Dear Diary - The Vampire Diar...

By Dottie93

151K 3.4K 1.6K

DELENA [AU: Tutti umani] Elena Gilbert è una ragazza di diciotto anni, all'ultimo anno di liceo, ch... More

Dear Diary
Today I saw a boy
And I wondered if he noticed me
He took my breath away
Diary, do you think we'll be more than friends?
I can't get him off my mind (parte 1)
I can't get him off my mind (parte 2)
And it scares me (parte 1)
And it scares me (parte 2)
'Cause I've never felt this way (parte 1)
'Cause I've never felt this way (parte 2)
Does he know what's in my heart? (parte 1)
Does he know what's in my heart? (parte 2)
Should I tell him how I feel...? (parte 1)
Should I tell him how I feel...? (parte 2)
I thought he smiled at me (parte 1)
I thought he smiled at me (parte 2)
As he walked by (parte 1)
As he walked by (parte 2)
As he walked by (parte 3)
Now I can't wait to see that boy again (parte 1)
Now I can't wait to see that boy again (parte 2)
Now I can't wait to see that boy again (parte 3)
Now I can't wait to see that boy again (parte 4)
Now I can't wait to see that boy again (parte 5)
One touch of his hand (parte 1)
One touch of his hand (parte 2)
One touch of his hand (parte 3)
One touch of his hand (parte 4)
One touch of his hand (parte 5)
One touch of his hand (parte 6)
So, diary, I'll confide in you (parte 1)
So, diary, I'll confide in you (parte 2)
So, diary, I'll confide in you (parte 3)
So, diary, I'll confide in you (parte 4)
He smiled (parte 1)
He smiled (parte 2)
He smiled (parte 3)
He smiled (parte 4)
And I thought my heart could fly (parte 1)
And I thought my heart could fly (parte 2)
No one in this world knows me better than you do (parte 1)
No one in this world knows me better than you do (parte 2)
Please, tell me what to say (Parte 1)
Please, tell me what to say (Parte 2)
Please, tell me what to say (Parte 3)
Diary, tell me what to do (parte 1)
Diary, tell me what to do (parte 2)
Diary, tell me what to do (Parte 3)
...or would that scare him away? (Parte 1)

As he walked by (parte 4)

3.6K 80 53
By Dottie93

Damon richiuse la valigia con uno schiocco rassegnato delle cerniere: la voglia di andare a trovare la sorella di sua madre non era riuscito a trovarla nemmeno immaginandosi tutti i possibili incoraggiamenti che quell'inguaribile ottimista della sua ragazza avrebbe potuto fargli.

Non era riuscito a trovare dei risvolti positivi nemmeno quando si era chiesto 'Cosa penserei se fossi Stefan?', ma in un momento del genere nemmeno il suo positivissimo fratellino era così contento di dover passare le vacanze fuori città, specialmente adesso che sapevano che Lexi se n'era andata alle Bahamas con William... o come cavolo era.

Forse Lee?

Mah. Chissenefrega.

Non era poi così importante, dato che anche lei aveva cambiato fidanzati come cambiava le paia di scarpe, ma sulla cara Lexi non si era mai potuto dire nulla, ovviamente, era lui la pecora nera della famiglia. Chissà perché non era affatto una sorpresa.

Sua zia Lucy era la classica zia cicciona che non vedi mai, ma che quando sei un bambino e lei non ha ancora figli, ti riempie di caramelle in occasione delle feste, nel senso che proprio te le infila giù per la gola senza curarsi del fatto che tu le voglia o meno.

Lexi era arrivata solo qualche anno dopo di lui, e grazie al cielo non c'erano state più caramelle che non sapeva dove sputare, o non quante come prima. Comunque, non c'era stato verso di farli andare d'accordo: fin da piccolo Damon aveva avuto un debole per le belle donne, e Lexi era stata la bimba più brutta della terra, secondo il suo modesto parere.

Brutta e viziata, tra le altre cose. Peggio di così...

Era stato in quel periodo, quando sua cugina aveva cinque anni, che sua zia aveva giurato vendetta. Damon, incazzato perché quella scocciatrice proprio non voleva lasciarlo in pace, l'aveva spinta nel fango e non si era risparmiato nemmeno un insulto, le aveva detto tutto ciò che pensava di lei, e l'aveva rimandata in lacrime da sua madre.

Mary l'aveva rimproverato a lungo, Giuseppe, quando sua moglie non guardava, gli aveva dato il cinque, e forse era uno dei pochi ricordi che gli restavano in cui era stato contento di avere suo padre al suo fianco.

Sarebbe stato con loro solo qualche giorno, prima di prendere il primo aereo per Parigi e togliersi dalle scatole: aveva sempre preferito la famiglia di suo padre, erano meno freddi e più affettuosi, ma non appiccicosi, il genere di persone che non ti fanno sentire di troppo in nessuna occasione, e aveva legato molto più con loro che con l'altro ramo della famiglia.

Sarà stato che, a quanto pareva, Damon aveva il carattere peculiare dei Salvatore da che la famiglia era al mondo, ma sapevano capirlo e prenderlo in modo migliore. Nella famiglia di sua madre era sempre stato guardato come se fosse stato da portare dallo psichiatra solo perché era un po' irruento e non aveva peli sulla lingua nemmeno da bambino.

Forse era stato un po' ingenuo, specialmente da adolescente – ragion per cui si era lasciato usare da Katherine come bambola gonfiabile –, ma almeno qualcosa ci aveva guadagnato, nonostante tutto ciò che aveva perso.

Non poteva farcela, davvero.

Nemmeno per Stefan, anche se l'avrebbe deluso una volta di più, anche se gli avrebbe fatto passare le peggiori vacanze della storia, non poteva davvero andarsene a Williamsburg: doveva solo comunicare la notizia ai suoi e sorbirsi qualche discorso sulla morale e chissà cosa.

Una tortura.

Preferiva diecimila volte passare quei pochi giorni che poteva con Elena piuttosto che con parenti che non sopportava, anzi, avrebbe preferito stare con lei piuttosto che fare qualunque altra cosa, e non si prese nemmeno il disturbo di fingersi infastidito per questa consapevolezza da femminuccia.

Aveva promesso a se stesso che non avrebbe più accettato di amare qualcuno, non al prezzo di perdere se stesso nel processo, ma Elena... lei lo faceva sentire così al sicuro. Si esponeva sempre per prima, e non importava quanto alto fosse il rischio di soffrire, quanto l'avesse già fatta soffrire in passato, lei tornava sempre a offrirgli tutto ciò di cui sentiva che avesse bisogno, a costo di bruciarsi, di restare ferita.

Era stato così anche lui, quando era stato con Katherine, avrebbe fatto qualunque cosa per lei, le avrebbe permesso di mettergli i piedi in faccia e non le avrebbe nemmeno chiesto di stare ferma. Con Elena era un altro tipo di rapporto, forse era per questo motivo che sentiva così tanto il dovere di proteggerla.

Amare come faceva Elena fa malissimo, quando finisce, ma forse era l'unica strada per farlo davvero. Se non rischi niente, non ti godi niente.

Perciò non voleva perdersi nemmeno un minuto di tutto quello. Non poteva andarsene.

Stefan l'avrebbe perdonato di sicuro. Lo faceva sempre, e magari avrebbe anche capito.

Adesso l'unico problema era come dirlo ai suoi genitori senza che si mettessero a rompere le scatole, perciò doveva farsi venire un'idea: la domanda era, doveva essere sincero o no riguardo al fatto che rimaneva per la ragazzina e non per qualche altro motivo?

E se non restava per lei, cosa mai avrebbe potuto trattenerlo di così urgente da tirare il bidone per le vacanze dai parenti? Sua madre ci sarebbe rimasta troppo male, e se c'era una cosa su cui poteva transigere era proprio Elena, che amava come una figlia.

Perciò, se restava per Elena, doveva farlo per una buona ragione.

E la buona ragione poteva essere che non era stata bene e che non se la sentiva di lasciarla in questo stato che loro non sapevano già passato da un pezzo.

Di certo di confessare sentimenti più profondi non se ne parlava, e alla sua età avrebbe anche dovuto essere libero di scegliere se andare in vacanza con i suoi o meno, ma era anche vero che erano dieci anni che non si faceva vedere né da loro né da altri familiari di sua madre, e adesso che era tornato capiva che lei ci tenesse.

In ogni caso, doveva tentare.

Fu per questa ragione che chiuse la valigia soltanto per riporla con ordine sotto il letto e un ritrovato buonumore. Dopodiché, deciso, si diresse verso camera dei suoi, tanto erano là di sicuro, quei due vecchiacci, anche se non erano nemmeno le nove e mezzo di sera.

Lanciò un'occhiata al telefono per assicurarsi che Elena non l'avesse cercato per dirgli che alla festa non ci andava più e che avrebbe preferito passare del tempo con lui. Lui non gliel'aveva chiesto, anche se ci aveva sperato, ma avrebbe tanto voluto che saltasse quella festa.

Non voleva suonare troppo appiccicoso, ed evidentemente nemmeno lei perché non c'era assolutamente nulla da parte sua.

Fece per bussare, ma sentì le voci dei suoi genitori e si bloccò.

«Non essere così tragico.» sua madre stava dicendo a suo padre, con quella sua tipica dolcezza di quando sta tentando di consolarti. «Sai bene quanto ti ama.»

Da parte di suo padre ci fu un sospiro veramente pesante. «Forse era vero una volta.» le disse, amareggiato. «Ma l'ho visto come mi guarda, Mar... ho di nuovo perso Damon. Forse non l'ho mai riavuto.»

Che pretendi, bastardo si ritrovò a pensare lui, con risentimento, una volta passata la sorpresa di averli beccati proprio mentre stavano parlando di lui. È quello che succede quando accusi quel figlio di essere un assassino senza prove, dopo che ha spergiurato di essere innocente.

Rimase lì, ad ascoltare quella conversazione, anche se sapeva che non avrebbe dovuto origliare, forse per curiosità, per togliersi qualche sassolino dalla scarpa a sentire come suo padre lasciava uscire i suoi sensi di colpa, o forse perché aveva bisogno di stare a sentire le cose che non gli aveva mai dato la possibilità di dirgli.

Ma per il perdono ci sarebbe ancora voluto del tempo.

«Non penso che esista un modo in cui tu possa perdere Damon.» disse, invece, sua madre, cosa che suscitò un silenzio che Damon non afferrò se era sorpreso o confortato.

Da parte sua era solo impietrito: si sbagliava. Giuseppe l'aveva perso dodici anni prima, qualche ora prima che lui facesse i bagagli e sparisse da quella casa senza avvisare nessuno.

«Mi odia.» fu un sussurro che quasi il ragazzo non sentì. «E non a torto.»

Almeno lo ammette.

Era facilissimo ammettere di aver sbagliato, dopo che la verità ti viene sbattuta in faccia, ma chiedergli di fidarsi delle sue parole era stato troppo. Lo stesso uomo che gli aveva insegnato a non mentire l'aveva accusato di essere un bugiardo, di essersi preso una vendetta che ancora non poteva sapere di desiderare.

«Non essere sciocco. Non ti odia.» era certo che sua madre avesse alzato gli occhi al cielo, dal tono esasperato con cui stava parlando. Ma da dove le arrivasse quella certezza, lui proprio non lo sapeva. Lui stesso era enormemente confuso e combattuto sui sentimenti contrastanti che provava per suo padre. «Certo, forse vorrebbe, ma sappiamo entrambi che non può. Nostro figlio copre i suoi dispiaceri con la rabbia, o quelle che crede le sue mancanze, dopotutto... è come te. Non avete un bel rapporto perché rimproverate all'altro le cose che non vi piacciono di voi stessi, e dato che sono le stesse...»

Lasciò la frase in sospeso senza finirla, ma dal rumore delle molle del letto, Damon capì che sua madre si era alzata, forse per raggiungere il marito.

«L'abbiamo deluso, Giu.» continuò, con voce rotta. «Eravamo giovani, e stupidi, tanto stupidi. E se fossimo adesso nelle condizioni di allora, faremmo le cose in modo molto diverso. Ma così non è stato, ed è colpa nostra. Dovremo conviverci per sempre, ma questo non significa che se abbiamo lasciato andare nostro figlio una volta non possiamo più riaverlo indietro.»

Curioso, Damon spinse un po' la porta, silenziosamente: trovò i suoi genitori su quella che li avrebbe portati al terrazzo, che cercavano conforto nell'abbraccio dell'altro. Il ragazzo poté giurare di non aver mai visto suo padre così distrutto, così stanco, vecchio.

Aveva sempre dato per scontato che se mai avesse deciso di tornare, avrebbe trovato lì la sua famiglia. Ovviamente, non ne aveva mai avuto il coraggio, perché mai avrebbe sopportato di nuovo di osservare il disprezzo e la delusione negli occhi di un genitore con cui era stato così tanto legato, ma aveva avuto sempre la certezza che sarebbe stato lì.

Non gli aveva mai attribuito la fragilità, non era una cosa che aveva mai potuto associare a suo padre.

Ma niente era per sempre.

«Ha solo scelto te per prendersela perché sei suo padre.» la voce di sua madre interruppe i suoi pensieri con quella che avrebbe dovuto suonare come una consolazione, ma non lo fu. «Ciò che pensava che tu fossi era ciò che lui voleva essere. Ma siamo umani, tesoro, sbagliamo più volte di quante ce ne piacerebbe, ed è più difficile per noi perché abbiamo qualcuno cui dare l'esempio. So che non è una giustificazione, ma non siamo perfetti.»

Giuseppe scosse leggermente la testa, come se non riuscisse a trovare pace. «È colpa mia se ha avuto una vita difficile.» si allontanò dalla moglie per passarsi una mano sul viso. «Ha ragione, l'ho abbandonato. È imperdonabile, imperfezioni o no, è mio figlio, dannazione. Specialmente io che so cosa significhi avere un rapporto difficile col proprio padre: dovevo essere lì per lui, e cos'ho fatto Mary? Ho permesso che se la sbrigasse da solo quando non aveva i mezzi per farlo.»

Non avrei saputo dirlo meglio, osservò Damon a se stesso, senza essere capace di provare empatia per lui: era giusto che marcisse nel senso di colpa finché avesse respirato. Bastardo, poteva pensarci prima.

Sua madre gli regalò un sorriso consolatorio. «Se non ti fidi di me per essere sicuro che ti ha perdonato, in fondo, allora credi al fatto che è qui, finalmente con noi, a casa.» gli fece una carezza sul braccio, incoraggiante. «Lo conosci, Giu. Non sarebbe tornato, come non è tornato in tutti questi anni.»

Damon non se l'era mai davvero chiesto perché aveva finalmente accettato la proposta di tornare a Mystic Falls, l'ultima volta che sua madre l'aveva pregato. Forse perché dopo l'ultimo viaggio che aveva fatto insieme a Enzo, prima della laurea, era tornato e si era sentito incredibilmente fuori posto dovunque.

C'era stato un momento in cui aveva realizzato che non si sentiva a casa in nessun posto, che non aveva un posto da chiamare tale, qualcuno che stesse ad aspettarlo come faceva Maggie col suo amico. O Jenna con Alaric, non aveva nessuno con cui condividere nulla e non l'aveva voluto, aveva avuto paura che quel qualcuno potesse esistere.

Poi era arrivata Elena, e lei sì che l'aveva definitivamente terrorizzato. Poi l'aveva raccolto dall'angolo in cui si era nascosto e l'aveva coccolato finché non si era tranquillizzato e aveva accettato la sua presenza che adesso, in qualche modo, era diventata fondamentale.

Adesso esisteva un posto in cui intendeva restare, in cui voleva restare senza essere costretto a sentirsi un outsider.

«Perché con te non è così arrabbiato?» le chiese, confuso e distrutto, Giuseppe. «Come hai fatto a ricostruirci un rapporto, come se non se ne fosse mai andato?»

Per conto del ragazzo, non c'era risposta più facile: lui sua madre non l'aveva mai odiata, lei aveva cercato di mantenere un contatto con lui, non se n'era praticamente fregata per dieci anni per poi andare a lamentarsi che le cose non erano come prima.

Grazie al cazzo.

Era anche vero che lui non aveva mai telefonato né chiesto di suo padre, ma che aveva sei anni che faceva lo stesso per ripicca?

E poi doveva pure perdonargliele tutte? In nome di cosa?

«Sapere come trattare un Salvatore è sempre stata la mia peculiarità.» commentò sua madre, in quello che voleva essere un tono forzatamente leggero, per tirare su di morale suo marito, che però rimase a terra. «E stiamo parlando di mio figlio, quindi sono doppiamente giustificata. L'ho messo al mondo, dopo nove mesi in cui è stato parte di me, questo vorrà pur dire qualcosa.»

Solo allora un debole sorriso deformò le labbra di Giuseppe. «Quindi visto che io non sono stato parte della gestazione, se non all'inizio, non ho speranze?»

Se Damon fosse stato meno incline a rifiutare ogni tipo di associazione a quell'uomo, avrebbe di sicuro notato che la piega di quel sorriso e quell'intonazione dalla spruzzata ironica erano le stesse che avrebbe usato lui nella stessa situazione.

Nemmeno lo sapeva perché era ancora lì, ad origliare una conversazione che lo riguardava, come un ladro, ma non riusciva a bussare e interromperli, o a voltare le spalle per tornare in camera sua.

Una parte di lui voleva sapere cosa sentivano i suoi genitori riguardo al fatto che era tornato a casa: sua madre era stata anche abbastanza esplicita, quando l'aveva visto nel salotto era scoppiata a piangere di gioia e non gli aveva staccato le braccia dal collo praticamente per le ventiquattrore successive, oltre a soffocarlo di domande.

Suo padre... lui era stato piuttosto criptico, come sempre.

Mary si permise di guardare suo marito con un'occhiata di avvertimento. «Damon è ferito.» non le piaceva che si facesse ironia su un argomento tanto importante. «Quello che gli hai detto quel giorno è stato troppo per lui. Aveva appena scoperto che una delle persone che amava l'aveva solo usato, e tutto quello di cui aveva bisogno era di sentirsi accettato senza clausole e postille, in modo completamente disinteressato.»

Lei aveva tentato di essere quella persona, per il suo bambino, ma non era stato sufficiente, serviva che ci fosse anche lui, quello che era sempre stato il suo mito. La delusione di essere stato messo da parte perfino da suo padre l'aveva spinto ad andarsene, e Mary lo sapeva che quando dalle labbra di suo marito era uscita una cosa come "sparisci dalla mia vista" non intendeva davvero che voleva che se ne andasse, ma Damon non poteva saperlo.

