i corsi dopo la pausa pranzo. Anche se avrebbe volentieri speso il pomeriggio con lei.

Adesso che sapeva che sarebbe finita, voleva tutto il tempo che poteva rubare. Poteva sembrare assurdo, visto che era tutta una sua decisione.

Non rispose.

Nel frattempo, Alaric sfogliava qualche compito.

«Questa mi sembra molto buona.» commentò, all'indirizzo di Caroline, che cominciò a copiare. «Comunque, potremmo anche dirglielo.»

La ragazza scosse la testa.

«Dirmi cosa?» volle sapere Damon, fissando il tetto con aria sconfortata.

Ci pensò lei a rispondere: «Che sei un coglione.» disse, piatta. «Ma non in questo particolare frangente. Sono contenta che ti dia fastidio che abbia scelto di mollare il College per te.»

Di nuovo, si guadagnò un'occhiataccia.

«Cosa ti aspettavi?» le chiese, risentito. «Che fossi felice perché intende farmi da zerbino? Scusa tanto se voglio qualcosa di più per lei. Ma più di questo vorrei che fosse lei a desiderare di più per se stessa. Non capisco come possa pensare di accontentarsi di questo quando può avere il mondo.»

Doveva solo trovare un modo per essere l'unico a soffrire. Proteggerla in qualche modo.

No, non gliel'aveva chiesto, ma nemmeno voleva essere la causa per cui rovinarsi la vita. Non Elena.

«Tu che faresti, Barbie?» proseguì, interessato. «Se Stefan fosse me, e tu fossi Elena.»

Caroline era la persona più vicina alla sua ragazzina che conoscesse. Erano amiche per un motivo, anche se erano molto, molto diverse.

Stefan e Elena erano molto simili, ma Stefan non era una ragazza, e lui si tirava indietro per ogni cosa, la sua opinione sarebbe stata inutile. Bastava guardare quanto tempo ci aveva messo per conquistare la sua attuale fidanzata.

«Immagino che mi organizzerei ogni giornata in modo da poter fare tutto. Ritagliarmi qualche ora la sera per stare con lui.» rispose, pensierosa. «E cercherei di tornare ogni weekend per vederlo. Whitmore non è così lontano, ed è lì che voglio andare, anche se dovessero prendermi in tutti gli altri College dove ho fatto domanda.»

Ecco, quello suonava come un piano. Poi, Damon non aveva dubbi che quella maniaca del controllo ci sarebbe riuscita: si sapeva organizzare così bene che avrebbe potuto fare qualunque cosa e rimanere anche in pari con gli esami.

«Ma io non sono Elena.» concluse, stringendosi nelle spalle. «Penso che considererebbe la mia scelta come egoista o qualcosa del genere.»

Scelte.

Scelte personali.

Scelte su cui lui non aveva mai voce in capitolo, nonostante lo riguardassero in tutti i modi possibili.

Non ne poteva più di essere solo spettatore delle decisioni che le persone prendevano intorno a lui e accettarle passivamente. Sua madre condizionata dal suo passato, ed Elena dal suo futuro.

«Secondo voi è sbagliato?» chiese loro, confuso. «Intendo, insistere che vada, nonostante non sembri volerlo.»

Chissà se era come il prom. Che prima era partita entusiasta e dopo aveva detto che non importava perché pensava che lui non volesse andarci.

Come faceva a sapere cosa voleva davvero?

A un certo punto, non era in grado di indovinare se lei stessa avrebbe saputo dirlo. Certo, una volta gli aveva detto di avere paura di andarci, ma non era la stessa cosa. Tutti gli adolescenti attraversavano quella fase, arrivati al momento di dover scegliere.

Il College sembrava l'esperienza più bella del mondo, quando era ancora troppo lontana per essere concreta.

Caroline si schiarì la voce. «Non sono nella posizione per dire niente.» ammise. «Ma credo che tu non debba farti problemi su questi pensieri che hai. È normale... sai... volere il bene delle persone che amiamo. È il punto di amare.»

Damon, a quelle parole, tacque.

È il punto di amare.

Avrebbe voluto andare via di lì, alzarsi da quel divano, ritrovare Elena, e trovare un modo per mettere tutto a posto. Di dargli un motivo soltanto, uno solo, per non fermare tutto.

Perché sì, forse voleva dire amare, ma era la cosa più difficile che avesse mai fatto, accettare di separarsi, di non essere più niente.

Di continuare ad appartenerle, perché non poteva farne a meno, ma da lontano.

A distanza.

Una distanza che aveva cercato di imporsi all'inizio, ma che non era mai riuscito a rispettare. Come poteva pensare di riuscirci, ora, sapendo cosa si provava ad azzerarla? Già gli mancava, e l'aveva salutata dopo pranzo.

Non sapeva più chi fosse, senza di lei.

«Sai, è strano.» proseguì Caroline, e ora gli rivolse tutta la sua attenzione. «Pensavo che tu ti fossi interessato a lei solo perché non è la tipica ragazza con cui hai normalmente a che fare, e perché ti ricordava Katherine. Una specie di esperimento, per questo sono sempre stata un po'... diciamo, diffidente con te. Ho cominciato a intuire la tua sincerità solo al concorso di Miss Mystic, ma... non avrei mai immaginato che l'amassi così tanto.»

Le faceva quasi tristezza, in fondo, vederlo in quello stato, mentre si copriva la faccia con le mani. Sembrava davvero disperato.

«Se ti può consolare, non lo credevo nemmeno io.» confessò lui.

E non perché fosse partito con l'idea che con Elena dovesse essere solo un'avventura, ma davvero non si aspettava che sarebbe stato così coinvolto, di essere in grado di amare qualcuno fino a quel punto. Non era mai successo, e lei, all'inizio, aveva continuato a dire che non era molto diversa da tutte quelle che aveva incontrato. E lui chi era per dissentire?

Peccato che non fosse così.

Elena era il giorno e la notte, e anche tutto quello che c'è nel mezzo.

«Quindi?» fece Alaric. «Noi cosa dovremmo fare?»

Bella domanda.

Damon nemmeno lo sapeva bene, cosa voleva da loro. Aiutarlo a trovare le parole giuste? Dargli un buon motivo per non farlo?

O forse...

«Ho bisogno che qualcuno mi dica che non sto mandando tutto all'aria inutilmente.» confessò, amaro. «Voglio che viva la sua vita, ma per farlo non posso essere al suo fianco. E questo, ormai, è chiaro. Ma ho bisogno di sapere che ce la farà. Che voi due sarete lì per lei.»

L'aveva detto.

Ci sono cose che finché non dici ad alta voce non sembrano reali. Si possono ignorare, credere che siano solo frutto della propria immaginazione.

Ma poi le dici, e improvvisamente hanno una forma, un corpo.

E adesso, era diventato tutto improvvisamente più reale e impellente.

Avrebbe lasciato Elena.

Per un lungo momento, gli mancò il fiato.

E ci fu silenzio.

«Vuoi piantarla?!» fu Caroline a interromperlo, scioccata.

Damon le rivolse uno sguardo quasi disperato. «Barbie.» la chiamò, scornato. «Se hai altre idee, sono tutto orecchie.»

Se ci fosse stata un'altra strada, l'avrebbe presa. Avrebbe fatto qualunque cosa per lei, perfino privare se stesso dell'unica cosa che riuscisse a farlo stare bene, ma se ci fosse stata un'alternativa non avrebbe esitato a prenderla.

Attribuiva questa scelta al suo egoismo e, contemporaneamente, all'incapacità di pensare totalmente a se stesso quando si trattava di Elena.

«Vuoi lasciarla andare.» fu il commento di sorpresa ammirazione della ragazza.

Damon non si preoccupò nemmeno di reagire a quelle parole.

Si tirò su a sedere, accompagnato solo dallo sconforto.

«Se avessi altre opzioni non lo prenderei nemmeno in considerazione.» ammise. «Vorrei poter cambiare me stesso, essere quello di cui ha bisogno. Ma non posso...»

Non sapeva nemmeno come provarci. Non sapeva come poter rimediare al danno che aveva fatto andandosene. Forse le aveva tolto una certezza importante, facendolo. Forse non avrebbe nemmeno dovuto essere quella incrollabile certezza per un'altra persona.

«E mi rifiuto di cambiare lei.» non più di quanto avesse già fatto. «Per adattarsi a uno come me, poi.»

La sua ragazzina doveva ancora crescere, la vita doveva costruirsela. La sua era già avviata, che la direzione che aveva preso gli piacesse o meno.

E non poteva permettere che Elena facesse lo stesso errore proprio perché sapeva cosa voleva dire stare in panni che non erano i propri. Aveva avuto già fin troppi problemi, in appena diciott'anni, non poteva negarle la speranza di essere davvero felice, soddisfatta e appagata dai suoi stessi sforzi.

Caroline aggrottò la fronte. «Uno come te?»

«Elena ti ama.» osservò il suo migliore amico, piatto, indicando a Caroline una frase in particolare su uno dei fogli che aveva sotto mano. «Facciamo scelte folli quando siamo innamorati. Non credo dovresti fargliene una colpa, o farla a te stesso.»

«Non lo sto facendo.» Damon non pensava nemmeno che avrebbe potuto. «Credetemi, ero al settimo cielo quando mi ha detto che non sarebbe andata al College per me. Nessuno ha mai messo da parte niente per me. E per la prima volta l'unica persona che ho mai voluto nella vita mi vuole allo stesso modo. È un cazzo di miracolo.»

Lo era per davvero.

Aveva trovato Elena – o era stato trovato, ormai poco importava – e lei era tutto quello che aveva sempre desiderato. Qualcuno che lo amasse senza imporre dei limiti, senza chiedere niente se non sincerità e condivisione, senza cercare di raddrizzarlo come se fosse stato difettato, qualcosa da aggiustare.

E lei era perfetta. Sì, qualche volta aveva potuto giurare che la sua apprensione a farlo stare bene a tutti i costi potesse essere irritante, ma diamine, amava ogni singola cosa di lei.

Ogni minima cazzata.

Non era forse un miracolo, trovare qualcuno che ti completa come se fosse stato fatto apposta per te?

«Il punto è che, mentre tutte le altre volte avrei voluto che qualcuno facesse un passo verso di me, che rinunciasse a qualcosa per farmi un po' di posto... adesso penso che non ci possa essere un torto peggiore che potrei farle. Non so se mi spiego.»

Era un concetto sbagliato già nella parola stessa: rinunciare.

È un atto che puoi compiere solo verso le cose che vuoi, altrimenti non è una rinuncia. E lui non sapeva niente dell'amore. Quello che aveva capito era stata Elena a insegnarglielo, e finora gli aveva solo reso la vita migliore.

Ma quanti risvolti positivi aveva avuto la sua entrata in scena in quella di lei? Di quante cose l'aveva costretta a privarsi di esperienze che, se fosse stata sola, avrebbe fatto? Non era così che avrebbe dovuto funzionare una relazione sana e normale.

Non sapeva niente di rapporti di coppia, ma almeno quello gli era chiaro.

«Quando ci siamo conosciuti, mi avrebbe preso a calci nel culo se mi fossi comportato come ho fatto negli ultimi mesi.» commentò, con un sospiro. «E invece il fatto stesso di essermene andato le ha fatto venire così tanta paura di perdermi per sempre che ora scenderebbe a qualsiasi compromesso perché non accada ancora.»

Magari era normale, magari no.

Lui non lo sapeva, perché non aveva mai avuto paura di perdere qualcosa. Si era ritrovato a perdere tante cose, ma non aveva mai avuto un preavviso tale da poter temere la perdita che ne era seguita.

E certamente aveva paura di perdere sua madre, ma gli era stato detto che era una cosa troppo egoista da provare, perciò forse non era normale.

«Vorrei poter dire che non capisco.» commentò Caroline, amareggiata. «Ma non è così.»

Damon trovò strano avere supporto proprio da lei che non si era fatta certo problemi a gridargli contro, mesi prima, in ospedale. Aveva creduto che gli avrebbe detto che era un'idiota, che non sapeva affrontare le cose, e tutte le altre che pensava di sé.

A quel punto, cosa doveva credere? Che fosse davvero la scelta giusta?

«Non dirlo a Elena.» la pregò. «Non voglio che lo sappia da qualcuno che non sono io.»

Non poteva permettere che succedesse. Già non sarebbe stato facile, ma se avesse saputo una cosa del genere dalla sua amica o, peggio, dal suo futuro zio, sì che l'avrebbe odiato per sempre, e se lo sarebbe meritato.

Doveva raccogliere il coraggio, ovunque ce l'avesse seppellito, e farlo con parole sue.

«Scusa, ma quando pensi di farlo?» di nuovo, Caroline interruppe il flusso dei suoi pensieri, e ora in tono particolarmente acido. «Hai un tempismo di merda. Ti rendi conto che ci sono il ballo di fine anno e gli esami

Sembrava che ci avesse riflettuto solo sul momento.

Ma almeno lei l'aveva fatto. E sì, Damon sapeva del prom, ma proprio degli esami non si era curato. E non perché non gli importasse il particolare, ma perché nemmeno sapeva che giorno, mese o anno fosse. Almeno, non se lo ricordava da giorni.

Tutta quella storia del College gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo.

«Il prom sarà il nostro ultimo ballo scolastico per sempre.» aggiunse la ragazza, in completa modalità adolescente agitata. «Per una ragazza è una cosa importante andarci col proprio fidanzato. È una sorta di... rituale, ecco. Potresti non farlo prima del prom? Non provare nemmeno a rovinarle questo ricordo!»

In realtà, Damon non intendeva rovinarle nessun ricordo in particolare.

E Caroline stava già pensando al peggio.

«Agli esami ci penso io.» promise. «La costringerò a studiare, ma ti prego, non prima del prom.»

Su questo era categorica.

Sebbene lui si fidasse del suo giudizio in materia di cose da ragazze, pose una ragionevole obiezione, proprio perché la conosceva: «Non riuscirai a non dirglielo da qui al prom.»

Non era un mistero per nessuno che quella ragazza non riuscisse a tenersi nemmeno una piccola informazione per sé, non era nella sua natura, e lui non poteva rischiare che Elena venisse a sapere che stavano rompendo da qualcun altro.

«Posso mantenere un segreto per una settimana!» obiettò lei, invece, offesa. Ne avrebbe dovuto mantenere uno forse più grande e un po' più a lungo, dopotutto. «Sul serio. Vieni al ballo, comportati da fidanzato dell'anno e non fare lo stronzo.»

«Caroline.» Damon parlò in tono di avviso.

Stava cominciando a pensare che quella storia del prom fosse nient'altro che una baggianata. Cosa avrebbe dovuto fare da lì a dieci giorni? Prenderla in giro? Mentirle?

«Caroline un corno.» ribatté lei, piccata. «Vuoi che abbia un bel ricordo di te oppure che ti odi per il resto dei suoi giorni? Puoi fare qualcosa per lei e, al tempo stesso, lasciarla con rispetto. Oltretutto, temo proprio che tu debba pensarci su, e bene. Perché hai fatto un sacco di cazzate a forza di colpi di testa. Non c'è niente di male a prendersi del tempo per capire se è davvero la cosa giusta da fare.»

Voleva che avesse un bel ricordo di lui? Senz'altro.

Ma questo cosa voleva dire? Desiderava che fosse felice, perciò forse doveva darle dei ricordi per cui esserlo.

Lasciarla con rispetto.

Doveva pensarci su. Sì.

«Non posso darle torto.» rincarò la dose Alaric. «Pensaci bene, non si torna indietro.»

«Non credete che sia la scelta giusta?» Damon era molto sorpreso. «Insomma, è tutto l'anno che tu insisti per separarci, Ric.»

Aveva fatto dispiacere Elena un sacco di volte, per quella storia. E solo ora si rendeva conto che aveva avuto ragione. Aveva perso di vista ogni cazzo di priorità, per lui.

Vorrei passare più tempo insieme, e poi mi rendo conto che trascuro tutto il resto, tipo lo studio, la famiglia, gli amici. E, nonostante questo, voglio stare con te lo stesso.

Quanto era stato cieco, e stupido... forse era troppo innamorato di lei per accettare che le stava sconvolgendo la vita nel modo sbagliato.

«Non ho mai voluto separarvi.» mise in chiaro il suo amico. «Ma sì, ho notato come tu annebbi il giudizio di Elena, era questo che volevo farle capire. Volevo che trovasse il giusto mezzo tra il dovere e il piacere.»

Ottimo.

L'avevano capito tutti.

Tutti tranne lui.

«Avrei dovuto accorgermene prima.» era il suo unico rammarico.

Se non fosse stato troppo occupato a preoccuparsi di se stesso, forse si sarebbe reso conto dei problemi di quella che doveva essere la persona più importante per lui. L'unica cosa che aveva cercato di fare lei era stargli vicino, e lui era stato troppo idiota per fare altro che non fosse tentare di allontanarla da sé, nel modo sbagliato, facendola sentire in colpa per volere il suo bene.

È il punto di amare.

Cosa diamine ci trovasse in lui, una ragazza come quella, ancora doveva capirlo.

«Prima non avresti potuto.» cercò di consolarlo così, Alaric.

Ma Damon sapeva di essere stato uno stronzo.

«Non voglio farla soffrire.» non più, almeno. «So che non c'è un modo in cui possa lasciarla che non lo comporti, ma voglio farlo nel modo più indolore possibile.»

Glielo doveva, in fondo. Durante la loro storia era riuscito a farla piangere anche quando non era stata sua intenzione, adesso doveva trovare il modo di non farle del male.

«Non esiste un modo indolore.» fu la lapidaria risposta di Caroline. «Ti ama troppo, qualunque modo tu scelga, la distruggerà.»

E questa era la verità. Lo sapevano tutti, tranne, di nuovo, Damon.

Era quella verità che ti viene rigirata tra le costole come un coltello, che ti fa male. Che ti uccide.

«Grazie, Barbie.» era ironico. «Mi sento meglio.»

Lei si strinse nelle spalle, per niente colpevolizzata. «Mi sembra giusto che tu vada consapevolmente incontro alle conseguenze delle tue azioni.» spiegò, piatta. «Elena se la caverà. Ha me.»

Su questo non aveva alcun dubbio. A Damon sarebbe tanto piaciuto avere una sicurezza che fosse incrollabile la metà di quella.

«Sei una buona amica.» le disse, sincero. «Sono contento che abbia te.»

E Stefan. E Bonnie. Perfino quel bietolone di Donovan.

Magari se la sarebbe cavata davvero, la sua piccola Elena. Con il suo ex era rimasta amica, anche se era stata lei a lasciarlo, ma dopo tutte quelle cose orribili che le aveva detto, lei non se l'era affatto presa. Avevano fatto pace.

Forse anche loro due avrebbero potuto avere un rapporto normale, di amicizia.

«Mi dispiace.» Caroline interruppe quei pensieri. «Per te, intendo. Insomma, non sarà difficile solo per lei. Trovo questa decisione davvero inaspettata, da parte tua, ma... matura, ecco.»

Matura. Che parola strana. Nessuno l'avrebbe mai associata a lui. Come del resto l'amicizia con Elena.

Già. Amici.

Quella prospettiva faceva così tanto schifo.

«Non è per niente facile.» confermò, mogio. «Ma devo fare la cosa giusta per lei.»

Alaric gli indirizzò un'occhiata. «Pensaci bene, okay?» ripeté, il suo tono era estremamente cauto. «Queste non sono cose di cui puoi pentirti a posteriori.»

E Damon era famoso per pentirsi delle sue azioni stupide solo dopo averle compiute. Ma più pensava al fatto che non poteva più stare con Elena, più sembrava giusto.

Lo distruggeva, lo devastava, lo uccideva. Ma era l'unica scelta possibile.

«Posso aiutarvi?» chiese, dopo. «Ho bisogno di distrarmi. Ed è ancora troppo presto per bere.»

La ragazza arricciò le labbra, indecisa. «Veramente vorrei che non fossi coinvolto.»

«Non faccio domande, promesso.» e non le avrebbe fatte, purché potesse non pensare a quell'argomento. Forse, a mente più fredda sarebbe stato in grado di trovare le parole.

Aveva dieci giorni per farlo.

Non prima del prom.

Ma dopo sì.

E doveva farlo il prima possibile, prima che facesse crollare qualcos'altro della vita della persona che amava.

«D'accordo.» cedette lei, con un sospiro di sopportazione. «Guarda questi compiti e vedi se trovi qualche frase che colpisce.»

Gli passò quattro fogli, sembravano essere compiti di quattro date diverse.

C'era solo una cosa in comune.

«Ma questa roba l'ha scritta Elena.»

Bel modo di non pensare a lei.

«Hai detto niente domande.» gli ricordò Caroline, seccata. «A proposito, lascia che te ne faccia una io. Quali diresti che sono le sue tre caratteristiche principali?»

Lui si prese un momento per pensarci.

«Compassione, sincerità... inventiva, credo.»

«Mmh.» commentò lei, prima di digitare sul pc. «Non male.»

Passarono così il pomeriggio: a leggere i compiti di Elena ed estrapolare le frasi migliori. E Damon era molto più interessato a quello che scriveva la sua ragazzina nei suoi temi che a preoccuparsi di cosa ci stessero facendo la Barbie e il suo migliore amico. Si fidava di entrambi – anche se non l'avrebbe mai ammesso – perciò sapeva che non era niente di male o sbagliato.

Nessuno dei due avrebbe mai fatto qualcosa che potesse nuocere alla sua ragazzina.

«Stai meglio?» gli chiese Caroline dopo, quando, prima dell'ora di cena, Damon era ancora immerso in uno dei compiti di Elena di scrittura creativa, in cui era richiesto di inventarsi una fiaba.

Non poté che annuire per la domanda e sorridere per ciò che aveva sotto agli occhi: "Kenna e le tre rane", non aveva tanta fantasia coi nomi, la sua ragazzina. C'era pure un tizio che si chiamava Dam.

Riusciva a starle in testa in ogni momento.

C'era una volta una ragazza coraggiosa di nome Kenna.

Stava andando a visitare il suo ragazzo Dam, quando decise di prendere una scorciatoia attraverso la Foresta di Shabana.