C'erano volute settimane prima di trovarlo, di capire che se n'era andato nella loro casa a New Orleans – perché aveva accuratamente evitato di dare una locazione precisa, nel suo biglietto, dato che aveva paura che sarebbero andati a prenderlo –, lei aveva quasi avuto una crisi isterica prima di saperlo al sicuro. Certo fosse successo in quel periodo, sarebbe andata a prenderlo per i capelli, ma era stata troppo giovane, Mary, per capire come gestire un figlio che sembrava così fragile, e lasciargli fare ciò che si era sentito di fare le era sembrata la scelta migliore per fargli ritrovare la serenità.

Sperava solo di non avergli rovinato la vita per sempre con quella scelta stupida.

«Non preoccuparti, non mi sento già abbastanza una merda per non avergli creduto.» commentò l'uomo, sulla buona strada per suonare risentito. «Infierisci pure, cara.»

«La ferita è molto profonda proprio perché guardava a te come un porto sicuro, qualcuno che gli avrebbe coperto le spalle sempre e comunque. Non ti sei fidato di lui, quando pensava che l'avresti solo consolato.» spiegò Mary, perché se da una parte voleva che padre e figlio riparassero lo strappo che c'era tra di loro, di certo non avrebbe lasciato tutta la colpa a Damon solo per far stare meglio lui. «Aveva quindici anni, tesoro. Forse oggi non ci darebbe lo stesso peso, se si trovasse in quella stessa situazione, ma era fragile e solo, e tutto ciò che dovevamo fare era stringerlo più forte.»

Mary si strinse le braccia intorno al corpo, per farsi calore, col brivido di freddo che l'aveva colta, come se avesse potuto abbracciare il bambino che era stato Damon.

«Invece l'abbiamo lasciato andare.» aggiunse Giuseppe, tristemente. «Io l'ho lasciato andare... se solo non gli avessi detto quelle cose...»

«Non possiamo cambiare quello che è stato.» tagliò corto sua moglie, perché il solo pensiero la faceva soffrire terribilmente. Aveva assistito alla scena e non era riuscita a trattenere le lacrime alla vista dello sguardo ferito e distrutto di suo figlio quando si era sentito rifiutato su tutti i fronti. «L'unica cosa che possiamo fare è esserci da adesso in poi, sempre. Non è solo, non lo è mai stato, e se vuoi che si fidi di te, devi dimostrargli che ti fidi di lui, che lo ami nonostante tutto, perché sono sicura: lui ti ama nonostante ciò che è successo ed è forse proprio questo che gli impedisce di essere normale, con te. Perché odia il fatto che non ti odia.»

E di questo era sicura perché il suo Damon era incapace di odiare qualcuno. Poteva pensarsi in grado di farlo, magari, ma l'unica cosa che faceva era odiare quelle parti di se stesso che erano troppo deboli per fare quello che, secondo lui, andava fatto.

Il fatto che bevesse come una spugna era una sorta di espressione di quel disagio, e la preoccupava come madre e come infermiera. Era anche vero che anche a suo marito bere piaceva, certo non quanto piaceva a Damon.

Damon che non sapeva più cosa pensare, che ascoltava passivamente quella discussione senza riuscire a capire che cosa stesse facendo sua madre, perché da una parte stava rimproverando Giuseppe, dall'altra gli offriva supporto.

Perciò condivideva o meno le sue scelte? Che cavolo stava facendo?

Si nascose dietro lo stipite per sfuggire a uno sguardo di sua madre che adesso aggirò Giuseppe per abbracciarlo. «Non possiamo odiare davvero i nostri genitori, tu lo sai meglio di chiunque altro.» gli disse, sentitamente.

L'uomo sospirò sonoramente. «Quindi cosa devo fare con lui?»

Non sapeva più che pesci prendere, certo parlare con sua moglie lo faceva sentire meno solo, meno disperato, ma lei non gli risparmiava mai nulla, eppure riusciva ad essere sempre di conforto, in qualche modo, ad arrivare alla radice del problema e ad aiutarlo ad estirparlo.

Sperò che valesse anche per quello.

«Dargli tempo.» gli suggerì lei, dolcemente. «Usalo anche tu, per riflettere. Forse devi risolvere le cose con tuo padre, per capire come fare con tuo figlio.»

Giuseppe e suo padre Antonio non si parlavano quasi da quando si erano trasferiti là, avevano avuto una lunga discussione sul futuro ed erano stati di diverse vedute per tutta la vita. Il punto di rottura era arrivato con la morte dello zio Zach, e da allora si erano entrambi rifiutati di trovare un accordo.

Uomini Salvatore: fatti con lo stampino.

Mary si permise di sorridere a quella consapevolezza, anche se si domandava cosa mai sarebbe potuto succedere a un possibile nipote, figlio di suo figlio Damon, se non fossero condannati ad avere almeno una relazione complicata per generazione.

Con Damon, poi. Oh, mamma...

«Non so cosa farei, se non avessi te.» ammise Giuseppe, spostandole i capelli per poterle accarezzare il viso. Le lasciò un bacio dolce sulle labbra, e dopo rimasero abbracciati a confortarsi a vicenda.

«Saresti un disastro, ovviamente.» fu il commento divertito della donna, che da una parte ne era sicura e dall'altra sapeva anche che avrebbe dato qualunque cosa sia per Damon che per Stefan, ma non desiderava scoprire fino a che punto. Se c'era una cosa che sapeva era che quella famiglia era ancora in piedi perché lei aveva combattuto perché lo fosse: non si può lasciare una cosa così delicata in mano a un uomo come Giuseppe. «Ma avresti i nostri figli. Non dimenticare che anche se complicata e un po' zoppicante, siamo comunque una famiglia. E lo saremo qualunque cosa succeda.»

Damon decise di non interrompere quel momento tra i suoi genitori nemmeno adesso che avevano finito di parlare, e non solo per dare loro la giusta intimità – ragion per cui si dileguò e anche alla svelta prima di avere un'immagine abbastanza visiva di com'era stato concepito –, ma anche perché era rimasto profondamente turbato dalla piega che aveva preso quella situazione.

Quella discussione l'aveva svuotato, e non solo per l'argomento. C'era un modo che avevano di interagire, quei due, che l'aveva lasciato spiazzato, confuso.

Si erano capiti, anche se non necessariamente a parole. Sua madre non aveva risparmiato nulla a suo padre per ciò che aveva fatto, gli aveva detto le cose come stavano, ma non avevano mai alzato la voce, non avevano litigato, e allo stesso tempo era riuscita a consolarlo, a rendersi partecipe del suo dolore, ad essere la spalla su cui poteva metaforicamente piangere.

Si erano ascoltati e compresi, nonostante la evidente differenza di vedute. Era una cosa... assurda.

Era come se già avessero saputo tutto prima di parlarsi, come se non ci fosse stato alcun bisogno di farlo, come se l'Universo fosse già stato a posto, e sembrava davvero che lo fosse per quei due, anche se le contraddizioni erano là. Sua madre era rimasta al fianco di suo padre anche dopo ciò che aveva commesso, non lo condivideva, ma aveva compreso e accettato, era rimasta perché lui ne aveva bisogno, perché non l'avrebbe mai abbandonato.

Damon non riusciva a capire come ciò fosse possibile.

Era forse questo il matrimonio? L'amore? Quel "nella buona e nella cattiva sorte"? Perché si sentiva sempre come se fosse fuori da tutto, come se fosse sempre, in qualche modo escluso? Perché non c'era mai stato nessuno che facesse lo stesso per lui?

Lui non aveva nessuno.

"Ehi, guarda che non me ne vado."

"Sono qui."

"Ti amo."

Nessuno tranne lei.

Lei che era sempre rimasta, nonostante tutto, lei che non gli aveva mai dato occasione di dubitare del suo affetto o della sua lealtà, lei che aveva davvero fatto di tutto perché tutto ciò che c'era tra loro – quella carica esplosiva, quell'intesa, quel tutto – potesse funzionare nel modo giusto, perché ci fosse, esistesse.

Aveva bisogno di vederla, subito.

Scese al piano di sotto, con l'aria sconvolta di chi non sa dove sbattere la testa, di chi si sente come se avesse perso la bussola. Era strano, per lui, sentirsi così. In tanti anni si era sempre sentito fuori posto, perfino con se stesso, coi coetanei, coi colleghi, a volte anche con gli amici, ma non mai come se fosse stato escluso da tutto.

Si rese conto che stava davvero bene solo con Elena, solo con lei non gli sembrava come se gli fosse magicamente apparso il terzo occhio.

Per quanto a volte non riuscisse a capire come doveva comportarsi, nei suoi confronti, cosa esattamente si aspettasse da lui, stare al suo fianco era più facile che respirare, l'unica cosa che gli aveva chiesto era di non nascondersi dietro le maschere che aveva scelto di usare con gli altri e di cui non riusciva mai davvero a liberarsi, perché erano la sua ultima difesa, di mostrare se stesso, che andava bene così com'era, anche rotto e pieno di spaccature.

Damon aveva superato l'incidente di Katherine da tempo, ma da quando lei era morta era stato tradito così tante volte che gli era rimasto quel terrore insito nelle ossa, era più forte di lui, non lasciava che nessuno gli si avvicinasse perché sapeva che l'avrebbero ferito. E non perché ne avevano motivo, ma semplicemente perché ne avevano la possibilità, solo perché c'era un'apertura che lo permetteva, non c'era bisogno di una ragione più profonda di quella, per alcune persone.

Ne aveva conosciuti di opportunisti, non hanno bisogno di motivazioni, se vogliono tradirti, semplicemente lo fanno perché non sei più utile ai loro scopi.

Elena, al contrario, non era così. Era forse la persona più genuina e altruista che conoscesse. C'era chi diceva che anche l'altruismo non fosse altro che una forma di egoismo – come l'amore, d'altronde –, ma lui non ci aveva davvero mai creduto, e dopo averla conosciuta ne era sempre più sicuro: non si poteva associare un simile aggettivo a qualcuno che fosse come quella ragazza.

Chissà cosa mai aveva fatto per meritarsela.

«Che ti prende?» gli chiese Stefan, quando lo vide piombare in cucina con quell'aria strana e le chiavi dell'auto in mano, giacca addosso, pronto per partire.

Avevano finito di cenare da relativamente poco, e Damon non era uno che usciva di sera, specialmente se Alaric era impegnato con la sua fidanzata – e certamente lo era, la sera della Vigilia – ed Elena era indaffarata con altro, come in quell'occasione: sia lei che Caroline erano dai Mikaelson. Senza contare che doveva ancora farsi la valigia, per quel che ne sapeva lui.

«Dove vai?» aggiunse, quindi, quando non gli arrivò nessuna risposta, niente del tipo "Fatti i cazzi tuoi, piccoletto" o qualcosa del genere.

«Devo vedere Elena.» spiegò, telegrafico. Non intendeva aggiungere dettagli, anche perché non li aveva realizzati lui stesso, aveva solo quella schiacciante necessità di vederla, perché riusciva a tranquillizzarlo solo guardandolo, inspiegabilmente.

"Non sono abituato a questo."

Aveva usato una scusa del cazzo. Si sentiva a disagio, spesso, quando sapeva che le persone gli erano affezionate, perché tante volte, lui non era in grado di ricambiare. Damon voleva bene solo a persone altamente selezionate, e voleva saperle al sicuro e magari felici. Il resto del mondo poteva anche fottersi, e questo magari non lo rendeva la persona migliore del mondo, ma era fatto così.

Stefan buttò giù in un sorso l'acqua per cui era sceso. «Sei in pensiero perché non è stata bene?» volle sapere, perciò, stranito da una simile confessione. Sapeva che Damon avrebbe ammesso di tutto meno che gli mancasse qualcosa o qualcuno. «Ho sentito Care, prima, ha detto che uscivano. Sicuro che sia tutto a posto?»

Il più grande, per un momento, si limitò solo ad abbottonarsi il cappotto. «Dovessi anche fermarla per la strada, devo vederla.» mormorò, più a se stesso che come risposta. «E sì, tutto alla grande.»

Non era solo perché lo capiva meglio di chiunque altro, perché lo aiutava a sbrogliare quella matassa di pensieri da cui non riusciva a venire a capo – ammesso che, alla fine, si fosse sentito di confessarglieli o sarebbe rimasto per sempre col dubbio –, ma soprattutto perché le doveva una risposta.

Doveva averla ferita la sua incapacità di rispondere a una confessione così semplice come quella che gli aveva fatto quel pomeriggio. Più stava con Elena più era stato costretto a pensarci: cosa cavolo era l'amore? Lui aveva creduto di essersi innamorato perdutamente di Katherine, quand'era stato un ragazzino sciocco, avrebbe fatto qualunque cosa per lei, e così anche per Elena, ma erano due cose così diverse, o forse era solo lui che la viveva in modo diverso.

Eppure per Katherine non era stato che un cagnolino scodinzolante, il ragazzo delle consegne, o qualcosa anche di meno. Per Elena intendeva essere molto di più, era molto di più.

Per l'una aveva provato cieca ammirazione e ossessione... per l'altra, invece... il mondo. Non avrebbe saputo come riassumerlo, e non lo sapeva nemmeno quando, mormorando un saluto al fratello, uscì per affrontare il freddo di Dicembre e infilarsi in auto, sapeva solo che doveva vederla.

Quel che era certo era che non aveva mai detto "Ti amo" a qualcuno, nella sua vita, ma forse, era stato perché non era mai stato davvero innamorato, ma se lo era della ragazzina, veramente, di quel tipo strano e complesso, nello stesso modo dei suoi genitori, e c'era solo un modo per saperlo.

La strada nemmeno la vide, quasi, a un certo punto era di fronte a casa sua, le luci ancora accese gli diedero la speranza che non fossero ancora partiti per quella stupida festa.

Ma perché cavolo non l'aveva chiamata per chiederle di non andarci e, invece, vedersi? Perché mai doveva sentirsi già come se gli mancasse quando non era nemmeno partito?

Era questo che voleva evitare la prima volta che l'aveva cacciata via, quando l'aveva allontanata perché non potesse ferirlo. La cosa folle era che lei non l'aveva fatto mai, era anzi stato lui a farlo con la scusa che lo faceva per proteggere se stesso.

Suonò al campanello, domandandosi come mai ci fosse tutta quella agitazione in fondo al suo stomaco, come se stesse per incontrare il Presidente.

E invece era solo il nonno.

«Damon?» chiese, stranito. «Che ci fai qui?»

Sensibilmente deluso dal non aver avuto subito la ragazzina – si era addirittura immaginato di baciarla appena l'avesse fatto, quanto diamine poteva essere patetico? –, Damon si schiarì la voce. «Cercavo Elena.»

Come se non fosse stato ovvio.

Cos'è che fai alla porta della tua ragazza? Stavi andando a fare funghi e casualmente passavi dalla sua porta, ovvio.

Il nonno si fece da parte per farlo entrare, e una volta messo piede in casa, Damon si rese conto che era solo.

Dannato vecchio.

«Sono già andati tutti alla festa.» ammise lui, con una piccola alzata di spalle. «Ma non è il mio ambiente. Farei di tutto per evitarmi la signora Lockwood e famiglia. Per fortuna mio figlio ha potuto farmi almeno questo favore.»

Il ragazzo sospirò. «Sì, immagino il perché.» commentò, e non poté fare a meno di chiedersi come avesse fatto Elena a far risolvere loro le cose, perché anche quei due non si parlavano da decenni.

Poi era bastato un incoraggiamento della ragazzina ed era tornato tutto a posto. Tutto quello che toccava diventava oro, forse avrebbe dovuto davvero confidarsi con lei...

«Già che siamo solo io e te...» Johnathan gli fece cenno di sedersi, lì, accanto a lui sul divano, di fronte a una TV accesa ma muta. «...vorrei che facessimo due chiacchiere serie.»

Aveva la "faccia da Grayson" quando stava per fargli la paternale su qualcosa o intendeva fargliela, ma non diceva nulla per non indispettire Elena: c'erano casi in cui i geni non mentivano mai, e questo era uno di quelli.

Si rese conto che, in un momento del genere, non avrebbe fatto bene a nessuno – veramente a nessuno – ascoltare ciò che aveva da dirgli, perché era troppo scosso e nervoso, e non aveva bisogno di qualcuno che gli dicesse ancora che lui era quello sbagliato per la ragazzina, voleva solo vedere lei, aveva bisogno di vedere lei.

E invece era incastrato col vecchio.

«Ho saputo da Miranda che tu ed Elena vi vedete da poco.» continuò il nonno, senza dargli il tempo necessario per negarsi. «E mi chiedevo se qualcuno aveva avuto il tempo di... informarsi dei piani che avete per il futuro.»

Rassegnato, Damon si abbandonò contro lo schienale del divano: anche questo ora voleva parlare di marmocchi?

«Di che genere?» gli chiese, tanto per prolungare l'agonia, ma aveva gli occhi al soffitto e quella che doveva essere sopportazione ben stampata in faccia, mentre si ripeteva che doveva stare calmo, che indispettire il nonno di Elena era una delle peggiori mosse che potesse fare, dopo che lei aveva brigato tanto per farlo stare da loro perché facesse pace con Grayson.

A pensarci bene, tutti gli stramaledetti abitanti di quella ancora più stramaledetta cittadina, a parte Stefan, avevano una relazione complicata col padre.

«Del genere che mia nuora è rimasta incinta a diciassette anni.» fece l'uomo, con le labbra arricciate al solo ricordo della vergogna che aveva scatenato per tutta la città per mesi, anche se alla fine si erano innamorati tutti di Katherine nel giro di dieci minuti. «E che non voglio che succeda anche a mia nipote.»

Quello che lui non sapeva, era che anche Damon era del tutto propenso a fare in modo che non succedesse. «Signor Gilbert, le giuro su mia madre che non intendo mettere Elena in questa situazione.» e questo sì che doveva suonare convincente.

«Quindi, siete protetti.» commentò il nonno, con un cenno di approvazione serissimo.

Damon gelò un momento. «Mi scusi?» domandò, tanto per essere sicuro di non aver travisato le sue parole.

Il nonno non sembrò prenderla bene, perché lo guardò male. «Non far finta di non aver capito, ragazzo!» lo rimproverò, anche. «So come funzionano le cose tra voi giovani d'oggi: non si aspetta più il matrimonio. Non sono nato ieri.»

Ovviamente no.