Non ci volle molto prima che la ragazza si perdesse. Si guardò intorno, ma tutto ciò che poteva vedere erano alberi. Nervosamente, andò a cercare nella borsa il suo giocattolo preferito: Lord Mus, ma Lord Mus era scomparso! Kenna andò nel panico. Era sicura di aver preso Lord Mus. Come se non potesse andare peggio, stava iniziando a sentire fame.

Inaspettatamente, vide una rana verde con una maglietta blu scomparire tra gli alberi.

"Che strano!" pensò Kenna.

In mancanza di qualcosa di meglio da fare, decise di seguire la rana vestita in modo bizzarro. Forse poteva chiederle come uscire da quella foresta.

Alla fine, Kenna raggiunse una radura. Si trovò circondata da case fatte da ogni genere di cosa da mangiare. C'era una casa fatta di cetriolini, una casa fatta di biscotti, una casa fatta di hamburger e una di patatine fritte.

Kenna poté sentire il suo stomaco brontolare. E guardare quelle case non faceva niente per alleviarle il senso di fame.

"Salve!" disse. "C'è qualcuno?"

Nessuno rispose.

Kenna guardò sul tetto della casa più vicina e si chiese se fosse scortese mangiare il camino di qualcun altro. Ovviamente, sarebbe stato scortese mangiare l'intera casa, ma forse sarebbe stato considerato accettabile dare un morso a quello strano lampione o quell'ancora più strano tubo del gas, in un momento di bisogno.

Una risata fendette l'aria, dando a Kenna un grosso spavento. Una strega saltò nello spazio proprio di fronte alle case. Era accompagnata da una gabbia. E in quella gabbia c'era Lord Mus!

"Lord Mus!" gridò Kenna. Si rivolse alla strega. "Quello è il mio giocattolo!"

La strega scrollò le spalle.

"Ridammelo!" ordinò Kenna.

"Nemmeno per sogno!" rispose la strega.

"Almeno liberalo dalla gabbia!"

Prima che potesse rispondere, tre rane verdi comparvero sulla strada dall'altra parte della radura. Kenna riconobbe quella con la maglietta blu che aveva incontrato prima. Anche la strega sembrò riconoscerla.

"Salve Rana Grande!" disse quest'ultima.

"Buongiorno." la rana notò Lord Mus. "Chi è?"

"Questo è Lord Mus," spiegò la strega.

"Ooh! Starebbe benissimo in casa mia. Dammelo!" ordinò la rana.

La strega scosse la testa. "Lord Mus rimane con me."

"Um... Scusate..." li interruppe Kenna. "Lord Mus vive con me! E non in una gabbia!"

La Rana Grande la ignorò. "C'è qualcosa per cui lo scambieresti?" chiese alla strega.

Lei ci pensò per un momento, poi disse, "Mi piace molto essere intrattenuta. Lo donerò a chiunque mangerà un'intera porta di ingresso."

La Rana Grande diede un'occhiata alla casa fatta di biscotti e disse, "Nessun problema. Posso mangiare una casa intera fatta di biscotti se voglio."

"Quello è niente," disse la rana accanto. "Posso mangiare due case."

"Non c'è bisogno di darsi delle arie," disse la strega. "Mangiate la porta di ingresso e lascerò che abbiate Lord Mus."

Kenna si limitò a guardare, davvero preoccupata. Non voleva che la strega desse Lord Mus alla Rana Grande. Non pensava affatto che a Lord Mus sarebbe piaciuto vivere con una rana verde lontano da casa sua e da tutti gli altri suoi giocattoli.

Le altre due rane osservarono la Rana Grande mettersi il bavaglino e prendere un coltello e una forchetta dalla tasca.

"Mangerò tutta questa casa," disse la Rana Grande. "State a vedere!"

La Rana Grande iniziò da un angolo della porta di ingresso fatta di biscotti. La mandò giù con un sorriso e ne mangiò dell'altra.

E ancora.

E ancora.

Alla fine, la Rana Grande iniziò a diventare più grande – all'inizio molto poco. Ma dopo qualche altra forchettata di biscotti, crebbe in stazza come una palla di neve – e diventò tutta tonda.

"Erm... non mi sento bene," disse la Rana Grande.

Improvvisamente, iniziò a rotolare. Era diventata così tonda che non riusciva più a stare in piedi!

"Aiuto!" gridò, mentre rotolava lungo una discesa verso la foresta.

La Rana Grande non finì mai di mangiare la porta di ingresso fatta di biscotti e Lord Mus rimase intrappolato nella gabbia della strega.

La Rana Media si fece avanti, e si avvicinò alla casa fatta di hamburger.

"Mangerò tutta questa casa," disse. "State a vedere!"

La Rana Media iniziò da un angolo della porta di ingresso della casa fatta di hamburger. La mandò giù con un sorriso e ne mangiò dell'altra.

E ancora.

E ancora.

Dopo un po', la Rana Media iniziò a sembrare un po' nauseata. Divenne più verde...

...e ancora più verde.

Un taglialegna arrivò nella radura. "Che ci fa qui un cespuglio?" chiese.

"Non sono un cespuglio, sono una rana!" disse la Rana Media.

"Parla!" esclamò il taglialegna. "Questi cespugli parlanti sono le cose peggiori! Meglio portarlo via prima che qualcuno si faccia male."

"No! Aspetti!" gridò la Rana Media, appena il taglialegna la prese. Ma lui ignorò le sue grida e portò via la rana sottobraccio.

La Rana Media non finì mai di mangiare la porta di ingresso fatta di hamburger e Lord Mus rimase nella gabbia della strega.

La Rana Piccola si fece avanti, e si avvicinò alla casa fatta di patatine fritte.

"Mangerò tutta questa casa," disse. "State a vedere!"

La Rana Piccola iniziò da un angolo della porta di ingresso della casa fatta di patatine. La mandò giù con un sorriso e ne mangiò dell'altra.

E ancora.

E ancora.

Dopo cinque o sei piatti pieni, la Rana Piccola iniziò a muoversi in modo strano sul posto.

Smise di mangiare patatine per un attimo, poi ne prese un'altra forchettata.

Ma prima che potesse mangiarla, un ruggito si riverberò nell'aria. Un rutto più forte di un razzo che parte spedì la Rana Piccola in cielo.

"Aggggghhhh!" gridò la Rana Piccola. "Mi fanno paura le altezzeeeeee..."

La Rana Piccola non fu più vista.

Inoltre, non finì mai di mangiare la porta di ingresso fatta di patatine fritte e Lord Mus rimase nella gabbia della strega.

"Ecco fatto," disse la strega. "Ho vinto. Mi tengo Lord Mus."

"Non così in fretta," intervenne Kenna. "C'è ancora una porta di ingresso, della casa fatta di cetriolini. E io non ho ancora avuto la mia occasione."

"Non devo darti un'occasione!" la strega rise. "Il mio gioco, le mie regole."

La voce del taglialegna arrivò dalla foresta. "Dovresti darle una possibilità. È giusto così!"

"Va bene." rispose la strega. "Ma hai visto cos'è successo alle rane. Non durerà a lungo."

"Torno subito," disse Kenna.

"Cosa?" chiese la strega. "Dov'è la tua impazienza? Pensavo volessi indietro Lord Mus."

Kenna la ignorò e raccolse una pila di rami. Tornò alla radura e iniziò a mettere su un piccolo fuoco. Con molta attenzione, fece a pezzi la porta della casa fatta di cetriolini e ne mise uno a tostare sul fuoco. Una volta che fu pronto e raffreddato un po', ne prese un morso. Divorò l'intero pezzo in poco tempo.

Dopo, si sedette su un tronco là vicino.

"Hai perso!" gracchiò la strega. "Avresti dovuto mangiare l'intera porta."

"Non ho finito," spiegò Kenna. "Sto solo aspettando che il cibo vada giù."

Quando Kenna ebbe digerito, ruppe un altro pezzo della porta fatta di cetriolini. Ancora una volta, lo mise a tostare sul fuoco e aspettò che si raffreddasse un po'. Lo mangiò velocemente e aspettò di digerire.

Alla fine, dopo molti pasti, Kenna era arrivata al pezzo finale della porta fatta di cetriolini.

La strega batté un piede in terra, adirata. " Mi hai imbrogliato!" disse. "Non ricompenso i bari!"

"Non credo proprio." disse una voce. Era il taglialegna. Era di nuovo nella radura, con la sua ascia. "Questa ragazza ha vinto in modo onesto. Ora, restituiscile Lord Mus o farò a pezzi la tua scopa."

La strega sembrò spaventata. Prese la sua scopa e la mise dietro di sé. Dopo, sbuffando, aprì la porticina della gabbia.

Kenna si affrettò a prendere Lord Mus, e controllò che il suo giocattolo preferito stesse bene. Fortunatamente, era incolume.

Kenna ringraziò il taglialegna, prese un piccolo souvenir e si sbrigò ad andare da Dam. Si stava facendo buio.

Quando la ragazza raggiunse la casa di Dam, il suo ragazzo l'abbracciò forte.

"Ero così preoccupato!" gridò. "Sei davvero in ritardo."

E quando Kenna gli raccontò della sua giornata, era sicura che Dam non le avesse creduto. Quindi prese un fazzoletto dalla tasca.

"Cos'è?" chiese Dam.

Kenna scoprì un pomello fatto di biscotti. "Biscotti!" disse.

Dam quasi cadde dalla sedia.

Forse non avrebbe dovuto leggere troppo dentro a quella fiaba, ma c'era davvero tutto: uno dei suoi regali di Natale, la sua incapacità a non pensare al cibo, il taglialegna che si immaginava con la faccia di Alaric e un sacco di difficoltà per poi trovare lui, Dam.

«È veramente carina.» fu costretto ad ammettere. Sembrava così scontato che l'avesse scritta lei, era proprio una cosa da Elena, di una dolcezza disarmante.

Alaric rise. «È piaciuta anche a me.»

«Già, peccato che sia inutilizzabile.» fu l'arido commento di Caroline. «Dai, datevi una mossa, vorrei andare a casa, farmi una doccia, cenare. Magari riuscire a vedere mia madre.»

Erano tutti e tre molto stanchi.

«Quante ne hai mandate?» domandò il padrone di casa, che stava per rovesciare la testa sul tavolo.

«Cinque.» rispose lei. «Dici che basta?»

L'uomo annuì, ma l'avrebbe fatto anche se fossero state due. Caroline non era l'unica a voler dedicare un po' di tempo a se stessa.

«Prima o poi me lo direte che state combinando.» disse Damon, scuotendo la testa.

«Strano che tu non ci sia arrivato da solo.» fu sempre lei a parlare, mentre raccoglieva la borsa. «Comunque è un segreto, perché se non va, nessuno ci rimane male. Perciò, meno sai, meglio è. Così non ti può sfuggire con qualcuno.»

Lei, di certo, avrebbe taciuto fino al momento giusto.

Damon non ebbe occasione di commentare: il suo telefono lo avvisò dell'arrivo di un messaggio.

Sto passando da casa tua. Va bene?

«Cazzo.» imprecò, e gli venne improvvisamente l'esigenza di muoversi.

Fare qualcosa. Alla svelta.

«Che c'è?» volle sapere Alaric, stranito.

«È Elena.» balbettò il ragazzo, agitato. «Dice che sta venendo qui.»

Aveva avuto la malaugurata idea di dirle che tornava a casa sua, e adesso lei stava andando là. E lui non doveva dire niente.

Il prom.

Il cazzo di prom.

Anche Caroline si agitò. «Oddio, non può vedermi uscire di qui!»

Quello avrebbe compromesso la segretezza della sua missione.

Così, Damon comprese che doveva prendere in mano la situazione. «Scendo io.» propose, anche se non aveva idea di cosa stesse proteggendo.

Se stesso, la Barbie, il suo pomeriggio in compagnia di due delle persone più care a Elena che avevano, in qualche modo, cospirato alle sue spalle.

«Ricordati di aspettare a dirglielo!» si affrettò a gridargli dietro la ragazza, prima che lui uscisse di casa.

Come se avesse avuto bisogno di qualcuno che glielo ricordasse.

Si sentiva malissimo, all'idea di doverlo fare. Ma aspettare di farlo era pure peggio. Forse avrebbe dovuto introdurla all'argomento, manifestare qualche disagio, non ne aveva idea.

Forse doveva solo fare in modo che quei dieci giorni che restavano loro fossero i migliori di sempre. Giusto per darle qualcosa per cui essere felice, un modo buono di ricordare quello che c'era stato tra loro.

Lasciarla con rispetto.

Voglio che tu abbia una bella storia da raccontare.

Scese le scale velocemente, e quando arrivò fuori, la vide camminare verso di lui.

«Ciao.» la salutò così, un po' impacciato.

Erano a qualche passo di distanza.

«Ciao.» rispose lei, altrettanto. «Eri fuori?»

Damon accennò alle sue spalle, con un gesto della mano, riferendosi al condominio. «Ero da Ric.»

Era davvero felice di rivederla. Ma da un lato non sapeva come comportarsi. Quella mattina non si erano lasciati in nessun modo. Non avevano litigato, ma nemmeno si erano salutati in modo entusiasta, lui l'aveva semplicemente spedita a scuola.

«Oh.» fece lei, un po' sorpresa. «Vi parlate... di nuovo.»

Lui annuì. «Anche troppo negli ultimi tempi.»

Dopodiché, ci fu solo il silenzio a riempire lo spazio che avevano lasciato tra loro. Elena sembrava esitante tanto quanto lui.

«Va... tutto bene?» gli chiese, per poi mordersi un labbro come se avesse voluto rimangiarsi quella domanda.

«No, Elena.» confessò lui, senza essere in grado di mentire.

Perché aveva passato il pomeriggio a discutere di come lasciarsi, quando l'unica cosa che voleva in quel preciso istante era abbracciarla stretta e impedirle di andare da qualunque altra parte non fosse lui.

«Sei stato scorretto con me.»

Nemmeno Elena stessa sapeva da dove le fosse uscita quella frase. Ci aveva pensato a lungo, tutto il pomeriggio, mentre cercava di farsi perdonare da Caroline sull'aver abbandonato tutti i preparativi per il prom.

Quindi, aveva speso le ultime ore a spillare cerchi di carta per fare gli striscioni da appendere in palestra, insieme a Bonnie, con cui aveva parlato del lento recupero di Jeremy della sua vita di tutti i giorni, anche se, con suo fratello non si parlavano più.

«Scorretto?» ripeté Damon, un po' confuso.

Lei annuì. «Molto.» confermò. «Hai usato le mie stesse parole contro di me. "Le cose vanno storte anche se tu non sei lì a guardarle." Mi ha un po' fatto riflettere.»

Il sollievo sul suo viso la disorientò.

«Davvero?» le chiese, quasi che gli avesse detto la cosa più bella del mondo.

Finché lei non parlò ancora, Damon si sentì davvero sollevato. Forse Elena aveva avuto quell'epifania che poteva salvare tutto il resto.

Che poteva salvare loro due.

«Sì, forse la devo smettere di darti delle dritte.» scherzò lei, e Damon si limitò ad annuire con una strana consapevolezza. «Comunque, senti... non ho comunque idea di cosa voglio fare nella vita. Quindi... non avrebbe comunque senso iscriversi al College quest'anno.»

«E pensi di scoprirlo rimanendo qui?» le domandò, stringendosi nelle spalle.

Forse avrebbe dovuto dare più importanza a quella conversazione, quando avevano parlato del College altre volte. Un giorno fuori dalla scuola, che sembrava una vita prima e al loro primo appuntamento.

Avrebbe dovuto incoraggiarla di più, farle capire che era del tutto normale essere insicuri a diciott'anni su cosa si volesse fare per i successivi sessanta.

Avrebbe dovuto essere migliore.

Sii la versione migliore di te stesso.

Ma come si fa?

«Certo che per uno che non ce l'ha con me, insisti parecchio.» commentò la ragazza, in tono amaro.

«Non ce l'ho con te.» ripeté Damon, per l'ennesima volta. E per l'ennesima volta stava dicendo la verità. «Sono dispiaciuto.»

Per com'erano andate le cose, e anche per come sarebbero andate.

Non era stato in grado di essere il suo partner fino a quel momento, ma da lì a che non fosse finita avrebbe fatto del suo meglio.

Avrebbe tentato di essere quello che Elena meritava.

Lei lo guardò, speranzosa. «Davvero?»

«Non potrei avercela con te nemmeno se volessi.» confessò. «E non nego che avrei voluto. Ma... no.»

Ce l'aveva con se stesso, più che altro. Per la sua incapacità di ascoltare i consigli, per l'incapacità di ascoltare lei.

Se n'erano accorti tutti che era quello sbagliato: Caroline, Bonnie, Grayson, perfino Alaric che era il suo migliore amico, e lui non aveva avuto la capacità di cogliere tutti quei segnali.

Ed erano stati tanti.

«Quindi...» tentò lei. «...è tutto a posto? Tra noi, intendo.»

Non c'era proprio niente di "a posto", invece.

Damon si ritrovò a sospirare, sconsolato. «Diciamo che ci sono le cose per cui posso fare qualcosa e le cose per cui non posso.»

E questa era la fonte più grande della sua frustrazione.

«E la cosa ti infastidisce.»

«Moltissimo.»

Elena gli sorrise. «Detesto quando litighiamo.»

L'ultima volta che gliel'aveva detto, aveva difeso la sua posizione fino a risultare cocciuta. Era passato solo qualche mese.

«Non piace nemmeno a me.» confessò. Quindi, le porse il braccio. «Andiamo.»

Voleva che non fosse lì quando Caroline fosse uscita, ma soprattutto voleva passare del tempo con lei. Gli era mancata, per tutto il giorno, come ti possono mancare solo le cose che sai che stai per perdere.

E si domandò come diamine avrebbe fatto, senza di lei, a sopportare il peso di quel sentimento.

«Dove?» gli domandò, intrigata e anche un po' sorpresa.

Tuttavia, mise la mano nell'incavo del gomito che le stava porgendo.

«Voglio portarti a ballare.» le disse, con un sorriso. «Dove si può fare, stasera?»

«Be'...» lei ci pensò su. «Stasera è la serata karaoke al Grill... e... chi vuole può ballare.»

Non c'erano molti altri posti, dopotutto, in quella piccola cittadina, dove passare la serata. Era l'unico che potesse considerarsi un locale.

«Bene.» commentò, sembrava soddisfatto. «Signorina Gilbert, vuole uscire con me?»

Pose l'altra mano sulla sua e la accompagnò dall'altro lato della strada, senza distogliere gli occhi da lei. A pochi passi da loro, l'insegna del Mystic Grill illuminava quella porzione di strada, altrimenti buia a causa del lampione rotto.

Qualcuno entrava e usciva dalla pesante porta in legno, permettendo a intermittenza al vociare all'interno di sostituirsi al silenzio della strada.

«Mi stai invitando al nostro terzo appuntamento?» indagò la ragazza, un po' intrigata.

Lui mugolò un assenso convinto e se la strinse addosso. Tentò di imprimersi nella memoria ogni più piccolo e insignificante lineamento del suo volto.

C'era un ché di dolceamaro, in quella situazione. Damon sapeva che non si sarebbe sentito così mai più: non riusciva a immaginare di essere in grado di comportarsi come faceva con lei con un'altra persona, nemmeno in un miliardo di anni.

«Perché mi guardi così?» gli chiese, deliziata, ma anche con qualcosa di simile alla preoccupazione.

Non poteva biasimarla, era chiaro che si stava comportando in modo strano e che chiunque non avrebbe saputo cosa pensare.

Passava dal tutto a niente, l'avrebbe capita se l'avesse considerato matto.

Chissà, magari lo era davvero.

«Perché ti amo da impazzire, Elena.»

E questa era la verità.

Fece voto di non mentirle, in quell'ultima settimana, poco più, che restava loro.

Non prima del prom.

Ci pensò con immenso rammarico, mentre si chinava per darle un bacio sulle labbra.

«Andiamo.» lo incitò lei, staccandosi quasi subito.

Sembrava talmente eccitata alla prospettiva di avere un terzo appuntamento, che sembrava non volesse perdere tempo nemmeno a fare cose come quella.

«Avvisa i tuoi che non torni per cena.» le ricordò, prima di darle un leggero pizzicotto sul fianco che la fece ridacchiare e sobbalzare.

-

Elena si stiracchiò, nel suo letto, appoggiata alla testiera, col diario in mano. Era una domenica mattina straordinariamente calda per essere ancora poco più di metà aprile.

Stava finendo di scrivere quello che era successo il giorno prima, nascondendo il sorriso dietro le pagine del diario.

Damon è passato da casa subito dopo il lavoro. Lo so perché l'ho visto che era stanco morto, sembra che in quest'ultimo periodo si stia impegnando al massimo per essere tutto per tutti. Ho saputo da Stefan che aiuta perfino sua madre, il che mi fa pensare che sia impazzito.

Come si fa a passare dallo stare lontano in modo ostinato a essere il figlio perfetto? È stupito anche lui, ma per il momento non ci stiamo facendo troppe domande.

Farsi domande a volte fa male, e in questi ultimi giorni è talmente perfetto che preferisco rimanere nella mia ignoranza.

Non si sa mai quando potrebbe cambiare di nuovo.

Insomma, mi ha invitata a prendere un gelato, dopo cena. Mi ha un po' stupito, devo dire la verità. Da lunedì scorso stiamo passando davvero molto tempo insieme, mi sembra che abbia un po' lasciato cadere la faccenda del College.

Si vede che ci è rimasto male, ma in qualche modo credo che stia cercando di farsi perdonare.

Non ho ben capito per cosa, però mi fa piacere che si stia impegnando per noi.

"Perché?" gli ho chiesto, poi, appena fuori dalla gelateria.

È un po' che penso che sia strano. Stiamo facendo tutte quelle cose che non abbiamo fatto finora. Siamo andati al bowling, siamo usciti a cena, siamo andati a fare qualche passeggiata. Non siamo usciti insieme così tanto spesso in tutta la nostra relazione come nell'ultima settimana.

E ok, ci sono stati un sacco di casini, e mio padre si è un po' divertito a metterci i bastoni tra le ruote, prima di darmi il permesso di frequentarlo, ma comunque facciamo cose insieme. La cosa mi piace da impazzire.

"Perché mi sono reso conto che non so come ti piace il gelato." è stata la sua risposta.

E, ancora una volta, mi ha spiazzato, devo ammetterlo.