«Già, direi di no.» commentò lui, allora, senza sapere bene cosa dire: non era abituato a simili discorsi, sarà stato che non aveva dovuto affrontarli nemmeno con suo padre, che forse pensava fosse stato troppo presto, quando ancora era a casa. «Comunque, è tutto sotto controllo, non mi... preoccuperei, al suo posto.»

Insomma, non erano esattamente degli sprovveduti, e per quanto Elena non avesse mai nascosto il suo desiderio di avere una famiglia, un giorno, di certo non la voleva alla sua attuale età, perciò era un discorso completamente a vuoto.

«Un genitore si preoccupa sempre.» fu ciò che disse l'altro, con una nota abbastanza palpabile di nostalgia. «Probabilmente lo capirai quando lo sarai anche tu.»

«Immagino di sì.» tagliò corto il ragazzo che proprio non intendeva nemmeno pensarci.

Come diamine si fa ad essere padre se non ne hai avuto uno? Non avrebbe mai voluto rischiare di deludere qualcuno come aveva fatto il suo, e poi che razza di esempio avrebbe potuto essere?

Aveva sempre ritenuto che ci sono tipi di persone che non dovrebbero riprodursi: lui era uno di quelle, tanto per i geni Salvatore c'era Stefan, lui sì che avrebbe sfornato tanti bambini felici insieme alla Barbie.

Era un disastro annunciato, lui poteva tranquillamente fare lo zio figo.

«Sei un bravo ragazzo Damon, se ci fosse più tempo, vorrei conoscerti meglio.» gli confessò il nonno, con un sorriso. «Purtroppo devo tornare a casa.»

Casa? Ma quale casa?

Pfft.

Si trattenne dal ridere soltanto perché era anziano e perché non si meritava la sua ironia: in fondo era stato l'unico a non sparare a zero sulla sua relazione con Elena. Addirittura, gli aveva detto che era un bravo ragazzo, impressione che non aveva mai fatto a nessuno prima.

Poteva fargli la cortesia di essere gentile.

«Si ritrasferisca e basta.» gli suggerì, come se non ci fosse altra alternativa. «Voglio dire... non sono certo un esperto, ma cos'ha a Denver? Una ex moglie che si è rifatta una vita con uno stoccafisso?»

Okay, forse questo non avrebbe dovuto dirlo. Anche se dal modo in cui il vecchio corrugò la fronte non sembrava completamente in disaccordo, e come biasimarlo? Quel Richard Baliqualcosa era veramente uno stoccafisso, per non parlare di quell'ameba di Jesse, che era stato solo in grado di sedurre e abbandonare quella povera slavata dell'amica o qualcosa di Elena.

Insomma aveva sentito dire da lei, che ne parlava con la Barbie che quella aveva passato dei giorni a piangere.

«Qui ha dei figli, dei nipoti, una famiglia.» continuò Damon, in incoraggiamento. «Cosa la tiene laggiù? Sono passati vent'anni, chi sta aspettando?»

Era una domanda retorica, e infatti non ottenne alcuna risposta, forse solo una riflessione da parte dell'uomo che pareva proprio perso nei suoi pensieri. Pensieri che Damon non intendeva interrompere, quindi si alzò dal divano con tutta l'intenzione di andarsene.

«Pensi che mi rivorrebbero qui?» gli chiese, quando lo vide in piedi, dubbioso.

Fu lì che Damon realizzò che, in fondo, gli esseri umani sono tutti uguali: era possibile – sicuro – che quel tizio non fosse mai tornato a Mystic Falls perché ne aveva vergogna. Stando a ciò che diceva Elena, aveva seguito la moglie per farle cambiare idea, ed era convinto che nel giro di al massimo qualche anno ci sarebbe riuscito, ma com'era andata era tristemente evidente.

Era possibile – sicuro – che quel pazzo fosse rimasto a Denver – a centinaia di chilometri da lì – perché aveva paura di affrontare i figli che aveva lasciato.

Ma guarda un po'.

La risposta era già nella domanda, in fondo: Damon già lo sapeva perché, nonostante tutti i problemi che aveva con suo padre, nonostante avrebbe ancora giurato di odiarlo, sapeva che, in fondo, perfino lo stesso uomo che gli aveva chiesto di sparire dalla sua vista era felice che fosse a casa.

Diavolo, perfino lui era felice di esserci.

«Penso che si abbia sempre bisogno dei genitori.» fu la sua amara constatazione che sperò non oltrepassasse quelle mura: chi glielo diceva a Giuseppe che gli mancava? Ma nemmeno nei suoi incubi peggiori! Non era nemmeno tanto sicuro che fosse vero... forse era solo pena per un vecchio che non era riuscito a combinare nulla nella sua vita, né a tenersi la moglie né a rimanere accanto ai figli.

Johnathan sorrise, incoraggiato.

«Sai...» gli disse, alzandosi anche lui, capendo finalmente che Damon non vedeva l'ora di svignarsela. «...se stessi per andare a vedere la mia ragazza e fosse uscita su un paio di trampoli, probabilmente andrei di sopra a prenderle una paio di scarpe più comode e la accompagnerei a fare una passeggiata al chiaro di luna.»

Damon rise. «Con questo freddo?» gli chiese, scettico. «Elena piuttosto mi ammazza.»

Dallo sguardo che gli rivolse il nonno, capì che non ci credeva davvero nessuno dei due.

Entrare alla festa dei Mikaelson era sempre una sorta di esperienza extrasensoriale: passare dal freddo, dal buio e dal silenzio a un posto caldo, pieno di luci e musica, pieno di gente vestita nei modi più strani – così aveva detto Caroline, con faccia disgustata, quando le aveva confidato che si ritenevano eleganti, lei aveva addirittura fatto fatica a notarli – è traumatico, tanto che quasi ti senti soffocare, e l'unica cosa che vorresti è tornartene fuori, ma come puoi, quando la tua migliore amica ti tira per un braccio fino al tavolo delle bevute?

«Non ti azzardare a lasciarmi sola!» la avvisò, prima di prendere un sorso del suo drink, offerto da un cameriere che le aveva anche rivolto un'occhiata interessata.

Non che Caroline fosse riuscita a notarlo, figurarsi a preoccuparsene. Si limitò a lisciarsi le inesistenti pieghe sul suo bellissimo vestito blu, che le fasciava la figura in modo da risaltarne tutti i punti giusti.

Elena sapeva perfettamente per quale scopo era stato scelto quell'abito: quando era arrivata a casa le aveva confessato che aveva paura che ci fosse anche quella Camille – aveva usato appellativi non proprio gentili per riferirsi a lei –, e allora aveva scelto il migliore.

«Me l'hanno approvato due uomini!» le aveva fatto notare, come se quello avesse potuto definitivamente provare che era la scelta giusta.

Peccato che quei due uomini non l'avrebbero contraddetta in nessun caso, comunque le stava veramente bene. Ma c'era qualcosa di cui si potesse dire l'opposto?

Elena, al contrario, si riteneva un tantino eccessiva: aveva un vestito marrone scuro, pieno di ricami sulla gonna, senza spalline, che la stringeva sul busto nemmeno avesse dovuto smettere di respirare, sopra, aveva una pelliccia dello stesso colore, che la teneva al caldo, ma che aveva dovuto cedere all'ingresso.

In più, un paio di guanti lunghi fino al gomito che la facevano tanto una signora d'alta società di altri tempi.

«Sei bellissima.» fu il tranquillizzante commento di Caroline, che pareva averle letto nel pensiero. «Smettila di preoccuparti. Faremo un sacco di foto per far vedere a tutti quanto siamo belle e far pentire i due fratelli Salvatore di non averci accompagnato stasera.»

«Domani partono presto, cosa volevi che facessero?» le chiese Elena, senza però poter nascondere di aver avuto lo stesso desiderio nel suo sguardo un po' triste.

Era anzi strano che la sua amica avesse fatto cenno a Stefan in casa di Klaus. Le cose dovevano essere parecchio complicate per lei: chissà come era sempre coinvolta in strani triangoli.

Caroline si limitò ad alzare gli occhi al cielo, senza aggiungere una parola, ed Elena comprese che probabilmente stava trattenendo un qualche commento dei suoi, del genere: «Tu sei davvero un'ingenua.» o qualcosa di addirittura meno lusinghiero.

Poi la prese per un gomito, senza darle il tempo di prendere fiato. «Ho appena visto il fotografo!» le comunicò, quando già stavano andando a destinazione. «Sbrighiamoci, non voglio che Rebekah mi rubi la ribalta!»

«Sei Miss Mystic Falls...» le ricordò Elena, aggiustandosi il vestito prima che le scoprisse qualcosa di troppo che finisse anche nella foto. Sarebbe stato da lei. «Chi diamine potrebbe soffiarti la scena?»

Fu una domanda che cadde nel vuoto, perché lei era già pronta a dispensare sorrisi e la propria immagine a tutti, e fu oggetto di una ventina di foto con persone con cui aveva parlato a fatica una volta.

Elena pensò che fosse il momento di dileguarsi, subito dopo che fu costretta ad essere immortalata con lei, soffocata da tutta quella bolgia di persone pressate intorno al fotografo che non sapeva più a chi dare retta.

Una volta fuori dalla calca, infilò una mano nella pochette, per tirare fuori il telefono, ma non c'era nessun messaggio da parte di Damon, niente che le facesse capire che fosse andato a dormire o che stesse morendo quanto lei dalla voglia di vedersi.

Era un mistero come avrebbe fatto a sopportare la lontananza fino a metà Gennaio.

Tentò di resistere alla tentazione di mandargli un messaggio per sapere che stava facendo, perché magari era a letto oppure stava per andarci, e non voleva disturbarlo solo per augurargli buonanotte, che poi non era altro che una scusa per sentirlo.

Sono nei guai, pensò, ma non poté fare a meno di sorridere, mentre guardava la sua foto di Whatsapp: loro due in una posa con le facce sceme. Aveva dovuto pregarlo per fare quella foto, lui che aveva spergiurato non si sarebbe mai fatto un selfie, specialmente non uno idiota.

E adesso ce l'aveva come foto profilo su Whatsapp...

Che carino!

Non resistette oltre e gli inviò un bacino, sperando che la scusasse, se per caso l'avesse disturbato e che ne capisse il motivo, dopodiché appoggiò il suo cellulare sul tavolo che si era faticosamente guadagnata.

Si era trovata, infatti, nel mentre, un angolo vuoto in cui rifugiarsi, a sedere, perché di ballare proprio non se ne parlava, non senza cavaliere e, sopratutto, non su quei tacchi. Aveva già dato qualche giorno prima al concorso e, senza Damon, non intendeva replicare.

Era l'unico che non si sarebbe scomposto se per caso fosse inciampata nel proprio vestito, e dal momento che era così lungo c'era una grossa probabilità che succedesse.

No, meglio restare lì, anche se si annoiava a morte senza nessuno con cui chiacchierare. Così scelse di guardarsi in giro, se non altro per tenersi impegnata, ad una cert'ora programmava di svignarsela, quando sua madre non avrebbe potuto dirle di no, anche se il giorno dopo non c'era scuola e non esisteva il bisogno di andare a dormire presto.

I suoi erano là, dall'altra parte della sala a ballare il loro lento, nonna Jocelyn era sparita da qualche parte, Elena non riusciva a scorgerla nemmeno nei pressi di Ric e Jenna, che da quando avevano realizzato che si sposavano per davvero, erano diventati due piccioncini coi fiocchi, tenerissimi. Si ritrovò a sorridere senza rendersene conto, specialmente dopo, quando Caroline comparve nel suo campo visivo tra le braccia di Klaus.

Da una parte era dispiaciuta per Stefan, il quale aveva sicuro delle speranze a riguardo, ma Elena dubitava che, se l'interesse della sua amica per Klaus fosse stato lo stesso che lei aveva per Damon, ci fosse davvero qualcosa da decidere. Lei era solo più brava a soffrire: fosse stata lei al suo posto, con il ragazzo dei suoi sogni a pochi passi sapendo che probabilmente lo stai condividendo da tempo con un'altra l'avrebbe fatta impazzire.

Già il solo pensiero di essere tra le braccia di Damon per un ballo con la consapevolezza che non era suo, le aveva fatto torcere le budella.

No, non si poteva proprio fare.

Ballare come loro, poi, che si guardavano dritti negli occhi, con quella che Elena immaginò fosse sfida, di quel genere che ti anima da dentro, quando ti rendi conto che il livello della tensione sessuale è altissimo come tra quei due... come cavolo era possibile?

Se lo ricordava bene, com'era stato, alle prime prove di Miss Mystic Falls: era stato un tumulto nello stomaco, un buco nel petto, la consapevolezza che ti manca qualcosa, come facesse Caroline a sopportare tutto quello con quel suo meraviglioso sorriso era un mistero.

Forse era merito di Stefan?

Ne dubitava... Caroline era ancora parecchio confusa su quale dei due lei volesse davvero, e le pareva proprio che la bilancia pendesse per Klaus, se non altro perché era coinvolgente. Elena sapeva cosa significava, Stefan era un ragazzo molto tranquillo, terribilmente lontano dal potersi finire passionale.

Non che non lo fosse, ma dentro, solo chi lo conosceva fino al punto da sapere, senza leggere, l'ardore con cui scriveva il suo diario poteva capire. Caroline non capiva neanche l'esigenza di averne uno, figurarsi come poteva immaginare cosa ci fosse dentro.

Li perse di vista nella folla, domandandosi se starsene là fosse davvero stata una buona idea. Controllò l'ora e si rese conto che erano le dieci e trenta: non c'era davvero più speranza che il suo principe azzurro si manifestasse per salvarla.

Ma questo non significava che smettesse di sperarci.

Rimase là per chissà quanti altri minuti, la musica si spense e ricominciò forse altre due volte, ma era troppo impegnata a scorgere tutte le persone che conosceva – perfino Matt e Rebekah che ballavano insieme –, ancora in attesa di notizie che non arrivavano mai, e che cominciava a dubitare sarebbero mai arrivate, per accorgersene.

Sbuffò, appoggiandosi al tavolino con un gomito, mentre guardava il riflesso di quella sala gremita di persone sullo schermo scuro del suo cellulare che non voleva decidersi a vibrare per farle sapere che Damon era ancora sveglio e aveva visto il suo bacino.

«Ehi.» la richiamò Caroline, leggermente arrossata per via del caldo – sembrava impossibile, eppure a Dicembre a casa dei Mikaelson era possibile morire di caldo o forse era stato solo il ballo con Klaus, ed Elena sperava seriamente che fosse stato solo quello, per il suo bene, e che non avessero fatto dell'altro – che faceva in quella casa, e scommetteva anche un po' per il piacere di essere al centro dell'attenzione di tutti. «Perché sei qui a fare compagnia all'arredo? Buttati in pista, dai!»

Lei si strinse nelle spalle. «Non ho voglia di ballare.» non poteva spiegarle che non le andava, quando mancava il suo cavaliere, l'unico con cui si sarebbe fatta mettere in imbarazzo di fronte a una città intera. Solo Damon poteva accettare di farsi pestare i piedi perché dimenticava i passi, troppo distratta dalla bellezza dei suoi occhi.

Dio, era così stupida.

Il sospiro frustrato della sua migliore amica fu accompagnato dai suoi, di occhi, che si alzavano al soffitto. «Come sei noiosa: non fai più niente senza lo Stronzo.» osservò, prendendo una sedia per sedersi davanti a lei, con l'atteggiamento di chi ti deve psicanalizzare. «Perché non balli? Ci divertiamo! Tuo fratello non si è chiuso nel convento di clausura perché Bonnie è in vacanza da sua madre!»

Elena si ritrovò a ridere. «Guarda che se avessi voglia, andrei.» e per questo si guadagnò un'occhiata scettica: sapevano entrambe che era proprio l'assenza del suo ragazzo, il problema. «Non mi va...»

Le andava di vedere lo Stronzo. Per fortuna c'era Caroline che aveva sempre una buona parola per tutti.

Accarezzò distrattamente lo schermo del suo smartphone, quasi che lui fosse stato un modo per far arrivare quel gesto a un ragazzo che immaginava già sotto coperta a farsi una bella dormita. Con quel ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte e che lo faceva sembrare tanto dolce.

Non avrebbe mai potuto nemmeno prestare attenzione a un altro, neanche per ballare, quando si ricordava ogni sfumatura di quel viso che aveva osservato dormire per buona parte del pomeriggio.

Voleva vederlo. Voleva vederlo così tanto.

«Sei strana, oggi.» osservò la bionda, inclinando la testa da un lato, come a voler cogliere la ragione da un'altra angolazione. «Mi dai buca per stare con lui e non mi racconti niente. Non ci vuole un genio per capire cosa sia successo, ma...»

Elena non aveva detto niente di proposito, semplicemente non c'era stata occasione – durante le preparazioni c'erano stati sia Jeremy che sua madre, in giro, e la prima aveva messo in chiaro che non voleva saperne nulla e piuttosto che mettersi a parlare delle prestazioni sessuali di Damon di fronte a Jeremy si sarebbe fatta impalare –, e poi voleva ancora tenere per sé quella cosa ancora nuova, quella sensazione che le riempiva lo stomaco e il petto, e sorrise, al ricordo di come l'aveva riempita continuamente di baci, perché nemmeno lui poteva starle lontano.

Rivolse a Caroline il sorriso più dolce del mondo. «È stato bellissimo.» sospirò, sognante.

Ma la sua amica non ebbe mai occasione di sommergerla di domande, perché l'attenzione di Elena fu calamitata dalla vibrazione del cellulare sotto le sue dita, e il messaggio era di Damon.

Le saltò il cuore in gola per la gioia e per l'emozione. Era lui, era lui, era lui.

Recitava: 'Esci. Ho una sorpresa per te.'

«Care, devi scusarmi.» la pregò, il sorriso che le aveva acceso anche gli occhi fino a quel momento solo pieni di noia. «Lo dici tu ai miei che sono con Damon?»

Lei portò di nuovo i suoi al cielo, ma stavolta era più divertita che seccata. «Consideralo fatto.» assicurò, ma era troppo maliziosa perché fosse finita lì, infatti aggiunse: «Ma domani dovrai rispondere a molte domande.»

Elena rise, ma si precipitò a prendere il suo pellicciotto senza rispondere niente, anche perché nessuna delle due aveva idea se il giorno di Natale Miss Mystic Falls sarebbe stata con le mani in mano, e poi ancora non sapeva bene cosa dire, era troppo emozionata.