"So che ami bere la cioccolata calda con la cannella, che ti piacciono i biscotti con le gocce di cioccolato, le patatine fritte e gli hamburger. Ma odi i cetriolini." ha proseguito. "Che ami la pizza, ma la coca la bevi solo in vetro. Ti piacciono i miei crostini al salmone, le mie lasagne, i profiteroles, e uccideresti per un bignè al cioccolato. Ti piacciono anche i gamberi ma non sai sbucciarli. Però non so come ti piace mangiare il gelato."

Sembrava una cosa importante per lui.

Non so bene come interpretare quella frase, e non l'ho saputo nemmeno sul momento. Da una parte mi ha commossa sapere che ha notato tutti questi dettagli, dall'altra mi sono resa conto che è la prima volta che gli viene in mente di chiedermelo. Eppure, è il mio ragazzo da sei mesi, quasi, anche se sembra una vita di più.

Gli ho sorriso.

"Vaniglia e cookie." ho risposto, prima di dargli un bacio.

"Io prendo cioccolata e burro di arachidi."

"Accoppiata azzardata." mi sono permessa di commentare, ma il burro di arachidi non è il mio cavallo di battaglia.

Lui mi ha fatto quel sorriso storto che mi rende le ginocchia di gelatina, e sono arrivata a pensare che il burro di arachidi avrebbe potuto metterlo anche sulle sue formidabili lasagne.

Lo amo.

Lo amo davvero tantissimo, e ho paura quando si comporta così.

Cioè, non paura nel senso che sono spaventata, paura nel senso che se mi abituo a questo, se mi concedo di pensare che potrebbe essere sempre così, temo proprio che quando tornerà ad essere scostante mi spezzerà il cuore.

Vorrei andarci sempre coi piedi di piombo, ma non riesco. È come essere trascinati dalla corrente di un fiume, non si può combattere, specie quando mi prende per mano e me la accarezza come ha fatto stasera.

Siamo andati a fare una passeggiata, dopo il gelato, sempre mano nella mano.

Sono sicura che a un occhio esterno siamo sembrati una normalissima coppia di fidanzati qualunque. E questo pensiero mi ha un po' tranquillizzata, non so perché.

Abbiamo passeggiato e chiacchierato.

Mi ha raccontato di questa signora un po' pazzerella che insisteva che il testamento di sua madre fosse falso solo perché aveva donato tutti i suoi averi a un canile, ma era stato autenticato e non si poteva fare granché. Fatto sta che mi ha anche confessato che è uscito illeso da quella chiacchierata, ma non altrettanto la sua scrivania.

"Devo ricomprare il fermacarte." si è stretto nelle spalle, mentre lo diceva.

Come se non fosse così grave.

"Mi dispiace." l'ho detto ma ridevo, perché a pensare a una signora sulla sessantina che gli mette a soqquadro l'ufficio per il testamento della madre, un po' è divertente.

Ma solo perché lui non si è fatto niente.

Io non ho fatto praticamente niente tutto il giorno, quindi non ho avuto molte cose di cui parlare, se non del fatto che sono andata con Care e Bonnie a scegliere i nostri vestiti per il ballo. Io e Caroline ci siamo un po' accapigliate su un vestito rosso splendido, ma alla fine l'ho spuntata io.

"Non riesco a immaginarti mentre litighi con la tua migliore amica per un vestito." è stato il suo commento. "Non mi sembri proprio il tipo."

In effetti, non è mai successo.

"Il ballo di fine anno è il ballo di fine anno." mi sono giustificata così.

Voglio essere bellissima, giovedì. È una cosa troppo importante per una liceale. Sarà l'ultimo ballo scolastico, praticamente sancisce la fine della scuola, la fine del liceo. È una parte del ciclo di studi ma anche della vita che finisce.

Mi mette un po' di agitazione questo pensiero, anche se so che la mia vita non cambierà così tanto, sebbene Caroline e Bonnie non saranno più qui a tempo pieno, dopo il diploma, e la cosa mi rattristi profondamente.

"Ragazzina." l'ha detto con affetto.

Mi piace che abbia ripreso a usare il mio nomignolo. Lo sentivo così distante, negli ultimi tempi, invece adesso è come se avessimo recuperato la nostra profonda connessione.

Mi è sembrato più innamorato di quanto non sia mai stato, e anche io penso di non essere mai stata così innamorata di lui.

So che l'intensità di questo sentimento lo spaventa. Spaventa anche me, a volte. Credo che non sarei in grado di funzionare a dovere senza di lui.

"Pensi di poter restare da me?" mi ha chiesto, stringendomi, un momento dopo.

Sembrava pensieroso.

Sembra sempre pensieroso, ultimamente.

"Certo." dubitavo seriamente che i miei genitori se ne sarebbero preoccupati, infatti mamma ha visualizzato e basta quando le ho scritto che non rientravo.

Di questo periodo sono troppo concentrati su mio fratello, e il fatto che Damon si prenda più cura di me gli torna molto comodo.

E poi, volevo davvero restare con lui.

Voglio sempre restare con lui, in realtà. In questo ultimo periodo, non riesco a smettere di pensare a lui, di toccarlo, di fare qualunque cosa lo comprenda anche solo in minima parte.

I quasi venti giorni che abbiamo passato separati perché ero arrabbiata mi hanno messa K.O.

Non posso più pensare di poter stare lontana da lui.

Abbiamo riso e scherzato tutta la sera. E abbiamo camminato.

Quanto abbiamo camminato! Ci siamo girati tutta la parte vecchia della città. Quella che è in piedi dal 1800 e qualcosa, e penso che abbiamo anche fatto il giro due volte, ma ero troppo concentrata ad ascoltarlo per rendermi conto.

Ha voluto che gli raccontassi qualcosa di me.

"Stiamo insieme da sei mesi." ha detto. "E se so tutto dell'attuale Elena, so veramente poco di chi era Elena quando non ero qui."

Negli ultimi giorni è molto concentrato su questo. Non ho capito se così pensa di conoscermi meglio, o chissà che. Mi sembra che stia facendo una sorta di bilancio, una valutazione tra chi ero e chi sono adesso.

Ma non ho capito a cosa possa servire.

In ogni caso, gli ho parlato un po' di me. Della vecchia me, quella di prima dell'incidente. Cosa pensavo di volere per il futuro, qual era il mio rapporto con i miei, e in generale come affrontavo la vita. Avevo molte meno paure, ma davo anche molta importanza a cose che adesso non contano più nulla, per me. Cose futili.

"A quindici anni è perfettamente normale."

"Se potessi incontrarmi, credo che penserei solo di avere davanti una ragazza molto superficiale."

Forse non ero così diversa da Katherine, come mi piace pensare. Lei pensava molto ai vestiti, ai ragazzi, a divertirsi. In effetti, ero proprio come lei.

Poi, di nuovo, Damon mi ha spiazzata. "Domani ti va se ci vediamo per pranzo?"

È stata una domanda abbastanza fuori dal nulla. Non che vederlo così spesso mi dispiaccia.

Anzi.

È solo che mi sembra così strano che abbia tutto questo bisogno di avermi intorno, di stare con me. Mi ha chiesto dello spazio solo qualche mese fa perché pensava che fossi soffocante, e adesso mi conta i respiri.

È romantico, davvero, ma non lo capisco.

Ovviamente, gli ho detto di sì. Lui mi ha abbracciato stretta, e io posso giurare di aver sentito lo stomaco sparire chissà dove, come se fosse stato improvvisamente trascinato e inghiottito da un buco nero sotto ai miei piedi, che poi però me l'ha restituito tutto d'un colpo.

Mi uccide quando fa così. Mi sembra di non avere posto abbastanza per tutto l'amore che provo, ho la sensazione di poter scoppiare, e di essere felice comunque.

Abbiamo finito il nostro giro con me che gli stavo arpionata al braccio. Ero troppo contenta per lasciarlo andare o accontentarmi solo della mano, ma sembrava che anche lui fosse incapace di smettere di toccarmi.

Siamo arrivati fino a casa sua, eppure non ero per niente stanca, e un po' mi dispiaceva che avessimo già raggiunto la destinazione. Mi piace passeggiare con lui, anche se stiamo in silenzio, mi basta averlo al mio fianco, sapere che è lì.

Comunque, Damon non mi ha dato modo di essere triste a lungo.

Mi ha dato giusto il tempo di entrare in casa, poi era addosso a me. E forse sono ripetitiva, ma mi piace da morire quando mi prende il viso tra le mani e mi bacia così. Mi fa sentire desiderata alla follia.

Mi ha fatto una proposta: fare a modo suo. Non ho capito cosa intendesse, sul momento, ma poi me l'ha mostrato.

Non avevamo mai fatto l'amore in quel modo. Dice che noi adolescenti vogliamo tutto e subito, ed è vero che a me non piace aspettare. Però, devo ammettere che mi è piaciuto, aspettare lui. Ha un grande controllo su di sé, non lo credevo capace.

È stato diverso, ma bellissimo...

Un leggero bussare alla porta la distrasse dall'approfondire quel particolare aspetto della serata.

«Avanti!» incitò, allegra.

Era su di giri all'idea che, di lì a poco, Damon sarebbe passato da lei. Richiuse in fretta il diario e lo nascose sotto le coperte, perché fosse nascosto alla vista di chiunque.

Stava diventando ancora più personale di quanto non fosse mai stato, non poteva permettere che lo leggesse qualcun altro.

Jeremy comparve sulla porta.

Entrò solo quel tanto che bastava per affacciarsi.

«Tra poco esco.» la avvisò. «Mamma e papà sono andati a fare la spesa.»

Lei annuì, un po' a disagio. «Anche io tra poco esco.» riuscì a dire.

Erano le prime parole che si scambiavano da un mese a quella parte.

«Esco con Damon.» aggiunse, per riempire quello che probabilmente sarebbe diventato un silenzio pesante, oppure suo fratello sarebbe solo uscito di scena e lei stava solo provando a trattenerlo per cercare di fare conversazione.

Il ragazzino mugolò un assenso.

Dopo un attimo di esitazione, si decise a entrare.

«Senti...» sembrava anche lui particolarmente a disagio. «...ci tenevo a dirti che... mi dispiace per quello che ho detto in ospedale.»

Elena ci aveva pensato molto. Si era tenuta lontana da lui principalmente perché sapeva che aveva ragione: la vita dei suoi genitori aveva girato intorno a lei per un po', specie da dopo l'incidente.

Sapeva che lui aveva il diritto di odiarla, e lei non poteva fargliene una colpa.

«Dovrei essere io a scusarmi.» fece lei. «Ti ho reso la vita un inferno. Avrei dovuto rendermene conto.»

Passava la vita a cercare di aiutare tutti, e poi si perdeva i problemi di suo fratello, della sua famiglia. Si era sentita talmente tanto in colpa, che aveva messo a tacere tutto, per non rischiare di impazzire.

Forse era egoista ignorare tutto, ma era l'unico modo che conoscesse.

«Non è colpa tua se mi sono confuso con Kol.» continuò Jeremy. «In realtà, non mi è mai piaciuto. Fingevo di essergli amico per... volevo salvare Vicki, capisci? Sapevo che aveva ricominciato a farsi, l'ho notato durante i miei turni al Grill.»

Perché lui a lavoro c'era andato, non aveva fatto come lei che aveva finito di andare a far finta di fare qualcosa in biblioteca circa subito. Era durata da ottobre a dicembre.

Poi aveva racimolato la somma che le mancava per la macchina e si era dimenticata di andarci.

Jeremy, al contrario, era stato molto più serio di lei, che non era riuscita a ricollegare i puntini e a rendersi conto che il suo cambio di atteggiamento era stato stranamente contemporaneo al suo lavoro part time.

«Non ho mai toccato quella roba.» aggiunse, serio. «Sì, ho fumato qualche spinello, nel bagno della scuola, ma niente di più. Quella che mi passava Kol la buttavo nel wc.»

Fu un sollievo, saperlo. Anche perché Elena era certa che suo fratello non c'entrasse niente con quella gente.

«Ne ero sicura.» confessò, infatti. «E papà mi ha detto che non eri fatto, la notte in cui...»

Si interruppe per delicatezza, lasciò la frase in sospeso, in attesa che capisse dove voleva andare a parare, perché ancora non aveva idea di come avesse preso la morte di Vicki. Se almeno per Kol non gli importava, di certo per lei era un'altra cosa.

«Dovevi amarla molto.» continuò. «Mi dispiace per com'è andata a finire.»

Certo, lei e la sorella di Matt non erano mai andate molto d'accordo, ma non per questo aveva desiderato che morisse.

«Vicki mi è stata accanto in un momento in cui non avevo nessuno.» le raccontò suo fratello, e lei si sentì in colpa di nuovo. «Pensavo di amarla, poi pensavo di amare Bonnie. Non sono sicuro di sapere cosa voglia dire. Però voglio scoprirlo.»

Era molto, molto tranquillo.

La ragazza se ne stupì. L'ultima volta che l'aveva visto le era sembrato pieno di rabbia repressa, e ora era là, che sembrava calmo come un monaco buddhista.

Sembrava più adulto, più maturo.

Che fosse tutto merito del gruppo di supporto? O la morte di una persona cara l'aveva forzato a crescere in fretta?

«Sono sicura che la persona giusta non è così lontana.» fu tutto ciò che poté dire per incoraggiarlo.

Jeremy le sorrise. «Lo spero.»

Dopodiché, le fece un cenno con la testa e fece per andarsene.

«Jer?» lo richiamò lei. «Ti voglio bene.»

Lui rimase fermo e in silenzio, si vedeva che non era sicuro su come reagire a una frase simile, ma a Elena non importava: aveva bisogno di dirlo, aveva bisogno di sapere che lui sapeva.

«Lo so che faccio schifo a dimostrarlo.» continuò. «Ma sei mio fratello e ti voglio bene. Voglio che tu sia felice e... mi dispiace davvero di averti causato dolore. Non credevo che la mia vita potesse influenzare così tanto la tua.»

«Lo so, Ele.» mormorò lui, così piano che lei faticò a sentirlo. «È un problema della nostra famiglia, non saper dimostrare affetto nel modo giusto tra noi. Anche io voglio il tuo bene.»

Forse era troppo presto per chiedergli di dire che era tutto a posto, e che le voleva bene anche lui. Quindi, sua sorella si impose di avere pazienza e aspettare. Magari le cose si sarebbero sistemate da sole, stava facendo grandi progressi.

Il medico di Jefferson doveva essere davvero bravo.

«E Damon mi sembra un tipo a posto.» concluse così, prima di dileguarsi davvero.

Lei restò sorpresa, seduta nel letto, chiedendosi se non si fosse appena immaginata tutto. Jeremy aveva sempre mostrato un po' di disprezzo verso Damon. Anzi, aveva addirittura aiutato Caroline, la sera del ringraziamento, quando avevano deciso che non potevano andare a letto insieme.

Perfino a scuola, non si era risparmiato qualche commento negativo.

E ora era un tipo a posto?

Fu distratta dal suono del campanello.

E non si era nemmeno truccata.

«Oh, cavolo!» saltò giù dal letto per correre giù per le scale.

Aveva addosso un vestito a fiori, se l'era messo per l'occasione, ma non aveva pensato al make up. Cercò di sistemarsi alla bell'e meglio i capelli, prima di aprire con un sorriso stampato in faccia.

Damon era lì. Bello come il sole.

«Ciao!» lo salutò, entusiasta.

Gli si lanciò contro con tale impeto che per sorreggerla il ragazzo dovette indietreggiare di qualche passo.

«Sono felice di vederti anch'io.» mormorò, sorpreso. «Sei pronta?»

Lei mugolò un assenso contro la sua spalla, e si limitò a respirare il suo odore per un po'.

«Mi sei mancato.»

Damon ridacchiò. «Ma se ti ho riportata qui nemmeno due ore fa.»

Le spostò i capelli dal viso, per guardarla un momento. Sembrava felice, e la cosa lo riempiva di gioia. Almeno una cosa era riuscito a farla.

Elena non disse niente, ma lo notava quello sguardo strano, ed era sicura al cento percento che ci fosse qualcosa che non quadrava. Ancora era restia a indagare, ma di sicuro non se ne sarebbe scordata. Non era andata molto bene le altre volte che ci aveva provato, anche se Damon sembrava molto cambiato, dall'ultima volta in cui avevano discusso, eppure una parte di lei sapeva che non era il momento giusto per tirare fuori l'argomento.

E un po' anche non voleva, se avesse significato rovinare tutto quello che quella giornata sembrava offrire.

Di nuovo, egoista.

Ma non ebbe tempo per riflettere di più e di farsi divorare dai rimorsi.

Si ritrovò incastrata contro lo stipite della porta, sul portico, e le labbra di Damon sulle sue.

«Mi sei mancata anche tu.» le disse, un momento dopo.

«Ma come...» lo stuzzicò, birichina. «...mi hai riportato qui nemmeno due ore fa.»

Il ragazzo rise prima di stringerla a sé di nuovo e ritornare a baciarla. Si abbracciavano stretti, in quel modo che la faceva sentire insieme desiderata e protetta.

Sembrava che il mondo fosse svanito: c'era solo la bocca di Damon, il modo in cui si muoveva, le sue mani che le accarezzavano la schiena con quel fare un po' possessivo.

Poi, qualcuno si schiarì la voce.

Un brusco ritorno alla realtà.

«Scusate...» era Jeremy. «Io dovrei uscire.»

Il sorrisetto di Damon era carico di sottintesi. «Vai e conquista.»

Alzò una mano per farsi dare il cinque, e non attese a lungo.

«Ci provo.» sembrava un po' intimidito.

Elena lo guardò allontanarsi verso la stazione degli autobus. «Ma dove va?»

«Si vede con una ragazzina che gli interessa.» il suo ragazzo sembrava saperne molto più di lei, per questo lo guardò con aria sorpresa. «Mi ha contattato e mi ha chiesto consigli.»

Ora tornava tutto.

Ecco perché era "un tipo a posto". L'aveva aiutato a guadagnarsi un appuntamento con una ragazza.

«Cioè tu lo sapevi e io no.»

Non le aveva detto nulla nemmeno quando avevano parlato di Vicki e Bonnie. Non parlava con lei ma con Damon sì.

«Come si chiama?» tentò di indagare, preoccupata. «Quanti anni ha? È una tipa per bene o è... più come Vicki?»

Si ritrovò a sussurrare l'ultima parte solo perché le sembrava maleducato insultare un morto.

Ma lui scoppiò a ridere. «Non ne ho idea, Ele.» si strinse nelle spalle. «Mi ha solo chiesto qualche dritta, non mi ha raccontato la storia della sua vita.»

E sapeva che lei era preoccupata, lo vedeva dal modo in cui guardava il punto in cui Jeremy era sparito dietro l'angolo.

«Andrà tutto bene.» le assicurò. «Esce con una ragazza, non sta andando in guerra.»

Elena gli scoccò un'occhiata di rimprovero.

Si sentiva esclusa da una cosa che pensava la riguardasse. Suo fratello e il suo ragazzo facevano comunella e lei non ne sapeva nulla.

«Che dici, andiamo?» propose Damon, porgendole il braccio. «Così ci liberiamo di questo musetto tutto imbronciato?»

Ci mise un momento a decidere di sorridere. «Cinque minuti.»

Un piccolo baratto, che sigillò tirandolo per il colletto della camicia.

«Te l'ho detto che sei proprio carina, oggi?» le mormorò sulle labbra, prima di prenderla per mano.

«Non ancora.» sussurrava anche lei, come se dovesse mantenere un segreto.

Damon le prese anche l'altra mano e l'avvicinò nuovamente a sé. Aveva così tanto bisogno di sentirla addosso che faceva quasi male, in un punto accanto allo sterno dove non aveva mai sentito quella sorta di vuoto che sembrava volesse mangiarsi qualunque emozione positiva potesse provare.

«Lo faccio adesso, allora.»

Confusa, sorpresa e deliziata, Elena distese ancora la bocca. «Come mai sei così dolce, stamattina? Hai battuto la testa?»

Damon si domandò se dovesse sentirsi insultato.

Stava davvero facendo del suo meglio per fare in modo che quegli ultimi giorni fossero riempiti solo da ricordi felici.

Niente per cui soffrire.

Ma, dopotutto, sarebbe sembrato strano a chiunque quel cambiamento così drastico... no?

«Forse voglio farmi perdonare per tutto il resto del tempo in cui sono stato uno stronzo.» si strinse nelle spalle, sempre tenendo saldamente le mani della ragazza contro il petto.

Erano l'unica cosa che impediva a quel vuoto di espandersi oltre, era sicuro.

Cosa avrebbe dovuto fare, senza di lei?

Quando tutto era iniziato, aveva avuto paura a legarsi così tanto, adesso aveva paura a tornare dovunque fosse stato prima di Elena.

Non riusciva a immaginare un'alternativa peggiore, specialmente quando lei lo baciò ancora.

Ed Elena era tutto, semplicemente.

Non c'era altro modo per dirlo, spiegarlo.

Era diventata tutto e non sapeva nemmeno quando, di preciso.

«Ma alla fine dove mi porti?» gli chiese, dopo.

«A fare un picnic.» le indicò la sua Camaro azzurra con un gesto della testa. «Alle cascate.»

«Alle cascate?»

«Sì.» confermò lui. «Non ci siamo mai stati.»

Pensierosa ma docile, Elena si lasciò condurre fino all'auto, domandandosi perché mai fosse così fissato a fare cose che non avevano mai fatto fino a quel momento.

Durante il viaggio, fu più silenziosa di quanto bastasse al suo ragazzo per essere tranquillo, ma lei era troppo impegnata a tentare di sbrogliare l'enigma che era diventato da giorni, ormai.

Era facile capire, più o meno, l'origine del suo disagio quando si comportava da stronzo, ma quando sembrava che fosse tutto a posto?

Troppo a posto?

«Va tutto bene?» volle sapere lui, infatti, una volta parcheggiato nello spiazzo di fronte a uno degli ingressi dei percorsi tra gli alberi che conducevano alla cascata.

Il parcheggio era praticamente pieno.

In una delle prime domeniche di primavera e sole, sembrava che avessero avuto tutti la stessa idea, o quasi.