Era stata con Damon, ma non le sembrava che ci fosse niente da aggiungere, non con un'altra persona: era proprio un'emozione che non riusciva a spiegare e che le scatenava il sorriso al punto da farle dolere le guance, e proprio con quello si precipitò fuori, ma non dalla porta principale, perché non intendeva dare nell'occhio e perdere tempo coi saluti agli ospiti, uscì da un finestrone e si ritrovò in una specie di veranda.

Dava sul giardino tramite una balaustra, da cui lei si sporse per vedere se per caso Damon era lì, anche se non aveva esplicitamente detto che si era presentato. Ma quale altra sorpresa avrebbe potuto avere per lei? Era buio – e faceva pure freddo, nonostante la sua pelliccia –, e non si vedeva assolutamente niente che non fosse nel raggio della luce dei piccoli lampioncini, ma se anche si sporgeva di più verso l'ingresso, non c'era assolutamente niente che somigliasse a un essere umano.

Perplessa, Elena aggrottò la fronte e tirò fuori il cellulare dalla borsetta.

'Era una presa in giro? Guarda che sono fuori per davvero e sto morendo di freddo.' gli scrisse, lentamente per quanto le permettevano le mani ghiacciate: uscire in cortile di corsa dopo essere stati per quasi due ore nella sauna non era esattamente una grande idea.

'Dove cavolo sei? Non ti vedo.' fu il messaggio successivo, di qualche minuto dopo.

Le tornò il sorriso alla consapevolezza che lui era lì per davvero: era tardi, quasi le undici, eppure lui invece di andare a dormire era andato da lei. Chissà che non fosse stata l'unica sciocca a desiderare di essere insieme alla mezzanotte per farsi gli auguri di Natale...

'Sei troppo dolce.' gli scrisse, ridacchiando tra sé e sé. Portò le labbra sulla parte superiore del cellulare, ora seduta sulla balaustra, aspettando che il suo ragazzo la trovasse, in fondo lei non poteva andare poi da tante parti, con quel vestito così ingombrante a circa sessanta centimetri dal suolo, con quei tacchi sarebbe finita in ospedale.

Solo a pensarci le facevano già male le ossa.

Il vento soffiò un pochino più forte, e lei si strinse nel suo pesante coprispalle, in trepidante attesa. Un'attesa che durò soltanto qualche altro attimo.

«Cioè, io adesso dovrei aiutarti a scendere da là sopra?» le chiese una voce alle sue spalle, chiaramente divertita e chiaramente di Damon. «Dopo tutto un pomeriggio in cui hai continuato ad abusare di me?»

Elena si voltò per trovarlo vestito normalmente – be' di certo non si sarebbe messo in tiro solo per rapirla da una festa supernoiosa –, avvolto nel suo cappotto nero e coi capelli in disordine come sempre.

Non le sarebbe potuto sembrare più bello comunque.

«Scusa.» scosse le spalle, per niente contrita, ma con tanta voglia di scherzare. «Colpa della mia vita sessuale completamente insoddisfacente. Dovevo sfogarmi e tu eri lì.»

Lui annuì, con esagerata consapevolezza. «Ah, ora capisco.» avanzò verso di lei, finché Elena non riuscì a metterlo completamente a fuoco, grazie alla luce che proveniva dalla villa. I suoi occhi scintillarono divertiti, quando furono l'uno di fronte all'altra, Damon solo un po' più in basso. «Ecco perché non riuscivi a togliermi le mani di dosso...»

Il suo tono allusivo la fece arrossire, e dal momento che era l'unica dei due ad essere ben illuminata, la cosa non gli sfuggì, facendo allargare quel sorrido malandrino che gli era comparso sulla faccia.

«Coraggio, madame.» le prose le braccia, perché potesse aiutarsi a scendere. «Non sono venuto qui solo per guardare.»

«Porco.» fu il commento imbarazzato di Elena, che sollevò il vestito da terra e girò le gambe dalla parte del giardino, pronta a farsi prendere e non rischiare di rompersi l'osso del collo. «Aiutami, dai...»

Damon la prese per la vita, attese che lei gli mettesse le mani sulle spalle e riuscì a tirarla giù dal balconcino, ma non a metterla a terra perché gli si era aggrappata al collo: lo stava abbracciando stretto, così forte che pareva dovesse trattenerlo dall'evaporare o cose del genere.

Si dovette sforzare un po' per non fare una battuta sarcastica e magari stupida, non voleva rischiare di farla piangere più di una volta in ventiquattro ore, così le accarezzò semplicemente la schiena, capendo perfettamente qual era il problema: nel giro di sei ore lui sarebbe stato diretto dai suoi parenti a Williamsburg, lei chiusa in camera a scrivere il suo diario, magari riempiendolo di disperazione per le sue vacanze che non sarebbero state un granché – specialmente se il target massimo era la tombola di Grayson, e pregò il cielo che lo salvasse da un'altra esperienza simile –: lui era via, la sua amica Bonnie da sua madre, la Barbie molto probabilmente impegnata altrove.

E la trattenne contro di sé perché, dopotutto, ne aveva bisogno.

«Cosa fai qui?» mormorò Elena, la faccia ancora immersa nell'incavo del suo collo, la voce soffice come una carezza.

Lui la portò coi piedi sull'erba, ma non smise di tenerla tra le braccia. «Non sarei mai riuscito a dormire, nemmeno con tutta la buona volontà.» ammise, sommessamente, ma stavolta non poté trattenere la battuta: «Stefan guardava le sue telenovelas da vecchietta e piangeva come una signorina, è stato straziante. Non potevo più restare...»

Non sapeva bene come tirare fuori la verità, non poteva certo sganciare una simile bomba così, dal nulla, e poi una parte di lui non voleva dirglielo davvero, non voleva metterla a parte del più grande conflitto della sua vita, perché non voleva appesantire quella di lei, che si sentiva sempre in dovere di caricarsi dei pesi degli altri come fossero stati suoi. Se poi si trattava di lui, a maggior ragione.

Elena si scostò per guardarlo con divertito rimprovero. «Scemo.»

«Volevo vederti.» confessò, quindi, con un sorriso sottile. «Come stai, piccola?»

L'aveva lasciata che stava abbastanza bene, circondata dalla sua famiglia, ma istantaneamente si era sentito di troppo. Gli era dispiaciuto, chiaramente, in modo particolare quando lei non aveva certo nascosto il fatto che voleva che restasse, ma lui dubitava che la sua presenza fosse necessaria, in quel momento: a lei serviva più di tutto la sua famiglia, e lui non era uno a cui piaceva guardare senza essere in grado di fare nulla.

«Sto bene.» lo tranquillizzò, e il bacio che gli diede sulla guancia gli lasciò un'impronta rossa della forma delle sue labbra. «Ops...»

Cercò di pulirlo, ma non ottenne granché risultati. La pubblicità aveva ragione: si toglieva difficilmente.

«Oh... rossetto rosso. Sexy.» osservò il ragazzo, passando un pollice sulle sue labbra per sbaffarlo un po' in modo da non farsi sporcare oltre, sebbene l'idea di essere macchiato dalla sua bocca dappertutto fosse abbastanza allettante. «In effetti sei tutta sexy, pensavi di fare baldoria senza di me?»

Elena abbassò la testa per guardarsi: a casa aveva cercato di valutarsi, e si era trovata carina, non provocante, ma lo fece nel momento in cui lui le tirò il vestito sui fianchi per farlo scivolare in giù e scoprire la curva del seno.

«Ehi!» lo colpì con la borsetta, e lui rise. «Ho fatto da tappezzeria tutta la sera! E nessuno è venuto a scocciarmi.»

O ad abbassarmi il vestito per guardarmi nella scollatura.

Damon le tese la mano, a quel punto, piegando il sorriso da una parte, felice che nessuno avesse avuto occasione di toccarla, anche solo per uno stupido ballo.

«In questo caso... ti va di ballare con me?» offrì, lasciandola sorpresa e silenziosa.

«Lo sai. Sono un disastro in questo genere di cose.» gli ricordò, dopo un momento, ma la sua mano la prese lo stesso, con entrambe le sue, mordendosi il labbro inferiore perché non sapeva cosa dire che non fosse pregarlo di restare con lei, di nuovo.

Ora come ora, le sembrava davvero impensabile poter passare un altro secondo lontano da lui, specialmente quando le dita di lui finirono intrecciate alle sue e saldamente ancorate al suo petto, mentre si chinava con la testa per baciarla – finalmente, si ritrovò a pensare Elena –, e lei se lo domandò se per caso non avesse capito, o se non fosse un desiderio condiviso.

Maledizione alle vacanze.

«Lo sai che è tutta una scusa per metterti le mani addosso, vero?» le chiese, giocoso, subito dopo essersi allontanato lo spazio sufficiente per parlare. «Poi stasera sembri proprio una bambolina.»

Lei si allontanò un altro po', e tirò leggermente i lati della gonna, forse per mostrarla meglio a lui o per una personale valutazione.

«Ti piace?» chiese, alzando di nuovo lo sguardo verso di lui, deliziata.

Quando aveva comprato quel vestito, non più di due settimane prima, per l'occasione, aveva sperato che l'avrebbe indossato quella sera, ma aveva sperato anche di poterlo mostrare a lui: le piaceva che la ricoprisse di complimenti imbarazzati perché non gliene faceva spesso, la faceva sentire come se non potesse trattenerli.

«Sei da togliere il fiato, Elena.» le confermò, facendole arrivare lo stomaco in gola. «Come sempre.»

C'è sempre da qualche parte, in una ragazza, l'intenzione di cogliere l'occasione di farsi vedere dal fidanzato tutta in tiro per poter dire 'Ehi, posso essere figa anche io come una modella!', tanto per dimostrare che il make up funziona bene anche su di te, ma come poteva mai reagire, Elena, quando scopriva che Damon la trovava bella anche in quei suoi imbarazzanti pigiami, in cui l'aveva vista un paio di volte? O con addosso anche vestiti tutt'altro che sexy?

Era lui quello che, normalmente, le toglieva la capacità di parlare solo per come indossava le camicie, non faceva nessuna fatica per essere bello – perfetto. Lei, invece, non aveva mai fatto caso che lui la trovasse da togliere il fiato senza che si sforzasse per apparire tale ai suoi occhi.

«Ti amo.» le uscì detto, ancora una volta, prima di tornare a baciarlo come se da questo dipendesse tutto. E sembrava davvero così, se le sue mani sulla sua schiena la schiacciavano contro al suo petto per far sì che nemmeno un filo d'aria passasse tra i loro corpi, forzandola a intrecciare le braccia dietro al suo collo per farle entrare da qualche parte.

Questo era il suo modo per toglierle il fiato.

Infatti, quando si allontanò, Elena non sapeva più da che parte si respira: se lo stava facendo era semplicemente per istinto, come lo era diventato quello di restargli aggrappata.

Come lei, Damon non riusciva a pensare di lasciarla andare, per questo lasciò scivolare una mano sul suo viso, e quando arrivò sulla sua bocca, lei gli baciò dolcemente il palmo.

«Dio...» mormorò lui, la punta del suo naso che sfiorava quello di Elena, gli occhi deliziosamente chiusi. «Mi fai venire voglia di strapparti i vestiti di dosso a morsi, se lo dici in quel modo.»

La ragazza rise, con inconscia malizia. «E cosa cambia dal resto del tempo?»

In fondo, non aveva mai fatto mistero del fatto che quel pensiero attraversasse la sua mente abbastanza spesso, e infatti Damon nemmeno si preoccupò di negare.

«Che mi viene più difficile trattenermi.» spiegò, perciò.

«Non ho mai detto che devi farlo.» sussurrò Elena, avvicinando di nuovo il viso al suo, ora con una consapevole intenzione di portarlo dove – era evidente – volevano entrambi. «Ho sempre avuto un debole per la tua macchina... magari possiamo appartarci e tu puoi mostrarmi perché ti piace tanto...»

L'ultima parte fu un mormorio allettante contro le sue labbra, perché per quanto avesse potuto soddisfare abbastanza i suoi istinti meno poetici per tutto il pomeriggio, non riusciva davvero ad averne abbastanza, del suo corpo.

Lo voleva di nuovo e l'avrebbe voluto sempre, ormai non aveva più dubbi.

E nemmeno Damon sembrava essere in condizioni tanto diverse. «Peccato che sia troppo lontana da qui...» commentò, suonando abbastanza scornato, ma in quel modo che non capisci se sta scherzando o no.

Elena si allontanò, sorpresa. «Dove cavolo hai parcheggiato?» tentò di non suonare anche irritata, dal momento che aveva sperato di essere trascinata su un sedile e di essere soddisfatta in tutti i sensi possibili, ma dalla risatina del suo ragazzo non era certa di non essere sembrata una ninfomane.

«A casa tua.» rispose, e dalla piega che prese il suo tono, insieme al modo in cui le sfiorò il dorso della mano, sebbene ancora fasciata dal guanto di seta, lei perse tutta l'indisposizione accumulata in dieci secondi nemmeno.

Era così... strano. Non che non si concedesse i suoi momenti, ma c'era qualcosa di strano. L'aveva già detto strano? Damon aveva qualcosa, non riuscì a non rimproverarsi di non averlo notato prima.

«Va tutto bene?» gli chiese, quindi.

Non che fosse strano che fosse così affettuoso, o... no, era strano. Punto. Era una cosa da 'mi sento in colpa' oppure 'ho bisogno di supporto morale', quale fosse delle due non aveva davvero importanza, l'unica cosa che contava era che aveva bisogno di lei.

Qualunque cosa fosse che voleva da lei, l'avrebbe avuta. Qualunque cosa.

«Pensavo che non fossi uscita, alla fine. Non sapevo se stavi bene, e poi... mi è venuta voglia di camminare.» le confessò, senza rispondere davvero, senza darle alcuna motivazione, men che mai quella reale. «Ciliegina sulla torta: mi sono anche beccato una lezione di sesso sicuro da nonno Gilbert.»

Damon non poté evitare di stupirsi per l'ennesima volta, di come Elena riuscisse a leggerlo senza fatica, senza nemmeno sapere che lui ne aveva bisogno. Ma non sapeva cosa dirle, nonostante il tempo che aveva passato a rimuginarci su.

Aveva voluto un po' di tempo per pensare, per quello si era fatto la strada a piedi e ci aveva messo tanto ad arrivare, e sebbene facesse un freddo cane, a lui l'inverno era sempre piaciuto. Era il periodo dell'anno in cui c'è la più alta possibilità di fare passeggiate in solitaria, e a lui la solitudine era sempre piaciuta, era un mezzo tranquillo per riflettere.

Non era proprio stato illuminante, ma se l'era goduta, proprio perché sapeva che sarebbe finita. C'era stato da qualche parte, un nodo di aspettativa e tensione, tensione di quella buona, non di quella che ti mette ansia – cioè... anche quella metteva ansia, ma in un modo diverso –, perché sapeva che l'avrebbe rivista.

«Ommioddio.» fece lei, dispiaciuta. «Mio nonno sa essere imbarazzante, non fare caso a quello che ha detto, ti prego...»

Elena non sapeva cosa pensare. Forse era quello il problema: magari il nonno se n'era venuto fuori con una discussione su figli e famiglia come avevano fatto Jocelyn e Jane e lui si era innervosito. Era anche uno che non amava parlare o scoprirsi, perciò non poteva saperlo, finché non fosse stato pronto a confidarsi.

Nemmeno le aveva mai detto perché era così contrario a farsi una famiglia sua, quando era tornato a Mystic Falls proprio per sentirsi a casa, quando si era rifugiato dai parenti per sentirsi parte di qualcosa, perché il coraggio di tornare gli era mancato fino a pochi mesi prima.

«Facciamo due passi?» le chiese, fuori dal nulla.

Chissà che non fosse proprio una scusa per parlare di cose serie... in ogni caso, se anche quella passeggiata gli fosse uscita dal cuore – d'altra parte non avevano scelta, visto che se l'era fatta a piedi –, non si sarebbe rifiutata nonostante i dieci centimetri di tacco a spillo sotto ai suoi talloni.

«Le scarpe sono alte, quindi reggimi...» lo avvisò, tanto per avere una scusa in più per stargli appiccicata e non sembrare troppo una ventosa.

Lui, per tutta risposta, le tirò su la gonna per fare una personale valutazione dei tacchi, e se si fermò ad un'altezza che non avrebbe sconvolto nessuno, fu solo perché Elena gli bloccò la mano, anche e soprattutto per non morire di freddo. Avrebbe lasciato che gliele mettesse dovunque volesse, bastava che lo facesse in un posto al caldo, non lì fuori dove le si sarebbe congelato anche lo stomaco.

Per non parlare del fatto che aveva le mani fredde, e che per quanto le piacesse che la toccasse, il freddo un po' spegneva la libido. E se solo ripensava a quanto erano state calde quel pomeriggio il bisogno di strappargli i vestiti di dosso si faceva più pressante, quindi era meglio muoversi.

«Dovresti toglierle.» le consigliò, guadagnandosi un'occhiata scioccata, prima di capire che si stava riferendo alle scarpe e non all'abbigliamento intimo.

Ma che avrebbe dovuto fare, camminare coi piedi per terra? Anche se aveva le calze, avrebbe avuto due balle di ghiaccio come terminazione della caviglia, una volta arrivata a casa.

«Se ti stai offrendo di portarmi in braccio, sappi che non ho nulla in contrario.» gli disse, suonando seria, ma ben conscia che non sarebbe mai stato fattibile.

Tornò a stringergli le braccia intorno al collo, dandogli un bacio leggero sulla bocca, solo per scoprire che non le bastava, che non riusciva a spegnere qualunque cosa le avesse acceso dentro solo la sua immaginazione, e allora si avvicinò di nuovo, ma stavolta lo trovò a metà strada. Così rimasero là, nel giardino dei Mikaelson, illuminati dalle luci della festa, con la musica in sottofondo, a scambiarsi effusioni dolci.

«Mi dispiace deluderti, ma non credo di poterti portare così lontano.» Damon riprese l'argomento quando si allontanarono, anche se Elena ci mise un attimo a ricollegare tutto, a ricordarsi di che stavano parlando. «Mi ha debilitato, signorina Gilbert.»

Le pizzicò un fianco leggermente, facendola sobbalzare per via del solletico e ridacchiare imbarazzata.

Dopo sorrise, beata. «Quindi bluffavi, non vuoi strapparmi i vestiti di dosso... te l'avevo detto che non ce la fai, sei troppo vecchio per questo stile di vita...» stavolta era il suo turno di prenderlo un po' in giro.

Non si aspettava certo che lo facesse veramente, voleva solo provocarlo un po'. Chissà quanto tempo ci voleva a piedi, da casa dei Mikaelson alla sua, chiedergli di fare un tragitto simile con lei in braccio sarebbe stato da pazzi, e d'accordo che lei non era completamente a posto – chi mai avrebbe potuto ancora avere voglia di sesso dopo aver passato tutto il pomeriggio chiusa in una camera da letto? – ma non fino a questo punto.

Era anche vero che nessuna era stata la ragazza di Damon Salvatore, prima di lei. E questa era già una motivazione valida per sapere di non essere normale.

«Non ti porto in braccio fino a casa, Elena.» ripeté lui, prendendola per i fianchi e spingendosela contro per marcare sul concetto che stava per esprimere. «Ma sono disposto a farti completamente ricredere sull'altra parte.»

Elena spostò lo sguardo dalle sue labbra ai suoi occhi, indecisa su quale vista fosse la migliore. «Ah sì?» gli chiese, giocosa. «Forse non sono interessata all'altra parte

Non mentiva: era molto più che interessata all'altra parte, tanto che non le sarebbe dispiaciuto occupare una delle stanze vuote di quell'enorme villa per qualche esercizio fisico di cui si erano dimenticati quel pomeriggio, e avrebbe volentieri ignorato commenti, frecciatine, facce, peccato che ci fossero anche i suoi dentro quella sala, cosa che rendeva poco probabile che se per caso avessero pensato di dare spettacolo davanti a tutta la città, sarebbero usciti sulle loro gambe.

Magari una volta arrivati a casa, sperando che il nonno fosse a letto, così non avrebbero dato nell'occhio proprio con nessuno...

Il sussurro di Damon interruppe ancora le sue fantasie inespresse, ma la spinse a chiedersi se non le leggesse nella mente: «Come se non sapessimo entrambi come ti troverei, anche adesso, se disgraziatamente decidessi di spingerti in un vicolo e sollevarti la gonna... come si deve.»

Nel caso in cui ci fosse riuscito a scoprirla più delle ginocchia, sempre, con tutti quegli strati di tulle che la rendevano un po' gonfia. Sembrava uscita da un film di principesse, la sua piccola Elena, così elegante e meravigliosa – non che non l'avesse mai trovata tale, ma quella sera lo sembrava particolarmente –, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.

Sperabilmente, avrebbe avuto anche un po' di tempo per fare lo stesso con le mani.

Ma lei distolse lo sguardo, apparendo scandalizzata, al solo pensiero di darsi a simili attività in un vicolo, anche se in realtà lui aveva ragione: l'avrebbe trovata proprio come gli sarebbe piaciuto.

«Sei. Un. Maiale. Indelicato.» ogni parola fu accompagnata da un colpo di borsetta. «Hai appena sotterrato il romanticismo di questa tua apparizione fuori programma.»

E non lasciò a se stessa l'onestà di ammettere che se non avesse fatto tanto freddo, probabilmente non le sarebbe sembrata poi una proposta così scandalosa.

Damon, infatti, forse sapendolo, ridacchiò: sopratutto, era stata lei la prima a proporre di appartarsi in auto per dare sfogo ai reciproci istinti, e adesso lui era il maiale? Chissà come finiva sempre così...

«Vuoi dire che mi sono giocato l'opportunità di un altro po' di tango orizzontale?» scherzò, con l'intento di metterla ancora di più in imbarazzo, perché quella ragazza era una visione in ogni caso, ma con il viso animato dalla vergogna era qualcosa che non aveva prezzo. Avrebbe baciato quelle guance rosse per il resto dei suoi giorni.

Ma questa era una di quelle cose che lui non aveva l'onestà sufficiente per ammettere a se stesso.

L'ennesimo colpo di borsetta sancì lo scioglimento di quell'abbraccio ed Elena che se ne andava per la sua strada a passo spedito e forse anche offeso.

Così lui si morse un labbro per mitigare le risate: non avrebbe giovato a quel fare compunto, ma fu silenzioso come un predatore, mentre la seguiva, le passava le braccia sulle spalle e dietro le ginocchia per prenderla in braccio.

Ottenne un grido sorpreso.

«Che fai?» gli domandò lei, che ancora doveva riprendersi dallo spavento, ma si aggrappò saldamente alle sue spalle per paura di cadere. «Mettimi giù, svergognato! Non osare portarmi in un vicolo o...»

Damon si concesse un'altra risata quando lei si zittì non appena la fece accomodare su una panchina, fuori dal giardino in cui erano stati abbracciati – e Damon aveva avuto qualche difficoltà a scavalcare la siepe, per fortuna che era bassa –, con quello sguardo che aveva sempre quando lui faceva qualcosa di inaspettatamente gentile, la qual cosa gli fece inarcare un sopracciglio perché non le aveva dato motivo per dubitarne da che si era presentato all'improvviso.

Forse non era sempre romantico, ma c'era davvero motivo di trovarlo strano?

«Ho una cosa per te.» tirò fuori dalla tasca del cappotto una busta di plastica, ancora inginocchiato di fronte a lei, che adesso era davvero confusa.

E lo fu ancora di più quando aprì la busta e ci trovò dentro un suo paio di ballerine – dopo che le aveva sempre detto quanto fossero le scarpe antisesso.

«E queste dove le hai prese?» gli chiese, spostando lo sguardo dalle scarpe dorate a lui.

«Ho già detto che sono stato a casa tua?» le ricordò, sornione. «Forse volevo fare una passeggiata al chiaro di luna e magari evitare che tu passassi le prossime due settimane ad agonizzare perché ti ho costretta a farlo su quei tacchi.»

Il fatto che fosse stata un'idea del nonno era un dettaglio davvero irrisorio. Temeva che nominare il vecchio avrebbe definitivamente ucciso l'atmosfera: se era stata un'idea sua aveva tutt'altro sapore, per lei, no?

«Oh...» infatti era rimasta senza parole, lo stava solo guardando con la tipica dolcezza che gli riservava dopo che faceva qualcosa di carino nei suoi confronti.

Il genere di sguardi che lo mettevano in soggezione. «Come sta il tuo romanticismo, adesso?» la prese in giro, perciò, mentre le sue labbra imitavano quelle di lei che si stavano distendendo in un sorriso deliziato e divertito.

Se la ritrovò stretta al collo un'altra volta, e la strinse a sua volta, rendendosi conto di quanto solo quello fosse in grado di fargli sembrare tutto ciò che gli era accaduto fino ad allora un'inezia.

«Mmh...» mugolò la ragazza, dolcemente. «Meglio...»

«Sei incontentabile stasera, eh...» commentò lui, senza lasciarla andare.

Era pazzesco di come non riuscissero a smettere di avere contatto fisico, quasi che fosse stata una sicurezza che nessuno dei due poteva perdere, ed era diventata una necessità irrinunciabile dopo quelle ore passate ad amarsi senza sosta.

«Ehi, qualcuno deve pensare al povero romanticismo...» osservò Elena, spostandosi per appoggiare la fronte contro la sua. Lo guardò come si guarda la cosa più bella del mondo, e per un momento sembrò che Damon fosse incapace di respirare. «Comunque, ho una proposta per fare ammenda per questo mio sconsiderato comportamento.»

Le rivolse il suo sorriso piegato, mentre le guardava la bocca. «Sesso selvaggio in un cespuglio?» offrì, spostando di nuovo lo sguardo nel suo, allettante.

Elena non riusciva a crederci: per quanto anche lei stesse pensando a quanto avesse voglia, sapeva riconoscere un momento di dolcezza da uno di passione. Forse era vero che gli uomini hanno un solo, chiodo fisso.

«No.» aveva la faccia del 'non ci pensare nemmeno' e anche il suo tono di comando era più forte di quello che aveva usato nel suo bagno, perciò Damon dubitava di poterla convincere, anche perché forse sarebbe scocciato ad entrambi ritrovarsi un ramo in posti strani. Meglio evitare. «Pensavo che potevamo farci un po' di coccoline... e poi quando il nonno va a dormire potevamo salire in camera per fare pratica di tango orizzontale... dopotutto, non ho ancora raccolto la tua offerta di un ballo...»

Adesso aveva la faccina, quella che usava per estorcergli consensi di qualunque tipo. Non le avrebbe mai negato nulla, nemmeno se avesse voluto leggersi tutte le tragedie di Shakespeare in tono convincente, ma con la faccina riusciva a fargli dire di sì anche alle cose più impensate, nonostante in quel caso non ne avesse bisogno.

Forse era memore di quello che le aveva detto quel pomeriggio...

"Non mi compri con la faccina."

Ma chi voleva prendere in giro?

«Coccoline, eh?» fece, invece lui, socchiudendo gli occhi, malizioso. «Mmh... ci sto.»

Il sorriso si fece conturbante mentre muoveva le sopracciglia eloquentemente, ma invece di baciarla o fare qualcos'altro che le avrebbe mandato gli ormoni definitivamente in palla, le slacciò soltanto la scarpa. Lei infilò quindi il primo piede libero nella ballerina, e per fortuna che aveva le calze pesanti, ma in realtà l'unica cosa che la preoccupava era Damon.

Quella sera non riusciva proprio a capire che gli prendeva: qualcosa non andava, era ovvio, sebbene lui stesse tentando di comportarsi normalmente, ma era evidente che non stava bene. Stava cercando più contatto fisico del solito, parlava di passeggiate al chiaro di luna – non una cosa proprio da lui, da quello che dall'amore si era tenuto alla larga da anni –, e il modo in cui la guardava era... da togliere il fiato.

Non voleva farsi illusioni di troppo riguardo a nulla, per quanto le andasse bene che lui non fosse ancora pronto a confessarle i suoi sentimenti – e ne aveva, questo lo sapeva, non soltanto perché era rimasto sempre quando aveva bisogno di lui, ma c'erano anche tutte quelle cose che diceva solo a lei, il modo in cui si trovava a suo agio, perché non aveva bisogno di fingersi qualcun altro –, non sentirsi rispondere nulla alla prima confessione che gli aveva fatto, l'aveva un po' colpita, anche se sapeva che il motivo era che nessuno gliel'aveva mai detto e che non l'aveva mai detto a nessuno.

C'era stata una prima volta anche per lei, quindi capiva, perciò non voleva che si sentisse in colpa perché non era riuscito a dirglielo, l'avrebbe detto lei abbastanza per tutti e due, sempre ammesso che questo non lo mettesse ancora peggio in soggezione, ma se era questo, era meglio che glielo dicesse.

Lo raggiunse con una carezza nei capelli.

«Me lo dici che hai, stasera?» fece, con velata preoccupazione. «Ti prego.»

Damon le prese quella mano, proprio mentre lei si infilava l'altra ballerina e ne baciò il dorso. «Non è niente.» le promise, sorridendole sinceramente. «Davvero.»

Ma dalla sua aria ancora impensierita, non sembrava averci creduto. Di fatto, Elena finì per credere che il suo problema fosse che non si sarebbero rivisti per un po', che forse gli mancava già come le mancava lui, al solo pensiero che non l'avrebbe più toccato per tre settimane.

Forse era per questo che non riuscivano a smettere di sfiorarsi in alcun modo.

«Andrà tutto bene.» gli disse, perciò, facendogli corrugare la fronte per la confusione. «Venti giorni non sono così tanti.»

Si ritrovò a pensare di essere una pessima bugiarda: non ci credeva nemmeno lei.

L'espressione di lui si fece più sorniona, nel momento in cui comprese. «Non ti mancherò neanche un po'?» la stuzzicò, prima di aiutarla ad alzarsi.

Elena ebbe la tentazione di prenderlo ancora a colpi di borsetta, ma per sua sfortuna era ancora sulla panchina, e Damon la stava tenendo stretta con un braccio, mentre con l'altro le accarezzava ancora la mano.

Era troppo dolce per continuare a pensare di fargli del male fisico.

«Certo che mi mancherai.» confessò, senza capire che stesse combinando lui col suo guanto finché non glielo sfilò. A dirla tutta, le sarebbe mancato da morire. «Fa freddo...»

«Non ti preoccupare.» la rassicurò, intrecciando le dita tra le sue. Dopodiché si infilò le loro mani entrambe nella tasca del cappotto, abbastanza caldo e spazioso per entrambe. «Meglio se ci incamminiamo, ora.»

Lei annuì, semplicemente seguendolo, con la mano destra infilata dentro la sua tasca e la sinistra ancora avvolta nel suo guanto che finì nell'incavo del gomito del suo braccio piegato, in una scusa per stringersi a lui ancora un altro po', scegliendo di tirare fuori la tracolla della borsetta per potersela trascinare dietro senza seccature.

Appoggiò la tempia sulla sua spalla, con un sorriso tranquillo e disteso che le increspava le labbra, specialmente quando sentì le sue lasciarle un bacio tra i capelli.

Era felice. Era così felice che le sembrava che se fosse arrivato qualcos'altro sarebbe potuta scoppiare di gioia. E non intendeva farsela rovinare da nulla, perché stare con Damon era tutto quello di cui, al momento, aveva bisogno.

Perciò non c'erano padri, nonni, fratelli, amici che tenessero.

Qualcosa vibrò, nella tasca di Damon, dopo, e lui fu costretto a sciogliere l'intreccio delle loro mani per guardare di che si trattasse, per fortuna un attimo dopo aver passato il telefono in quella libera, ritrovarono la posizione come se non l'avessero mai lasciata.

«Mia madre...» sbuffò, contrariato: lo controllava come se avesse avuto dieci anni. «Vuole sapere se torno a casa, stanotte.»

«Certo che no.» le parole uscirono dalla bocca di Elena quasi di volontà propria, guadagnandosi un'occhiata sorpresa a quella chiara proposta sconcia – e anche ammesso che non lo fosse, lui la prese come tale. «Cioè... voglio dire... se vuoi. Avevo capito che restavi a casa mia, dopo.»

Che si fosse dimenticato tutto il discorso del tango?

E anche se non si fossero dedicati alle lezioni di ballo le avrebbe sarebbe stata felicissima di averlo con sé per tutta la notte. Si era già svegliata con il suo ragazzo al suo fianco, e ci si era anche addormentata più volte, ed era una delle sensazioni migliori della vita.

Tra l'altro, in questo modo, potevano ancora rimandare quei saluti che non erano davvero riusciti a dirsi.

«Ci sono buone probabilità che io venga sbudellato vivo se tuo padre mi becca nel tuo letto.» le fece notare lui, che temeva davvero per la sua incolumità, ma che mai avrebbe rinunciato a una serata con lei. «Specie se non ho addosso i pantaloni. E credo che sarà proprio quello il caso.»

Dubitava, tra l'altro, che sarebbe stato in grado di tenerli addosso: avevano dimostrato più volte quel pomeriggio che non ci sarebbe stata più occasione di comportarsi innocentemente se erano coinvolti entrambi e un materasso.

Forse non serviva nemmeno quello.

Ma Elena sembrò dispiaciuta. «Vuoi fare sesso e poi scappare come un ladro, scusa?» gli domandò, alzando la testa verso la sua.

Stavano ancora camminando in quella posizione, ma all'improvviso Damon si fermò, e si girò in modo tale che le sue braccia potessero correre intorno alla vita di lei senza farle tirare fuori la mano dalla tasca.

«Vuoi che resti a dormire con te?» chiese Damon, di rimando.

La ragazza annuì. «Tu non vuoi restare a dormire con me?»

Era un dubbio legittimo, dal suo punto di vista, dal momento che le aveva raccontato che, normalmente, non era uno che resta, dopo il sesso. Era quello che faceva la doccia e se ne andava, ma se fosse successo lei ci sarebbe rimasta troppo male: è come volerti comunicare che ti ha solo usata come divertimento.

Non che restare per le coccole fosse necessariamente una dichiarazione d'amore, ma era uno strappo meno secco. E poi che ci voleva a capire che voleva dormire con lui e basta?

Damon le prese il viso tra le mani e prima di rispondere le coprì la bocca con la propria. «Non farmi dire smancerie di cui poi mi pentirei, piccola.»

Perché se l'avesse lasciato parlare, probabilmente le avrebbe detto quanto in realtà gli sarebbe piaciuto non lasciarlo mai, quel maledetto letto, e non c'entrava il sesso – o non solo. Aveva dormito con lei anche in altre occasioni, ed erano state le notti forse più tranquille della sua vita.

Ma non avrebbe mai saputo spiegarlo.

E così Elena non poteva capirlo, anche se annuì consapevole. «Non devi sentirti obbligato.» gli disse, con dolcezza. «Non devi chiedere scusa a nessuno per come ti senti, Damon. Se hai qualcosa da dire, dilla, se no, allora non farlo. Ma per te, non perché qualcun altro potrebbe pensare chissà cosa.»

Erano così vicini che entrambi potevano sentire distintamente il respiro dell'altro sulla pelle, condensato in nuvolette di vapore, in quel freddo pungente.

Elena gli baciò leggermente le labbra, quando lui non seppe cosa rispondere.

«Sei stato tu a dirmi di non curarmi di ciò che gli altri pensano di me.» continuò lei, ricordando la loro vera, prima chiacchierata. La prima sera in cui non l'aveva solo trovato affascinante ma anche interessante – il fatto che si fosse anche divertito a irritarla era un dettaglio trascurabile. «Non trattenere qualcosa che hai da dire solo perché pensi di fare la figura del cretino, l'unica cosa che puoi farmi è piacere. Non mi importa che tu non voglia dimostrare al mondo se provi qualcosa per me, voglio solo che tu non ti senta in imbarazzo nel farlo quando siamo solo io e te.»

Le piaceva che potesse aprirsi con lei, anche se non fosse stata la sola, sebbene fosse perfettamente conscia che, nel caso in cui Damon l'avesse lasciata entrare davvero, le avrebbe parlato di quei problemi che negava di avere fino allo stremo – tipo quello con suo padre – con chiunque altro che non fosse se stesso, l'avrebbe fatto solo con lei.

«Sai quella cosa che volevi chiedermi oggi pomeriggio?» le chiese, sommessamente, passando le dita tra i capelli di lei che li aveva tutti raccolti su una spalla e leggermente mossi. «Se me la chiedessi adesso, credo proprio che ti risponderei di sì.»

Sconcertata, Elena spalancò le palpebre. Non riusciva a credere di aver appena sentito ciò che aveva, effettivamente, sentito.

Cosa?

«Sono certo che ti direi di sì.» rettificò, un attimo dopo, lasciandola definitivamente soltanto con le attività cerebrali collegate agli stimoli involontari.