Elena si limitò a mugolare un assenso, decisa che avrebbe provato a indagare piano, piano, per non agitare qualunque cosa ci fosse da agitare.

Piccoli passi.

«Avviso la mamma che non ci sono a pranzo.» rifletté, prima di seguirlo sulla passerella di legno.

E lo fece, ma aprì anche la chat con suo fratello.

"Fammi sapere se sei arrivato e se è tutto ok."

Sperava che non lo prendesse come una scusa per controllarlo, ma la sola preoccupazione di saperlo al sicuro, dovuta a tutto quel mistero.

Perché mai dovesse essere tutto così maledettamente difficile rimaneva un mistero.

«Scegli un percorso.» la incoraggiò il ragazzo, un momento dopo.

Elena alzò lo sguardo dal telefono per trovarsi davanti a un sentiero molto lungo che si perdeva tra gli alberi, e veniva spezzato da diverse traverse.

L'affollamento del parcheggio si rifletteva anche lì: un sacco di famiglie con bimbi.

Si sentiva un po' circondata: se voleva davvero scoprire cosa passava per la testa del suo accompagnatore, le serviva un posto più appartato.

Dubitava che si sarebbe aperto con lei dove chiunque poteva sentirlo, specie se si trattava di una cosa di famiglia.

«Di qua!» lo prese per la manica e lo trascinò in una stradina laterale deserta e piuttosto maltenuta.

Damon si concesse un mugolio dubbioso. «Sei sicura?»

Lei non pareva aver notato niente.

«Tanto si arriva alle cascate lo stesso, no?»

In risposta ebbe l'ennesimo "mmh" poco convinto. Cioè, sì: ci sarebbero arrivati, ma non sapeva come.

Infatti, circa cinque secondi dopo, erano dentro una nuvola di zanzare.

«Elena...»

«Accidenti!» borbottò la ragazza tra i denti. «Corri!»

Non si assicurò che il suo ragazzo fosse dietro di lei finché non arrivò in fondo alla strada. Peccato che fosse già ricoperta di zanzare in tutti i punti in cui la pelle era scoperta. Cercò di liberarsene scuotendo le braccia.

Nel frattempo, Damon arrivò con calma.

«Sei immune?» gli domandò, un filo contrariata che dovesse passare la mattinata a essere l'unica a grattarsi.

Molto femminile.

«No.» le sventolò sotto al naso il cestino del pranzo. «Avremmo mangiato centrifuga, e ammetto che correre non fa proprio figo, specie con queste comodissime scarpe non da ginnastica.»

Ora che ci rifletteva, non l'aveva mai visto correre.

Si mangiò le labbra per non ridere. C'era una cosa che Damon, forse, non sapeva fare.

«Cosa ridi, ragazzina?» ora era lui quello un po' offeso.

Ma Elena nascose le mani dietro la schiena e scosse la testa, e distese le labbra. «Sei proprio carino.»

«Ruffiana.»

Però sì, lo era. Era bello, ogni tanto, vedere qualche difetto che non mettesse per forza tutto in crisi. Un difetto innocuo, di quelli che non nemmeno possono chiamarsi tali.

Ma almeno non era perfetto in tutto.

«Se andiamo di là arriviamo a destinazione.»

Erano in uno spiazzo aperto, piuttosto asciutto, per fortuna, così non c'erano, per citare Damon, altre maledette succhiasangue. E quel posto era un groviglio di stradine che portavano tutte alle cascate, al centro dell'area.

«Aspetta, voglio fare una foto!»

La ragazza si sedette su una staccionata quasi cadente, se non per due o tre moduli. Si sedette al centro e si mise in posa per un selfie, assicurandosi che si vedesse bene il panorama.

Sembrava felice.

Damon la poteva sentire, quella sensazione di calore diffondersi dentro al petto, mentre la guardava. E non poteva non maledirsi per essere stato tanto stupido.

«Non vuoi che sia io a scattartela?» le chiese, ma lei lo afferrò per la mano che le stava porgendo e lo fece entrare nell'ennesima foto.

Ne scattò un paio.

«Ma perché?» era confuso.

Elena si strinse nelle spalle. «Perché se una è venuta male, magari le altre sono carine.»

Scorreva tutte le foto che aveva fatto – una decina – per poi osservarne qualcuna in particolare in modo più approfondito.

«Ti va se questa la metto su Facebook?» girò il telefono per fargli vedere una delle ultime. Erano insieme e lei gli stava baciando una guancia.

Lui annuì. «Fai come preferisci.»

Il cestino di vimini era appoggiato tra due corrimano di legno, era abbastanza alto per restarci incastrato in mezzo, senza paura che potesse cadere. Era lì in modo tale che Damon potesse avere entrambe le mani libere di essere appoggiate ai lati della sua ragazza, ancora seduta sulla staccionata lì accanto.

«Hai fame?»

«Dipende cosa tieni nascosto lì dentro.» la ragazza occhieggiò alla cesta, con fare eloquente. «Specie se sono i tuoi tramezzini.»

Anche se, se fosse stata del tutto sincera, avrebbe divorato qualunque cosa lui avesse preparato. Ma tanto Damon lo sapeva perfettamente, quindi si piegò verso di lei, col suo sorriso storto sulla bocca.

Accostò la fronte contro la sua, e si concesse un sospiro e un momento per respirare. Sembrava tutto così tranquillo, tutto così perfetto.

Fu lei ad allungarsi per prendersi un bacio. Breve, piccolo.

«Damon, perché non mi dici che hai?» gli chiese, dopo, incapace di aspettare.

Ci aveva provato ad avere pazienza e cercare di cogliere i segnali. Di segnali ce n'erano stati una valanga nell'ultima settimana.

Lui però non si decideva a parlare, qualcuno doveva prendere in mano la situazione.

Istintivamente, si ritrasse. «Non ho niente.»

Certo.

Era sulla difensiva.

«Davvero.» lo pregò Elena. «Lo capisco quando hai qualcosa che non va. Perché non me ne parli?»

Pareva averlo lasciato senza parole.

Era così: era stato così tanto sicuro di aver dissimulato ogni possibile malessere durante quell'ultima settimana che sentirselo dire in quel modo fu un colpo, ma in fondo non così tanto una sorpresa: non era certo la prima volta che Elena gli leggeva dentro come se fosse stato trasparente.

Le porse la mano e le fece cenno di andare.

Lei lo seguì.

«Non sono sicuro sulle parole che dovrei usare.» confessò, infine. «Non voglio ferirti.»

Era la verità.

Elena lo sapeva dal tuffo che il cuore aveva fatto nello stomaco. Solo la verità ti può spaventare e anche un po' nauseare.

«Mi riguarda, quindi?» era una domanda cauta, fatta quasi con timore.

Lui annuì e basta.

Avrebbe tanto voluto leggergli nella mente, Elena. Con tutte le sue forze. Tirargli fuori le parole non era mai sembrato così difficile.

Da un lato era quasi confortante, perché Damon quando prendeva decisioni non c'era per nessuno: non erano oggetto di discussione, perciò non aveva ancora deciso niente. Dall'altro lato, se non aveva ancora deciso niente doveva per forza essere qualcosa di contorto e complicato.

E riguardava lei.

«Perché non ci sediamo su quei sassi un momento?» non poteva davvero aspettare di arrivare alle cascate. «È successo qualcosa?»

E poi, da un lato era felice che non ci fossero spettatori. Era una cosa privata e personale.

Non si sentivano nemmeno in lontananza le grida dei bambini, dovevano essere ben nascosti tra gli alberi, rispetto alle famiglie.

Damon, però, ci mise qualche minuto a elaborare una risposta. Le stringeva la mano, forte, come se avesse dovuto scivolargli via da un momento all'altro.

«È successo che mi sono comportato di merda, con te.»

Era frustrato.

Non la stava guardando.

Ma lei rimase pietrificata sul posto. Si sarebbe aspettata di tutto, ma quello... no.

«Cosa?»

«No, sul serio.» fece lui, ormai bisognoso di andare avanti. «Questa cosa rischia di farmi impazzire.»

Le ci volle un momento per capire a cosa si potesse mai riferire. C'erano stati diversi momenti in cui si era comportato male e l'aveva fatta soffrire, ma era sicura che le avesse chiesto scusa già la mattina dopo che avevano litigato per via del College.

Una sola, altra cosa non avevano mai davvero chiarito, ma sembrava passato così tanto tempo che aveva perso di importanza.

«Ascoltami.» gli prese il viso tra le mani per costringerlo a guardarla. «Sei andato via, d'accordo. Mi fa piacere che tu ti senta in colpa, perché ci sono rimasta davvero male, quando sei sparito. Ma ti ho perdonato, va bene? Se dovessimo rivangare tutte le cose sbagliate fatte in passato, non vivremmo. Quindi, andiamo avanti, okay?»

Dopotutto, restare ancorati a cose successe che ormai non si potevano cambiare non poteva giovare a nessuno. Ne era perfettamente consapevole.

Le cose si erano, tutto sommato, sistemate da sole. Il tempo le aveva sistemate, e un po' anche la consapevolezza che Damon aveva acquisito sul non poter controllare tutto.

«Mi dispiace...» disse lui, invece. «Davvero.»

Elena si sporse per baciarlo, non sapeva più come tranquillizzarlo sull'argomento. Voleva solo lasciarsi tutti i problemi alle spalle e proseguire su quella nuova strada che avevano intrapreso.

Erano felici, giusto?

«Mi dispiace che tu ti sia sentita come se il mio amore dovessi guadagnartelo.» proseguì Damon, piano. «Come se fossi stata costretta a fare delle rinunce per fare in modo che io ti amassi.»

Aveva lo sguardo triste.

Così, lei lasciò che si sfogasse, che lasciasse andare tutto. Che fosse completamente sincero per la prima volta.

«Io non ti amo perché scendi a compromessi.» le accarezzò il viso, con il tocco del pollice. «Io ti amo perché tu sei... speciale.»

Il fiato si bloccò nel petto di Elena.

Le parole erano così sentite, così belle. Ma allora perché sentiva campanelli di allarme ovunque?

«Vedi sempre il buono nelle persone.» Damon prese un bel respiro. «Anche di me sei sempre riuscita a vedere il meglio. Mi sei rimasta accanto nonostante tutto, sarebbero scappati tutti, al posto tuo. Invece tu... tu hai insistito con me, e fin da subito. Mi hai capito al volo, mi hai accettato per quello che sono.»

Sembrava una cosa impossibile, da come lo diceva. Come se non fosse possibile amare un'altra persona per com'era davvero.

E, invece, lei c'era riuscita.

«Sto benissimo con te.» le confessò. «Mi fai sentire bene, non importa cosa facciamo insieme. Se parliamo, stiamo in silenzio, oppure se passeggiamo, mangiamo. Non importa. Tu sei qui vicino a me ed è abbastanza per me per essere felice.»

Non si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere, e sperò di non aver fatto un casino quando vide gli occhi della sua ragazzina riempirsi di lacrime.

«Elena.» la chiamò, piano. «Tu sei l'amore della mia vita.»

E lei fu costretta a lasciare la sua mano, sopraffatta. Non sapeva cosa dire.

«Damon perché mi stai dicendo queste cose?» la sua voce era ridotta a un filo.