Perché non poteva essere che lui le avesse appena detto ciò che agognava di sentire da settimane, ciò che avrebbe voluto sentirgli dire il momento dopo che la stessa confessione aveva lasciato le sue labbra.

O sì? Poteva?

«Q-Quindi...» balbettò la ragazza, incerta di ciò che stava davvero dicendo. «Quindi... mi... ami?»

Era una richiesta titubante, fatta guardandolo di sottecchi, nonostante le sue mani fossero ancora ai lati del suo viso con l'intento di spingerla a guardarlo.

Ma non poteva sostenere quello sguardo senza essere vittima di un attacco di cuore, perciò lo puntò sulla sua bocca, per assicurarsi che si muovesse davvero, che stesse davvero parlando e che non si stesse immaginando tutto.

«Cazzo, sì, Elena.» e dopo questo sussurro disperato, le sue labbra furono di nuovo su quelle di Elena, fameliche come lo erano state veramente poche volte, forse mai. Lei gli si aggrappò alle spalle, forte, per non avere nemmeno il timore che avrebbe potuto lasciarlo andare.

Era troppo felice per preoccuparsi di altro che non fosse continuare a baciarlo e pensare che l'amava.

Mi ama, mi ama, mi ama.

Sembrava troppo bello per essere vero, eppure lo era. Era vero.

Dovette allontanarsi da lui perché stava ridendo per la gioia, e si guardarono un momento, senza bisogno di aggiungere nulla a ciò che si erano già detti, non solo a parole, ma con occhi, piccoli gesti, carezze.

«Ho fame.» fu ciò che disse lei, dopo quello che sembrò un secolo di silenzio.

Anche lui rise, mentre passava i pollici sulle sue guance fredde. «Sei fortunata.» commentò, accennando con un debole movimento della testa all'altro lato della strada. «Se le cose non sono cambiate fanno delle crepes dolci niente male.»

Senza attendere una risposta, che tanto già sapeva affermativa – Elena che diceva di no a dei dolci? –, la trascinò per la strada, ma l'occhio di lei cadde sul suo orologio.

L'aveva fatto partire!

«Ma sono le undici passate!» protestò, perché le sembrava strano, non aveva mai mangiato a quell'ora. Ma ora che ci pensava due crepes ci stavano davvero bene... aveva davvero fame.

Già aveva dovuto fare a metà dell'ultimo bignè con suo fratello!

«Forse restano aperti per le mangione come te.» ipotizzò lui, dandole un pizzico leggero sul fianco. «Ho sentito dire che devono consegnare una supertorta ai tuoi amici Mikaelson a mezzanotte, quindi sono per forza aperti.»

Elena gli rivolse un'occhiata storta e insieme divertita a quell'insinuazione, perdendosi cosa volesse mai sottintendere, ma quando, prima di spalancare la porta per entrare, la tirò a sé per darle l'ennesimo bacio della serata, la ragazza si concesse di dimenticare ogni tipo di battuta, di perdonargli anche quelle che stava per fare.

Ed era ancora nel suo piccolo mondo di felicità, quando entrarono dentro, stordita da tutte quelle belle sensazioni che le facevano far male le guance per quanto sorrideva, così non si accorse della giovane commessa scocciata – forse del fatto di dover essere ancora là a quell'ora la sera della Vigilia – che però non si risparmiò una lunga occhiata al suo ragazzo, il quale si limitò ad ordinare due crepes al cioccolato, senza aver fatto cenno di averla notata.

E forse era davvero così.

Quando si accomodarono in uno dei posti più in fondo al locale, di quelli fatti per almeno quattro persone, con il divanetto dalla parte del muro, Elena nemmeno gli lasciò il tempo di commentare il fatto che aveva suscitato l'interesse di quella ragazza, solo per farla ingelosire un po', perché lo zittì ancora, incapace di smettere di volere la sua bocca sulla propria.

Già tanto che dovevano staccarsi per mangiare le crepes.

«Cosa diavolo ci è preso stasera?» le chiese, osservando ormai le tracce sbaffate del suo rossetto dovunque intorno alla sua bocca, per niente contrariato.

Lei non sapeva cosa rispondere, sapeva solo che sentiva di doverlo fare, era una cosa irrefrenabile che sentiva dentro.

«Ha importanza?» e non attese risposta, anche se i baci non erano così infiammati come sarebbe piaciuto a entrambi, soprattutto perché erano in un luogo pubblico, e ad Elena dispiaceva dare spettacolo tanto quanto Damon se ne sarebbe fregato di tutto.

Lo dimostrò facendo vagare le mani fino alla cerniera del vestito sul suo fianco.

Elena si allontanò, portando una mano sulla sua per fermarlo. «Che cavolo fai?»

«Sto esplorando il territorio.» spiegò il ragazzo, in tono del tutto normale, come se provare a spogliarla fosse la cosa più innocente del mondo. «Per non dover perdere tempo nella ricerca più tardi. So che non ti piace aspettare...»

L'allusione era chiara, ed Elena raccolse con un piccolo schiaffo all'altezza dello stomaco, sotto al cappotto, lì dove la seta di quella camicia non le impediva di ricordare con perfezione la sensazione di passare le dita sulla sua pelle.

«Sei un drogato di sesso.» commentò, ma quando alzò gli occhi verso i suoi, la traccia di malizia era troppo presente per poterla ignorare.

Damon, infatti, sorrise. «Ma la cosa non ti dispiace.» non era una domanda, ma un'affermazione convinta. Sapeva perfettamente che, da quel punto di vista, andavano più d'accordo di quanto a lei sarebbe piaciuto ammettere.

Chissà perché, ancora, in quel buco di città, passava ancora l'erronea credenza che fare sesso col proprio ragazzo fosse qualcosa di sbagliato soltanto perché era sesso.

Per lui non c'era niente di più naturale al mondo, era stato a letto con così tante ragazze senza averle prima frequentate che era quella, invece, la cosa strana, fuori dalla norma.

Elena scosse debolmente la testa, con un sorriso piccolo. E lui non riusciva proprio a capire come tante cose esplicite tirassero fuori la sua parte più maliziosa, mentre cose più innocenti si guadagnassero reazioni del genere.

Ma lo faceva impazzire in tutti i modi, specialmente quando mascherava il fatto che lo desiderava da impazzire dietro quella patina di timidezza che la rendeva solo più appetibile.

Santo Dio.

Quella ragazzina l'avrebbe fatto impazzire veramente, sotto tutti i punti di vista.

«Piantala di guardarmi così, Elena.» l'avvisò, in un sussurro roco. «O ti sdraio su questo divano, senza aspettare il dessert.»

Lei non riuscì a rispondere niente, troppo scioccata da quell'uscita. Sapeva che Damon era un tipo diretto – molto diretto, quella sera era proprio senza filtri –, ma non se n'era mai venuto fuori con una battuta simile, nemmeno quando le aveva fatto le più esplicite proposte indecenti. Evitò di guardarlo dritto negli occhi per paura che dicesse sul serio, dato che aveva già provato la sua inesistente capacità di resistergli, probabilmente se quella cerniera gliel'avesse abbassata davvero e l'avesse stuzzicata in quelli che sicuramente aveva imparato essere i suoi punti chiave, lei sarebbe arrivata a pregarlo di andare avanti, anche lì su quel divano.

Fu per il solo pensiero che le salì il caldo, e solo allora si accorse di avere ancora la pelliccia addosso. Se la sfilò per appoggiarsela lì vicino, e farsi discretamente aria con la mano, perché lui non lo notasse, e finisse per prenderla in giro.

«Non avevo capito che eri andata in giro nuda.» osservò il ragazzo, senza abbandonare il modo in cui la stava praticamente spogliando con gli occhi, anche se adesso era anche irritato al pensiero che chiunque in quella sala aveva potuto fare lo stesso.

Lo stramaledetto vestito era senza spalline, le scopriva la schiena e le spalle che era una bellezza, si poteva far tranquillamente indugiare lo sguardo su quella scollatura a cuore che, d'accordo, lui aveva reso più profonda, ma quel coso le segnava le curve tanto che avrebbe fatto prima a presentarsi senza, nessuno avrebbe notato la differenza.

«Non avevamo detto che il prossimo vestito per eventi mondani lo avremmo scelto insieme?» continuò, e suonò come una specie di rimprovero alle orecchie di lei che, ora, sbuffò una risata incredula.

«Credevo che saresti stato con me.» gli rivelò, con tono ovvio.

E poi c'era una buona ragione se non voleva che gli abiti per eventi sociali fossero scelti di comune accordo, non solo perché, altrimenti, l'avrebbe mandata in giro con un sacchetto in testa e un sacco di iuta largo che le nascondesse le forme: se l'avesse visto in anteprima nel camerino non si sarebbe nemmeno potuto stupire, non ci sarebbe stata occasione di farlo restare a bocca aperta com'era successo il giorno del concorso.

«Quindi volevi che impazzissi tutta la sera al pensiero di strappartelo di dosso.» completò, come se lei avesse lasciato la frase in sospeso.

E se anche era vero, se anche aveva comprato quel vestito proprio perché metteva in risalto il suo fisico e le tirava un po' su il seno facendolo sembrare più grande, per stuzzicare la sua fantasia quando ancora non sapeva dei suoi piani per la Vigilia, Elena si ritrovò a sospirare sconfitta.

Non credeva che sarebbero riusciti a parlare proprio di niente finché non avessero sfogato anche l'ultimo briciolo di passione residua, accumulata fino a quel momento. Forse sarebbero stati in debito sempre, chi poteva saperlo?

«Damon...» lo chiamò, attirandone l'attenzione agli occhi, piuttosto che un po' più giù.

Lui ci mise un momento a guardare nel posto giusto, e non poté del tutto nascondere la scintilla di malizia nello sguardo. «Mmh?» mugolò, non del tutto attento.

Si girò di nuovo verso di lui anche col resto del corpo, o tentò di farlo, con quel vestito ingombrante che si tirò di nuovo sul seno scendendo di qualche millimetro e attirando lo sguardo di Damon come se fosse stato una calamita.

«Come l'hai capito che sei innamorato di me?» fu una domanda che le uscì tutta insieme, tanto che lui dovette ripetersela nella testa per capirla davvero.

Di nuovo, quindi, quando si rese conto di cosa gli stava davvero chiedendo, raggiunse il suo viso con le mani, contro cui lei si rilassò anche se erano ancora fredde e le fecero correre un brivido lungo la schiena, lo stesso freddo che si immaginava avrebbe avuto se, com'era vestita in quel momento, fosse stata stesa su un tappeto di neve.

«Che vuoi che ti dica, ragazzina...» sussurrò lui, e adesso non aveva problemi a decidere quale parte del corpo guardarle perché era fissato sulla sua bocca. «Penso che, in fondo, io l'abbia sempre saputo. Perché?»

Ora i suoi occhi incontrarono quelli di lei, come se avesse dovuto rubarle la risposta da lì.

«Non lo so.» ammise la ragazza, confusa, sottraendosi al suo tocco con una sorta di inspiegabile frustrazione, forse dovuta al fatto che non riusciva a spiegarsi davvero. «È solo che non vorrei averti costretto a dirlo, solo perché te l'ho detto io... che tu non abbia confuso con qualcos'altro...»

Si zittì, perché non sapeva bene come continuare: le cose già la prima volta erano cambiate, quando Damon l'aveva baciata la prima volta, e allora era stata davvero terrorizzata di scoprire cosa sarebbe arrivato dopo. Adesso erano arrivati a un'altra tappa, avevano concluso un percorso che però le era piaciuto da morire: non voleva che si riducesse tutto quanto al sesso, per quanto adorasse fare l'amore con lui.

Voleva entrambe le cose.

Le piaceva che la provocasse, le piaceva essere quella che lo provoca, ma non a scapito della condivisione sul piano più strettamente personale: non capiva in che modo potesse proteggere se stesso da quella verità che le stava tacendo da quand'era arrivato soppiantandola con le provocazioni fisiche.

«Non dire scemenze.» la tranquillizzò lui, gentilmente, con le dita ancora aggrappate alla sua pelle. «Oggi mi è successa una cosa, dopo che sono andato via da casa tua. Ho capito delle cose, sai... volevo vederti perché avevo bisogno di te, e poi ho realizzato il motivo.»

Lo sapevo.

«Cosa è successo?» lo incitò, sperando che fosse il momento buono per farlo parlare.

Damon non ebbe occasione per rispondere subito, perché la cameriera arrivò con le loro due crepes, quasi lanciandogliele sul tavolo. Elena, per riflesso si fece più vicina al suo ragazzo, il quale rivolse un'occhiata storta alla sconosciuta che non diede segno di averla notata.

«Non sono sicuro di come parlartene, quindi... ho preferito non farlo.» spiegò lui, quando furono i soli a poterlo sentire.

Lei annuì, pensierosa, chiedendosi cosa mai potesse essere di così contorto da impedirgli di trovare un modo per parlargliene. «Non è che si è presentata qualche vecchia fiamma con il pancione alla tua porta, vero?» si arrischiò a chiedere, temendo che fosse una delle possibilità.

Damon alzò gli occhi al cielo al limite dell'esasperazione. «Ma cosa ti salta in mente?»

Era, chiaramente, la prospettiva più assurda di quelle che avrebbe potuto presentare, in particolare considerata la confessione che le aveva fatto di non aver mai trascurato i dettagli che l'avrebbero messo al sicuro da una prospettiva del genere.

«Scusa...» borbottò lei, preferendo ficcarsi in bocca un pezzo del suo dolce per non essere costretta a parlare, e forse durò il tempo di mandarla giù, ma non ebbe più quella scusa quando non restò più niente sotto ai suoi denti e di certo non poteva strafogarsi per non ammettere quelle paure che, nonostante tutto, erano riuscite a raggiungerla – e doveva essere ancora una volta colpa di Caroline. «Lo so che sembro la solita bambina paranoica, ma ho aspettato tanto questo momento, e sono davvero in ansia di scoprire cosa saremo da oggi in poi.»

Specialmente perché quel giorno era stato tanto, tanto lungo e complicato. Prima avevano dovuto fare i salti mortali per avere un po' di agognata intimità, e poi erano andati avanti per tutto il pomeriggio per sfociare in un momento in cui lei gli dichiarava i suoi sentimenti per affrontare un silenzio che le aveva spezzato lo stomaco in tanti piccoli pezzettini, poi era tornato la sera, forse rendendosi conto che si era dimenticato di dirglielo a sua volta.

Ed era meglio lasciar perdere la paura che si era presa per la sua famiglia, senza contare che nei prossimi giorni si sarebbero sentiti solo per telefono, in mezzo alle altre telefonate o manifestazioni alla porta di amici, parenti e gente che vedi solo in queste occasioni che vogliono farti gli auguri per Natale.

Damon corrugò la fronte, senza capire. «Perché dovremmo cambiare?»

Elena si strinse nelle spalle, come se non si potesse evitare. «Perché è già successo.» disse, quindi. «Ammetterai che sei strano.»

«Elena, per una volta, vuoi stare tranquilla?» ribatté lui, togliendole dai capelli la spilla che li teneva tutti da una parte, con la speranza che magari l'avrebbero coperta un po' di più, dato che gli dispiaceva parecchio che fossero in giro per la città e lei fosse praticamente mezza nuda. «Non deve essere tutto catastrofico per forza, sai? Si può sapere che hai tu

«Lo so... è probabile che sia io e che tu abbia ragione.» rifletté Elena, e non avrebbe saputo dire dove stesse la realtà dei fatti. «Ti comporti sempre in modo diverso quando qualcosa ti turba. Spero non sia niente di grave, io sono sempre quella che si preoccupa per tutto, come al solito... ma se ti preoccupi tu mi domando se le cose non siano serie.»

Era anzi un grande passo avanti che non l'avesse presa a parole, come aveva fatto quel pomeriggio.

«No.» la contraddisse, e sembrò convinto, eppure si corresse con rassegnazione un momento più tardi: «Non lo so.»

E, in effetti, davvero non aveva idea in che posizione lo mettesse in casa sua quella discussione che aveva ascoltato. Magari non doveva reagire in nessun modo, oppure doveva pensare di essere l'unico problema dei suoi genitori, più o meno da sempre.

Forse era un bene per tutti, in fondo, non solo per lui, trasferirsi nel nuovo appartamento. All'inizio, appena arrivato, era stato solo un modo come un altro per far saltare i nervi a Giuseppe, poi si era riabituato a stare con la sua famiglia, e adesso gli dispiaceva lasciarla.

L'unico lato positivo era che avrebbe potuto avere Elena tutta per sé senza il timore che qualcuno – tipo sua madre – entrasse in camera da letto per qualunque motivo.

La ragazza, semplicemente, mentre finiva di grattare via dal piatto la sua cioccolata, gli lanciava occhiate di sottecchi, nell'attesa che lui andasse avanti con quella spiegazione che agognava di sapere da tutta la sera, da quando aveva capito che qualcosa non andava.

Ma lui non completò mai a voce qualunque cosa gli frullasse per la testa.

«Che ore sono?» gli chiese, subito dopo aver buttato giù l'ultimo boccone del suo dolce, lasciando che l'argomento cadesse ancora una volta.

Lui lanciò un occhio al suo orologio nuovo. «Quasi mezzanotte. Mancano venti minuti.» la vide allargare lo sguardo come se fosse preoccupata di essere in ritardo per qualcosa. «Perché?»

«Perché siamo ancora qui!» spiegò lei, e lui, di nuovo, non vedeva dove fosse tutto questo dramma. «E ora parti e io ancora ti devo baciare sotto a un ramo di vischio! E poi non mi va di augurarti Buon Natale proprio in questo posto...»

Damon non ce la fece a mascherare le risate. «Baciarmi sotto al vischio?» ripeté, stranito. «Non hai bisogno di una scusa del genere, a che serve?»

«Cosa c'entra?» fece lei. «È tradizione. E porta fortuna.»

Era anche un buon auspicio perché ne seguissero tanti, tanti altri. Non che avesse bisogno del vischio per essere sicura che ce ne sarebbero stati, ma era comunque una cosa carina, era una cosa anche sciocca ma una del genere che le piaceva, se poi le dava anche una ragione per sbaciucchiarlo ancora meglio.

Lui scosse la testa, non sapeva più se mostrando disapprovazione o incredulità: forse erano quelle cose da femmine che lui non sarebbe mai arrivato a capire, e per una buona ragione.

«Dai, sarà meglio andare.» la incitò, prima di alzarsi e porgerle la mano perché potesse fare lo stesso. «Nemmeno a me va di stare qui a mezzanotte.»

Elena, sorridendo, accettò con gioia la sua mano, lasciando che la tirasse su, poi lo distrasse da qualunque pensiero non la riguardasse strettamente con un bacio, che le diede anche una scusa per infilare le mani nelle tasche posteriori dei suoi pantaloni senza dare nell'occhio.

Damon, infatti, non ci fece proprio caso.

«Ottimo, adesso possiamo pagare.» commentò la ragazza, con un sorriso furbo che all'inizio lui non capì. «Faccio io.»

«Non se ne parla.» la contraddisse lui. «Non porto la mia ragazza da una parte e la faccio pagare.»

Lei, che già si era avviata verso la cassa, si girò riservandogli uno sguardo innocente. «Peccato che tu non abbia scelta. E poi, stavolta tocca a me.»

Non aggiunse ulteriori spiegazioni, rispose alla sua espressione confusa con un risolino divertito, come quando un bambino riesce nella marachella, e quando Damon raggiunse le sue tasche posteriori alla ricerca del portafogli per batterla sul tempo, si accorse che erano entrambe stranamente vuote.

«Che cosa...?» si bloccò, quando capì. Perciò la raggiunse, di nuovo diretta verso la cassa, alla quale la stava aspettando la ragazza che li aveva accolti e portato i dolci, con la sua aria scocciata.

Damon, però, non intendeva lasciar passare la cosa in sordina: in anni e anni di rodaggio con le donne, non gli era mai capitato che qualcuna pagasse per lui. Non aveva lasciato che una che nemmeno conosceva, e doveva lasciare che lo facesse la sua ragazza?

Le passò le braccia intorno alla vita per fermarla, la bocca sopra al suo orecchio. «Dammi il portafogli, Elena.» fu un sussurro che ad altre orecchie sarebbe suonato minaccioso, di certo non a quelle di Elena, la quale si tese per ben altro motivo.

«Vediamo se riesci a trovarlo...» lo sfidò, infatti, in tono allettante. «Ma ti avviso che l'ho nascosto bene.»

In realtà era nel posto più ovvio: la borsetta, anche perché non aveva avuto il tempo di nasconderlo meglio – non che avesse un posto migliore, d'altronde –, ma non c'era niente di male a giocare un po' con lui, che non pareva aver capito.

Lui rise sommessamente. «O forse posso costringerti a confessare.» optò, spostando una mano dal fianco al collo per farle inclinare la testa un po', giusto lo spazio necessario per disseminare qualche bacio con tranquillità, ben conscio che era lei che la stava perdendo.

Si guadagnò anche da parte di lei una risatina deliziata, di quelle che gli facevano davvero capire che era passato veramente troppo tempo dall'ultima volta in cui avevano fatto l'amore, anche se erano quattro ore scarse, ma sentirle fare quel suono l'aveva riportato a un certo punto in cui per sbaglio le aveva fatto il solletico, in un momento in cui si erano concessi una pausa.

Pausa che era finita subito dopo, infatti.

Il motivo per cui erano finiti in quella posizione – e anche tutto il resto –, quando passarono a scambiarsi vicendevolmente effusioni, passò totalmente in cavalleria: si erano addirittura dimenticati del portafogli o del fatto che dovessero proprio pagare la consumazione.

Finché non si schiarì una voce. «Scusate, si potrebbe fare più in fretta questa cosa?» chiese loro la cassiera, in modo caustico. «Vorremmo chiudere, se non è troppo disturbo.»

Elena arrossì fino alla radice dei capelli. «S-Sì...» balbettò, in estremo imbarazzo. «Scusi.»

Il tempo di dare i soldi, farsi dare lo scontrino e arrivare fuori dalla porta con addosso le giacche, che entrambi scoppiarono a ridere per la pessima figura.

«Posso riavere il maltolto, adesso?» riuscì a chiedere lui, quando ce la fecero a smettere. «Comunque, sappi che me la pagherai.»

La ragazza si permise di tirare su un sopracciglio. «Che strano gioco di parole, signor Salvatore...» commentò, come quella che sa fin troppo bene il fatto suo.

E Damon non poteva certo dire che non fosse vero, soprattutto mentre la guardava con le mani nascoste dietro la schiena, proprio come quella bambina che ne combinava una dietro l'altra che era stata tanti anni prima.

La stessa che non aveva mai potuto fare a meno di proteggere e che forse, era quella stessa parte di Elena che sentiva ancora il bisogno che lo facesse.

Raggiunse di nuovo il suo viso con le dita di una mano.

«Damon?» lo richiamò lei, confusa, incapace per la prima volta dopo settimane di capire davvero cosa gli passasse per la testa.

«Dai, andiamo.» la incitò, invece, chinandosi per baciarle la guancia, mentre allungava la mano libera verso la borsetta. «Ho una sorpresa per te, dobbiamo sbrigarci prima che faccia mezzanotte.»

A quel punto, Elena drizzò le antenne. «In che senso?» chiese, senza rendersi conto che si era già ripreso ciò che gli apparteneva, dato che ormai la sua attenzione era stata completamente calamitata da altro. «Perché non posso saperlo subito?»

Seguì il suo braccio e trovò che si era ripreso il portafogli, e lo guardò male pensando che fosse stato solo un modo per distrarla, tra l'altro la sua espressione di vittoria non le permetteva di capire proprio nulla.

«Perché sono sicuro che dopo che saprai cos'è, ovviamente, non potrai che saltarmi addosso.» sventolò sotto al suo naso la sua proprietà e poi se la rinfilò in tasca, lasciandola perplessa.

Sembrava che stesse scherzando: la voleva solo tenere sulle spine e come sempre sceglieva di farlo usando il sesso contro di lei.

Questo suo stramaledetto vizio di avere l'ultima parola su tutto.

Sospirò, mentre lo seguiva, nascondendo di nuovo una mano nella sua tasca, e l'altra nel suo guanto perché faceva più freddo di quand'erano entrati, e così trascorsero i dieci minuti che ci impiegarono ad arrivare a casa Gilbert a punzecchiarsi a vicenda e a fermarsi l'un l'altra per zittirsi a vicenda con uno dei tanti baci che si erano scambiati quella sera.

Elena non si era mai sentita meglio nella sua vita, e nemmeno le luci ancora accese in sala – segno che il nonno era ancora sveglio, ammesso che i suoi non fossero arrivati prima di lei, ma dubitava che sarebbero tornati prima della mezzanotte – ebbero il potere di smorzare il suo buonumore.

Ma quello di Damon un po' sì: con tutti quei discorsi sul sesso pre-matrimonio dubitava che il vecchio Gilbert avrebbe avuto piacere di saperlo in casa di notte, nella stessa stanza di sua nipote. E poi chi glielo diceva a Grayson che lui non era lì solo per dare una personale valutazione della biancheria intima di sua figlia?

«In che modo si manda il nonno a letto?» le chiese, scornato.

Gli erano state promesse delle coccoline e... qualcosa di più.

«Aspetta qui.» propose lei, sorridente per lui in modo inspiegabile. «Ho un'idea.»

Gli mise una mano sul braccio per fermarlo, lì, sul portico. Intendeva stare da sola con lui un altro po': col nonno sarebbe stato impossibile e non solo perché come ogni maschio Gilbert che si rispetti era un grandissimo impiccione, ma soprattutto perché si ostinava a proteggere le ragazze della famiglia come se fossero state fatte di vetro.

Damon si strinse nel cappotto. «E, per caso, riguarda farci morire di freddo?»

Già si erano fatti la strada a piedi, era sicuro di avere i suoi completamente congelati.

«No, è solo che non mi va di dare spettacolo di fronte al nonno.» spiegò la ragazza, in tono pratico, e accennò con la testa alla porta di casa.

«Hai l'unico vecchio che fa le ore piccole.» borbottò lui, con un vago risentimento verso il nonno, il quale lo stava, senza saperlo, derubando del suo tanto caro tempo di qualità.

Non era mica colpa sua se la ragazzina aveva scelto la serata sbagliata per andare in giro come se fosse Agosto, con quel vestito che nemmeno faceva finta di nascondere le sue forme, anche se non erano esagerate, ovviamente.

Era piuttosto minuta, perciò era proporzionata. E anche bene.

«Ci metto poco, ma se hai freddo, entra.» lo tirò fuori da quei pensieri, baciandogli una guancia. «Solo che non vorrei che nonno ti incastrasse in qualche altra discussione poco piacevole o in un gioco di carte.»

Ti prego, no.

«No, aspetto qui, hai ragione tu.» si affrettò ad acconsentire, piuttosto che vedersi sul divano insieme al nonno, si sarebbe messo in mutande lì al freddo.

Fece un passo indietro e decise che si sarebbe messo comodo sulla panca e l'avrebbe aspettata lì, sperava con lo stesso vestito, perché aveva fantasticato sul toglierglielo da che gliel'aveva visto addosso.

Qualche minuto dopo, Elena era di nuovo sul portico con tre pesantissime coperte, foderate all'interno con dell'imbottitura che aveva l'aria di tenere parecchio al caldo, ma sempre con lo stesso abito, con grande piacere del suo ragazzo.

«Ah, ecco qual era il tuo scopo...» osservò lui, con ironia. «Fare il pieno di coccole. Io non c'entravo niente.»

Lei gli si sedette accanto, per poi posare le gambe sulle sue, così potevano stare comodamente abbracciati e, allo stesso tempo, non gli pesava addosso. Gli passò una delle coperte, che lui si sistemò intorno alle spalle e riuscì a coprirgli anche i piedi, perché era abbastanza grande, mentre lei usò l'altra per coprirsi i piedi che erano rimasti scoperti, poi appoggiò la testa sulla sua spalla e si accoccolò al suo petto.

«Te l'avevo detto, prima.» gli fece notare, giocosa. «Tu hai acconsentito solo perché dopo ci sarà la parte divertente. E lì sì che c'entrerai qualcosa.»

Lui rise: non sapeva quanto aveva ragione. «Ehi, non costringermi a fare voto di castità per dimostrarti che non penso solo al sesso.» fece, come se fosse stato serio. «Tanto lo sappiamo tutti e due che non resisteresti un minuto nello stesso letto con me senza fare niente.»

Soprattutto perché gliel'avrebbe reso impossibile: conosceva, almeno a quanto credeva, tutti i modi in cui avrebbe potuto renderla la ragazza più arrendevole della terra, bastava solo stuzzicarla nel modo giusto, e intendeva usare quelli che aveva provato e anche scoprirne di nuovi.

«Cos'è, una sfida?» gli chiese lei, e sembrava quasi che quel gioco l'attirasse molto.

Damon le baciò la punta del naso, completamente sicuro di sé. «No, è la verità.»

E be', Elena non era nessuno per poter negare.

«Ma smettila!» fu ciò che disse, infatti, con tutta l'intenzione di sviare la conversazione su un argomento su cui c'era la possibilità – anche se remota, conoscendolo – che non l'avrebbe messa in imbarazzo. «Perché piuttosto non mi dici che cosa intendevi con 'ho una sorpresa per te'?»

Lo guardò tirare fuori il braccio per sapere l'ora. «Non è ancora mezzanotte.» osservò, come se quella avesse dovuto essere la giustificazione del fatto che non le avrebbe detto proprio niente a riguardo, per il momento.

«Mancano due minuti!» si lamentò lei, roteando gli occhi. «Non fare il fiscale.»

E con questo non intendeva certo dire che era curiosa. Proprio no.

Assolutamente no.

Solo che se avesse potuto avrebbe scalpitato, peccato che fosse addosso a lui, e che con ogni probabilità sarebbero finiti giù dal dondolo.

«Non posso, davvero.» si scusò il ragazzo, ridendo sommessamente al suo broncio leggermente deluso. «Abbi pazienza. E i minuti sono cinque.»

E ora fu il turno, da parte di lei, di lasciar andare un sospiro rumoroso e frustrato per non strozzarlo: doveva cambiare soprannome, qualcosa tipo mister perfettino.

Gli fece la linguaccia. «Ma tu, a scuola, eri quello che correggeva l'insegnante?»

«No, ero quello a cui il cane mangiava i compiti.» ribatté, sornione. «Mi credevano sempre, anche se non avevo un cane.»

Tirò su le sopracciglia un momento, nella sua classica espressione di quando voleva sottolineare di avere ragione, ma in risposta si guadagnò solo uno sguardo esasperato.

«Te l'ho detto che Madre Natura mi ha fatto irresistibile.» si strinse nelle spalle, come se fosse una cosa per cui non poteva farci niente.

Elena rise, incapace di capire come un simile scemo potesse anche essere un tale manipolatore, che lo volesse o meno, tra l'altro.

«Va bene, va bene. Mi arrendo.» lo disse in tono scherzoso, ma in realtà era una vera sconfitta dichiarata. «Il mio fidanzato è la perfezione fatta persona.»

Gli baciò la mascella solo perché se si fosse mossa avrebbero entrambi perso quella posizione perfetta, per quanto le sarebbe piaciuto zittirlo – e l'avrebbe fatto.

«Lo sapevo, te ne sei accorta solo oggi che mi hai visto nudo.» la punzecchiò con un dito sul fianco, godendosi le sue contorsioni per evitarsi la tortura e, contemporaneamente, cercò di tenere entrambi ancora seduti. «Crudele. Come ho detto.»

Tra i gridolini, Elena riuscì a tirargli una gomitata tra le costole, che finalmente lo convinse a lasciarla stare, anche se ora la posizione era persa e come rimborso per quella botta si impadronì delle sue labbra, ma solo per stampargli la bocca sulla sua.

Quando si allontanò, aveva la faccia da furbetta, quella di quando le venivano sempre idee tali per cui pensava che l'avrebbe messo all'angolo – e tante volte ci riusciva davvero.

«Va bene, quindi per ammazzare il tempo puoi dirmi che ti prende stasera.» aveva tutta l'aria di una proposta che non poteva rifiutare. «Io te l'ho detto perché sono appiccicosa, ma tu? Vuota il sacco, nonnina

Non aveva voluto farlo con le buone, adesso non gli avrebbe permesso di scappare. Non soltanto perché era curiosa, ma soprattutto perché sapeva che più una cosa si tiene dentro, più ti fa male: lei stessa si era sentita più libera quando gli aveva confessato ciò che aveva fatto ai suoi genitori, benché immaginare di parlarne con qualcun altro fosse inaccettabile.

In ogni caso, intendeva aiutarlo, e non gli avrebbe permesso di avere voce in capitolo sulla questione.

«Sono stato fulminato dalla... consapevolezza che sono pazzo di te, ragazzina.» deviò ancora l'argomento, e sperò che quelle parole la distraessero.

Ovviamente non successe.

«Piantala o ti tiro un pugno.» lo avvisò, decisa. «Serio.»

Damon si ritrovò a sospirare: a quanto pareva non si scappava davvero. Sistemò la coperta sulle sue gambe, per spostarle e non farle prendere freddo, perché per quella conversazione non poteva certo stare seduto.

«Certo che con te non si può mai fare finta di niente su niente!» commentò, esausto e lei scosse la testa in conferma.

«Sei venuto da me per questo motivo, non capisci che non posso ignorarlo?» gli chiese, ma non lo seguì, intuendo che forse voleva un po' di spazio. «Insomma, pensavo che avessimo superato la fase in cui ti tieni i problemi per te, dicevo sul serio quando ho detto che voglio cercare ad aiutarti quando ti succede qualcosa che non va... almeno provaci, se non funziona, giuro che non ti rompo più le scatole.»

Non c'era bisogno che sapesse che non avrebbe lasciato che accadesse.

«Ho casualmente ascoltato una conversazione tra i miei genitori.» buttò fuori, e lei improvvisamente si sentì come ad aver curiosato tra qualcosa di estremamente personale. «Contenta?»

«Oh...» mormorò, adesso si sentì parecchio sciocca. «Su... su di te?»

Ci mancò poco che si mordesse la lingua per la domanda idiota, be' di certo non avevano parlato della cena, se lui c'era stato male tutta la sera. E poi doveva anche aiutarlo? Forse a buttarla a calci giù dal portico!

Damon annuì semplicemente.

«E... e cosa...?» balbettò lei, totalmente incerta su cosa dire in un momento del genere.

L'aveva chiesto lei, e veniva fuori che adesso non sapeva bene come comportarsi: lui era parecchio sensibile sull'argomento, ed era anche spaventata che reagisse come aveva fatto in camera sua, chiudendosi in se stesso per evitare di fronteggiare il suo dolore.

«Non so nemmeno da dove cominciare.» ammise il ragazzo, debolmente. «O come spiegare. È per questo che non ti ho detto niente.»

Fece qualche passo, fino alle scale, là da dove era in grado di scorgere il cielo sopra le loro teste. In qualche modo, la sera, guardare tutte quelle stelle su quel tappeto scuro, aveva un effetto tranquillizzante.

Mai capito come mai.

«Non sono andato là con l'intenzione di origliare, volevo vedere se potevo evitarmi questa settimana con mia zia, ma poi ho capito che mia madre ci rimarrebbe troppo male, se per caso mi fossi tirato indietro, per non parlare di mio fratello...» poi scosse la testa: stava divagando. «Comunque, sono arrivato e loro stavano parlando di me. Mio padre, soprattutto.»

«Si... lamentava di te?» chiese Elena, con cautela.

Lui fece cenno di no.

«Secondo mia madre il risentimento che riverso su di lui è solo un disagio che ho verso me stesso.» lo disse perché era questo, in fondo, che l'aveva confuso, tra le altre cose. «Lei pensa che non lo odi affatto.»

E se non era così, non sapeva proprio come classificare quella morsa che gli stringeva lo stomaco e il cuore tutte le volte che era costretto a guardarlo dritto in faccia.

Se non era odio, cosa diamine era?

«Lo penso anche io.» le parole di Elena, dolci e leggere come una carezza, lo disorientarono ancora di più, come avrebbe potuto fare solo un cazzotto.

Come faceva a dirlo con così tanta sicurezza?

«Mi domando come le persone possano pretendere di sapere cosa sentano gli altri.» commentò, ma non con amarezza, più con sorpresa, con sincero interesse. «Perché pensi questo?»

Era lui, il primo a non capire, come poteva farlo Elena?

«Perché ti manca.» spiegò, semplicemente. «Perché ti fa male.»

Gliel'aveva visto negli occhi, l'aveva notato nei suoi muscoli contratti quando l'aveva trascinata in camera sua, nella sua espressione contratta quando erano stati da soli.