Era quasi sicura che le stesse girando la testa, ma non capiva più niente, se doveva essere sincera. Perché quelle parole le aveva soltanto sognate. Non credeva che Damon fosse in grado di andare così a fondo nei suoi sentimenti per dire una cosa del genere.

O meglio, era sicura che non sarebbe mai stato disposto ad ammettere una cosa simile.

«Perché devi saperlo.» fu la sua spiegazione semplicistica. «E qualunque cosa succeda, sappi che questa è la verità. Non c'è College, o catastrofe naturale, invasione zombie che possa cambiarlo: ti amerò per sempre.»

Era importante, per lui, che lo capisse, che lo ricordasse qualunque cosa fosse accaduta in futuro.

Nel giro di qualche giorno.

Era per questo che aveva voluto chiarire tutto. Voleva che lei sapesse che non avrebbe mai più amato un'altra, e che quello che sarebbe successo non dipendeva dalla mancanza di amore.

«Ti amerò per sempre anch'io.» mormorò Elena, emozionata. «E se sono scesa a compromessi, come li chiami tu, è perché voglio che tu sia felice. È questo che si vuole quando si ama qualcuno. È per questo che ti stai comportando in modo così strano ultimamente? Pensi di dovermi qualcosa perché non vado al College?»

Lui scosse la testa. «No. Volevo...»

Volevo che avessi un bel ricordo di me.

«Volevo vederti sorridere di nuovo.»

Dopo, baciò quel sorriso.

A lungo.

Sembrava che quel particolare giorno nessuno dei due riuscisse a staccarsi per troppo tempo. Ma dopo che aveva detto quelle cose, Elena non voleva fare altro che quello.

Lo strinse forte.

«Dai, ora andiamo.» la incitò Damon, dopo. «Non vedo l'ora di passare questa giornata con te.»

E tutte quelle che avevano a disposizione.

«Vuoi restare con me anche oggi pomeriggio?» le chiese, infatti.

Lei annuì. «Se non hai da fare...»

«No.» quasi non la fece nemmeno finire di parlare. «In realtà... be', visto che il lunedì tendo a tenermelo di pausa... anche domani dopo scuola, se vuoi...»

Deliziata, Elena gli schioccò l'ennesimo bacio sulla bocca. «Non riesce più a fare a meno di me, signor Salvatore?»

«Non sai quant'è vero.»

E non la notò, Elena, l'amarezza in quella confessione.


Now, now...

Il prossimo cap sarà ovviamente il prom.

La parte che tutti attendiamo e temiamo è già scritta, mi manca solo scrivere la scena dove ci si arriva, perciò spero di non metterci quattro mesi. E di non essere distratta da altre storie.

Come promesso, vi lascio il prologo della nuova Delena che ho iniziato e che mi diverte un sacco scrivere. Elena queen of sass, ci ho provato.

Non gli ho ancora dato un titolo, né so esattamente dove vuole andare a parare, però mi piace un sacco, quindi se volete ecco il prologo:


Ho bisogno di aria.

O forse di dormire.

O di tutte e due le cose.

In ogni caso, spalancare la porta dello spogliatoio è un toccasana: dopo un turno di non so più quante ore e un pisolino di quattro minuti, strappato al bancone delle infermiere, mentre tentavo di compilare una cartella clinica, non capisco più nemmeno come mi chiamo.

Quando ho scelto di frequentare la facoltà di medicina, non ero completamente consapevole che questo lavoro avrebbe fagocitato una buona fetta della mia vita.

"Non avrai orari"

È stato così che mio padre ha pensato di avvisarmi, a diciott'anni. Ma a quell'età te ne freghi se dovrai restare alzato fino alle tre, o non dormire affatto.

Quando hai trent'anni è un po' più difficile, dopo un turno – o due, boh – riuscire ancora a connettere il cervello.

«Stai andando via?»

Cerco di coprire uno sbadiglio con un assenso mugolato all'indirizzo di April, una specializzanda nuova di zecca che il Dottor Maxwell tenta ogni giorno di appiopparmi perché non la sopporta.

«Hai una faccia.»

«Grazie.»

«Prenditi un caffè.»

Ingoio l'ennesima risposta sarcastica e mi limito a piantare nell'armadietto il mio camice, immaginando che la gruccia sia il collo di April.

Sì, prenderò un caffè.

E magari chiamerò Liam per fargli sapere che sono ancora viva, o gli manderò un messaggio. In effetti, non so nemmeno che ore sono e se ha già iniziato il suo turno.

Ma, prima di fare qualunque altra cosa non sia arrancare fino alla caffetteria, ho bisogno di quel maledetto caffè.

Ci sono giorni come questo in cui rimpiango tutte le scelte che ho preso nella mia vita.

Spero che capitino a tutti, altrimenti ho davvero sbagliato qualcosa. La mia più cara amica di una vita, Caroline, dice sempre che affronto la vita in modo troppo depresso.

Forse ha ragione, ma una che lavora nel campo della moda non vede fiumi di gente in bilico tra la vita e la morte, il mio pane quotidiano.

A volte è un bel lavoro, quando la vita la salvi davvero. Altri giorni fa schifo e basta, perché ne perdi uno e sei solo un testimone di troppo al dolore della famiglia.

E senti che è un po' anche colpa tua.

Però mi piace, aiutare la gente, essere in grado di fare qualcosa per cambiare il corso delle cose. Mi fa stare tranquilla sapere che so cosa fare e ho tutti gli strumenti per reagire anche alla peggiore delle situazioni.

Con un sospiro rassegnato, apro la porta del bar.

Per fortuna è vicino al parcheggio e potrò trascinarmi alla mia auto senza dover fare troppi passi non necessari.

«Ty.» chiamo il barista. «Un bidone di caffè.»

Forse è martedì.

Forse sono ridotta così tutti i martedì.

Non mi ricordo proprio, penso solo che il bancone ha un'aria veramente invitate, quindi mi ci rovescio sopra con la testa.

«Doc.»

Mi saluta sempre così.

Saranno tipo quattro anni che vengo qui quando monto e quando smonto.

Ma l'unica cosa a cui riesco a pensare adesso è il beverone fumante che mi mette accanto alla faccia.

«Sei un angelo.»

Lui ride.

Tyler è un tipo simpatico. Non è il classico barista che finge di ascoltare i tuoi problemi, anzi, non se ne fa a dirti che non gliene frega assolutamente niente.

«Intanto pagami.»

Per l'appunto.

Sollevo la testa il tanto che basta per raggiungere il portafogli dentro la borsa sotto la mia testa e attaccarmi alla cannuccia.

Dopo un paio di minuti riconosco che esiste un mondo vero intorno a me.

E, sì, fa un po' schifo.

Ma è comunque quello che mi sono scelta.

«Se non ci penso io a te, Gilbert.» Tyler sbatte sul bancone tre monete. «Ti faresti fregare anche da un ragazzino.»

Gli sorrido. «Per fortuna ho te.»

Sono pronta a godermi il resto del mio beverone. E sento che sto iniziando a rilassarmi. Il mondo è un bel posto, ora.

«Elena?»

Ci metto un momento a capire che stanno parlando con me.

Forse perché nessuno in orario di lavoro – o all'interno del perimetro dell'ospedale – mi chiama per nome. Sono la dottoressa Gilbert, o solo Gilbert per i colleghi.

E quella voce non la sento da una vita.

Volto la testa solo per scoprire che il proprietario di quella voce è seduto sullo sgabello di fianco al mio.

Una parte di me lo sapeva già stamattina che oggi sarebbe stata una giornata di merda.

Mi sono alzata dal letto e sono inciampata nel giocattolo nuovo di Mister Jenkins, l'ultimo arrivato nella mia piccola famigliola di gatti, e ho rischiato di rompermi un dente sullo stipite della porta.

Ogni giorno in cui prometto che non comprerò più palle di gomma per i miei gatti è un giorno di merda.

E, infatti, ho quasi perso un paziente oggi, e l'avrei fatto se non fosse intervenuto il Dottor Maxwell. Il che mi ha riempito di sollievo, ma anche di vergogna.

Ho finito la specializzazione da due anni, e faccio ancora gli errori di un novellino.

Ciliegina sulla torta, sullo sgabello vicino al mio, a migliaia di chilometri dall'ultimo posto in cui l'ho lasciato, sta seduto il mio ex.

Quello che avevo giurato per me fosse morto.

«Damon?»

Sì, è una specie di domanda.

Primo perché avevo scordato la sua esistenza – no, non è vero – e secondo perché di tutti i posti del mondo in cui mi sarei mai aspettata di trovarlo, la caffetteria dell'ospedale in cui lavoro non c'era.

Nemmeno menzionata per errore.

Perché io vivo a Baltimora da anni, e lui non si è mai mosso dalla Virginia.

«Ciao.»

Ciao.

Sono quasi quattro anni che non mi vedi, stronzo.

«Che ci fai qui?»

Non mi preoccupo di non suonare aggressiva.

Chi l'ha detto che tra ex bisogna per forza essere civili?

Lui sembra sorpreso.

Però sorride.

Sorride di quel sorriso sghembo che mi ha fregata la prima volta che ci siamo visti.

È strano come persone che sono uscite dalla tua vita da anni possano sembrare così familiari. Ricordavo tutto, di lui. Perfino le rughe intorno alle labbra che si formano quando la muove in quel modo.

I suoi stupidi occhi blu.

Quella cosa che fa con quegli stupidi occhi blu, quando mi guarda... o mi guardava.

E tante altre cose che faceva.

Mi schiarisco la voce, e rendo grazie del fatto che nessuno possa vedere o sentire cosa mi frulla nella testa.

«Sono qui per mio fratello.» è – o pare – molto tranquillo, nonostante il mio tono.

Però non commento.

Che io sappia, suo fratello è in coma.

«Si è svegliato.» ecco. «Siamo qui a fare fisioterapia. Ci hanno detto che è il posto migliore del Paese.»

Già.

Perché ho scelto di lavorare nel terzo ospedale migliore di tutta la cazzo di America?

Giusto. Mi ha raccomandata mio padre al dottor Maxwell, che è amico suo.

«Oh.»

Non sono sicura di cosa dovrei dire.

Però ci provo: «Sta bene?»

«Sì.» prende un sorso di... bourbon, credo. Da quando vendono bourbon alla caffetteria dell'ospedale? «Ci hanno detto che i parametri sono tutti nella norma. È un paio di mesi che è sveglio, ma i miei hanno insistito per fare qui la fisioterapia. Speriamo che possano aiutarlo a tornare a camminare come prima.»

Stefan.

Così si chiama suo fratello.

Ricordo che aveva avuto un incidente in moto. Una cosa del genere.

Comunque è stato prima che ci conoscessimo.

Ma poi, chi è che beve bourbon a quest'ora?

Alla fine, che ore sono?

«Comunque è l'ora di andare, per me.» si alza e io fatico ancora a seguire i suoi movimenti.

Mi sembra più veloce dei miei gatti.

«Mi ha fatto piacere rivederti.» a me no. «Magari possiamo trovarci qualche volta per un caffè.»

Anche no.

Gli sorrido, nel modo più naturale che mi riesce.

«Sicuro.»

Anche no.

Sono le quattro del pomeriggio.

Io non dormo da ventisei ore, e il mio ex mi ha appena vista in questo stato.

Voglio morire.

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