Damon soffriva, e secondo lei era perché gli mancava ciò che erano prima, lui e Giuseppe.

«E quindi?» la invitò a continuare, dubbioso ed incredibilmente scettico. Per lui era normale, soffrire a causa di qualcuno che si odia.

Ma mancargli...

«E quindi se lo odiassi davvero, non succederebbe.» tagliò corto lei, bisognosa di dimostrare la sua tesi. «Vuoi distruggere quelli che odi, non amarli, e di certo non pensi di tornare a casa da loro, ti pare?»

Damon tornò a guardarla, ma rimase in silenzio per un lungo momento.

«Hai mai odiato qualcuno, Elena?» le chiese, piano, e per qualche ragione che non avrebbe saputo spiegare, Elena si sentì mancare il respiro.

«No.» confessò, stringendosi colpevolmente nelle spalle. «Non credo.»

Era come se avesse voluto dirle che non capiva perché era un sentimento che non aveva mai provato, ma lei non pensava che c'entrasse nulla: gli esseri umani sono tutti diversi, ma se esiste qualcosa che li accomuna tutti è proprio la capacità di provare sentimenti. Quelli sono uguali per tutti, e lei aveva la convinzione che non era una cosa che si potesse cambiare.

Forse non aveva odiato mai, ma come funzionava l'odio lo sapeva, esattamente come aveva sempre saputo come avrebbe dovuto funzionare l'amore senza averlo mai provato.

Ci sono cose che non serve provare sulla pelle, per sapere. Per capirle meglio, forse, per sapere cosa si prova ad averle dentro, ma non per conoscerle.

«Ma una cosa la so.» continuò, quindi, quando si avvicinò di nuovo. «Non sei in grado di odiare qualcuno, Damon... sei come me.»

Quella constatazione, scatenò un sorriso dolce da parte di lui. «Credimi, piccola mia, sono ben lontano dall'essere come te.» la guardò con affetto, accarezzandole il viso. «Lo ero una volta, forse, ma ora...»

Di nuovo, quella sera Elena si ritrovò a roteare gli occhi. «Non fare il melodrammatico, e fidati di me. Tu non sei obiettivo quando si tratta di te stesso.» soprattutto, si illudeva di essere un duro e cose del genere, in realtà, per le cose che lo riguardavano da vicino come quella, era incredibilmente sensibile. «Sei troppo rigido quando si tratta di autovalutazione.»

«Mi conosco bene, tutto qua.» ribatté il ragazzo, rassegnato. «Sei tu che pensi troppo bene di me.»

Touché.

«Forse ho il giudizio leggermente alterato dal fatto che ti amo, ma...» calcò su quella parola perché lui aveva già assunto la sua posa da so-tutto-io, o come-dicevo-ho-ragione, non avrebbe saputo come definirla. «...su questa cosa non mi posso sbagliare, credimi.»

E non gliel'avrebbe fatta passare liscia: Damon sapeva tutto del mondo, sapeva come funzionava ogni cosa ma non capiva un tubo di persone, o di sensazioni, e questo perché non si era mai fermato a conoscere le prime e assaporare le seconde.

Perché per evitare di stare male, si era privato di praticamente tutto.

In più, lei aveva una, ormai, abbastanza discreta esperienza in rapporti complicati padre/figlio, e se conosceva bene la categoria – e la conosceva, in fondo, dato che Giuseppe era uno zuccone esattamente come Damon –, doveva solo convincerlo a essere quello che fa il primo passo o che accetta il primo passo del padre, che ne aveva fatti almeno due lo stesso giorno.

«Se c'è una cosa che so perché l'ho visto coi miei occhi, è che non importa quanti litigi, quante parole volino tra padri e figli, esiste un legame, Dam. È la stessa cosa che ho detto anche a mio nonno, qualche giorno fa, per convincerlo a parlare col mio papà.» disse, e chiuse gli occhi un momento, quando le dita di Damon passarono ad accarezzarle il collo. Non seppe mai quale forza spinse le parole fuori dalla sua bocca: «Non lo puoi spezzare solo perché pensi di volerlo, fa male perché dentro di te sai di amarlo nonostante tutto. Perché è tuo padre, e la cosa che ti manda in conflitto è sapere che vorresti odiarlo quanto sai di non poterlo fare davvero.»

Le sue parole furono un sussurro che però, fortunatamente, lui riuscì a sentire ugualmente, peccato che adesso lei fosse focalizzata sul baciargli via dalla faccia quell'aria afflitta.

No, non è il momento!

Concentrazione: ci voleva concentrazione, non importava quanto fosse bello e, soprattutto, coccoloso, con quell'aria da cucciolo abbandonato.

Concentrati!

«Forse ti illudi che sia così, ma sei felice, vero?» gli chiese, e lui spalancò gli occhi, sorpreso. «Di essere a casa. Di sentirti a casa, ed è successo ora, non un anno fa, o dieci. Ora. Perché eri pronto.»

Di nuovo, Damon cercò spazio, e si allontanò. E da una parte meglio, era più facile pensare.

«Non ne sono sicuro, Ele.» ammise, carico di dubbio. «Non so se posso perdonare ciò che mi ha fatto.»

Ci fu un altro momento di silenzio, atto a fare in modo che entrambi assorbissero ciò che Damon aveva appena detto – l'aveva detto davvero e lui non poté che stupirsene –, ma da parte di Elena, completamente disorientata, serviva anche a sapere cosa dire.

«Qualunque cosa sia, non lasciare che definisca il vostro rapporto.» tentò, sperando che non fosse stato qualcosa di orribile, anche se dubitava che Mary gliel'avrebbe fatta passare così liscia, in caso. «E che lo rovini, soprattutto. Sei un uomo, Damon, anche se non grazie a lui, anche se sei cresciuto con le tue sole forze, sei qualcuno, non sei un fallimento e, nel modo più assoluto, non è vero che non sei abbastanza per nessuno.»

Perché per quanto potesse sembrare un tipo sicuro di sé, per quanto fosse sempre con la battuta pronta e il resto, nel profondo restava sempre molto, molto insicuro. Magari non su di sé, ma sugli altri, sì. Gli unici amici che aveva erano persone strane – e sì, perfino Alaric lo era, anche se sembrava essere Enzo quello più spostato tra tutti e tre –, anche loro, a quel che aveva capito, si erano fatti da soli, per il resto aveva escluso il mondo.

«Questo non puoi saperlo.» le fece notare, serio. Capiva che voleva consolarlo, ma sapeva che non era vero.

«Lo so, invece.» e questa era una delle poche verità di cui Elena aveva la certezza assoluta, di quelle di cui avevano parlato quella sera, e il tono convinto con cui lo disse, di nuovo, ebbe il potere di spiazzarlo. «Lo sei per me. È come nelle dimostrazioni della matematica: basta un controesempio, perciò eccomi qua. E non dimentichiamoci di Stefan e tua madre.»

Lentamente, il ragazzo annuì. «Ma che c'entra col perdono?»

«C'entra, perché finché non sarai capace di perdonare entrambi non sarai mai davvero felice.» fu la risposta di lei, e solo nel momento in cui lasciò le sue labbra, seppe che era la verità. «È una cosa che devi a te stesso, Damon, non a lui.»

Anche se potrebbe essere che se lo merita.

Questo lei non lo sapeva, perché non le aveva ancora detto di cosa si trattava, perciò non poteva esprimere giudizi forti, ma non poteva pensare all'angoscia che gli aveva visto addosso quando aveva tentato di parlarci ed era stato respinto.

E arrivò anche a chiedersi se una colpa è meno grave, quando il pentimento è sincero. Ma forse no, forse in realtà, era la clausola che serviva per essere perdonati.

Si va avanti ma non si dimentica.

«Non è facile come sembra.» mormorò lui, lo sguardo ora basso sulle assi del portico.

«Perché no?» gli chiese, dato che per lei era tutto molto, molto semplice. «Ti prego, spiegami. Quando io penso a mio padre riesco solo a ricordare cose come la mia prima volta in bici senza rotelle, a lui che mi prende in braccio, o il primo disastroso tentativo con la macchina, cose del genere. Cos'è successo tra te e il tuo?»

Era una cosa che doveva sapere, se voleva comprenderlo almeno un po', se voleva essere d'aiuto. Era successo qualcosa di terribile tra lui e suo padre, ed Elena, in cuor suo, sperò si trattasse solo di parole, perché per quelle c'è la soluzione, si può mettere a posto ogni cosa.

«Sai perché me ne sono andato?» le chiese, di rimando.

Elena corrugò la fronte, confusa: che c'entrava? «Non per Katherine?»

Era quello che le aveva detto, se non sbagliava, o quello che aveva assunto lei, e che lui non aveva né confermato né smentito mai.

Damon fece cenno di no con la testa. «È stato lui a cacciarmi via.» la sua voce era poco più che un sussurro. Era addirittura sorpreso di essere riuscito a dirlo a voce alta, non era mai stato in grado di ammetterlo con nessuno, se non a suo padre e solo per rinfacciargli le sue pessime scelte. «Appena dimesso dall'ospedale. Ero a pezzi per tutti i motivi del mondo, ma ancora le circostanze dell'incidente non erano state del tutto chiarite, e mio padre ha subito pensato al peggio: che fosse stata colpa mia.»

Non gli aveva mai dato una buona ragione per dubitare di lui, sebbene avesse avuto problemi con lo sceriffo per qualche quisquilia e cosetta che aveva combinato qua e là col suo gruppetto di amici scapestrati, e sapeva che suo padre era deluso dal suo comportamento, ma non fino al punto da cacciarlo di casa.

«Mi ha detto di sparire dalla sua vista.» proseguì, lentamente. «E io l'ho fatto, nonostante le preghiere di mia madre.»

Quando tornò a voltarsi verso di lei, vide che la disperazione sul viso della sua ragazza si era trasformato in un fiume di lacrime, anche se stava tentando di trattenere i singhiozzi. Qualcosa si contrasse nel suo stomaco, perché ora sì che non si potevano confondere con altri tipi di lacrime.

«Ti prego, non fare così.» si piegò sulle ginocchia per prenderle le mani, con dolcezza. «Non voglio la tua pietà.»

E non voglio vederti soffrire.

«Non è pietà.» riuscì a dire lei con un filo di voce, prima di abbracciarlo stretto. «Non sarà mai pietà. E se piango è perché sto male, perché non capisco come tu riesca a non farlo. Ho sempre avuto paura che anche il mio dicesse una cosa simile, dopo l'incidente... ho avuto così tanta paura che mi odiasse che non ho avuto il coraggio di rivolgergli la parola per mesi.»

In realtà aveva parlato pochissimo con chiunque, nel primo periodo, soltanto fuori casa si sforzava di essere quella di sempre, peccato che avesse gente intorno con le antennine dritte per ogni problema come Caroline, e anche se non le aveva mai raccontato nulla, non aveva potuto nasconderle che qualcosa in quel periodo non andava.

Per una volta, quella ragazza aveva rispettato i suoi spazi e non l'aveva soffocata di domande, nemmeno quando lei scoppiava in lacrime senza ragione apparente.

«Come fai a non piangere mai?» gli chiese, dunque.

«Ti assicuro che, quella volta, ho riempito la valigia più di lacrime che di vestiti.» confessò, senza avere davvero cuore di potersi ricordare quanto si era sentito abbandonato, smarrito. «Ho pianto abbastanza nella mia vita, te lo giuro. È per questo che non ho più bisogno di farlo.»

Era una bugia, una che raccontava a se stesso e in cui si prendeva la libertà di credere per sentirsi meno male, aveva imparato ad affogare i dispiaceri nel bourbon, per un po' lo liberava dal peso di ogni tristezza che aveva nella vita.

Anche con lei gli succedeva la stessa cosa, sebbene in modo diverso e forse un po' più sano dal punto di vista della salute fisica.

Le dedicò l'ombra del suo sorriso sghembo, mentre la stringeva a sé più forte. «Tu come hai risolto?»

Elena si scostò quel tanto che le permise di stare con la schiena dritta e si asciugò le lacrime, lasciando scie di matita nera sulle guance e sulle mani.

«Mi ha trovato in soffitta che piangevo, più di un anno e mezzo fa.» raccontò, tirando su col naso. «Solo dopo mi sono resa conto che mi avevano cercato tutto il giorno e che ero rimasta lì per ore. Abbiamo parlato... un po'. Non dell'incidente, perché allora avevo attacchi di panico anche solo a parlarne, l'ho solo pregato di non odiarmi.»

Scostò l'ennesima lacrima, ora versata per quel pensiero orribile, e Damon aveva avuto più o meno la stessa età quando gli era capitato, solo che nel suo caso, suo padre l'aveva cacciato per davvero, non era solo un terrore che aveva tenuto per sé, inconfessabile.

Doveva essere stato tremendo, doveva avergli spezzato il cuore molto peggio di come aveva fatto sua sorella, e forse era per questo che Damon non riusciva più a fidarsi di nessuno, perché aveva creduto che gli fosse stato negato l'unico amore che avrebbe dovuto avere incondizionatamente.

«È venuto fuori che non mi ha mai odiata.» nemmeno lei lo sapeva come fosse possibile una cosa del genere, ed era arrivata a una conclusione: ci sono cose che non si possono fare a meno di perdonare, se a compierle è qualcuno che amiamo al di sopra delle altre cose. «Per questo sono sicura che non lo fa nemmeno il tuo. Non credo che ti abbia mai odiato.»

Forse aveva ragione, forse no, Elena non lo sapeva, anche se non aveva idea di come si potesse odiare un figlio, ma lo disse ad uso e consumo del bambino ferito che ancora viveva nel suo ragazzo, perché potesse finalmente darsi pace.

Ma Damon si alzò scuotendo la testa.

«Non è di questo che si tratta.» le disse, con un sospiro: era lui che odiava suo padre, non il contrario, per quanto Elena e sua madre potessero essere convinte del contrario. «Quando mi ha detto di andarmene, io pensavo di meritarmelo. Pensavo di essere un fallimento, capisci? Ci ho messo anni per capire che non era niente del genere, e che era stato lui, il fallimento, come genitore. Non potevo nemmeno sopportare di guardarlo.»

Distolse lo sguardo da quello di lei, amareggiato e incapace di leggerci quella pena che aveva negato di avere per lui e che Damon era sicuro avrebbe ancora negato di provare, se anche fosse stato vero.

«Damon, te lo dico perché lo so per esperienza personale.» ora anche lei si alzò, e gli andò vicino, posandogli una mano sul braccio per confortarlo almeno un po'. «Niente è per sempre, e in questo c'entrano anche le vite dei nostri genitori. Razionalmente crediamo tutti che ci saranno sempre, una parte di ogni figlio penso che sia convinta che siano immortali, non è così.»

Lei lo sapeva anche troppo bene, l'aveva scoperto a sue spese, e qualcosa nell'espressione colpita di Damon le disse che lo sapeva anche lui.

Gli sorrise.

«I nostri genitori sono ancora giovani – non guardarmi così.» lo avvisò, quando la guardò nello stesso modo in cui aveva fatto al concorso, quando si era permessa di dire la stessa cosa. «Perciò ti puoi permettere di portare rancore ancora per un po', ma non si sa mai. Può succedere di tutto e resteresti tu col rimpianto di averlo perso senza aver risolto le cose.»

Forse Damon poteva credere di poter portare rancore per sempre senza risolvere le cose, ma Elena sapeva bene che a lungo andare l'avrebbe distrutto davvero, specialmente se non ci fosse più stata occasione di chiarire tutto.

Lui di nuovo scosse la testa, ma in modo diverso da prima, non era rassegnato o frustrato, era una sorta di incredulo divertimento.

«Ma tu come cavolo fai a perdonare tutto a tutti?» volle sapere, sconcertato.

«Non lo so.» replicò lei, stringendosi nelle spalle. «È che quando voglio bene a una persona non ci riesco ad essere arrabbiata. Dopo un po' qualunque cosa sia successa perde semplicemente d'importanza e... passa.»

«Così.» fece lui, completamente scettico. Non era una domanda ma una semplice constatazione.

Lei annuì. «Sì, così.»

Non poteva spiegarlo: a lei succedeva e basta, si alzava una mattina e, se mai aveva avuto risentimento per qualcuno, a un certo punto era sparito. Era successa una cosa del genere anche con Matt, a un certo punto si era resa conto che aveva parlato per rabbia, non per ragione, quando le aveva dato della poco di buono, e così era tornato tutto come prima.

Lo capiva che quando le persone erano ferite potevano dire qualunque cosa, e poi per tante cose non valeva la pena prendersela. Non che il caso di Damon rientrasse in alcuna delle due categorie, ma a volte il perdono è più una cosa per sé che per la persona a cui lo si concede.

«Sei speciale.» commentò il ragazzo, sentitamente, prima di accarezzarle gentilmente entrambe le guance. «Dico sul serio, Elena.»

Si chinò a baciarle la fronte, la punta del naso, il viso lì dove non lo bloccavano le sue mani, e lei era sicura che l'avrebbe fatto anche con le labbra.

Ma non lo fece.

«Guarda un po', è mezzanotte passata.» le sussurrò, invece, sopra la bocca, e sulla sua erano gli occhi di Elena.

«Oh, allora Buon Natale.» lo disse nemmeno fosse stata una presa in giro, poi gli si aggrappò al colletto. «Adesso, però, baciami.»

Si tirò su sulle punte, ma lui rise.

«E la sorpresa?» le chiese, come se avesse voluto ricordargliela.

Ma lei se la ricordava piuttosto bene, solo che non le importava, non in quel momento in cui c'era una prospettiva ben più appetibile ad attenderla.

«Ho aspettato finora, posso aspettare ancora un po'.» tagliò corto, prima di tirargli di nuovo il colletto della camicia perché si piegasse verso di lei. «Baciami

Quella era forse l'unica cosa su cui non intendeva attendere nemmeno un secondo.

Damon le sorrise, da una parte sorpreso dall'altra divertito di come facilmente potesse riordinare le sue temporanee priorità. «Buon Natale, piccola mia.» fu un sussurro sulla sua bocca, prima che facesse proprio ciò che lei gli aveva chiesto, e con immenso piacere.

La coperta le cadde dalle spalle, nel momento in cui Elena circondò quelle di lui con le braccia, nascondendo un mormorio estasiato contro le sue labbra: più la baciava, più le piaceva.

Fu per la sua mano incredibilmente calda che, nonostante il freddo, non sentiva alcun brivido sulla schiena scoperta, che non fosse quello provocato dal fatto che la stava toccando.

«Stasera sei troppo provocante.» mormorò lui, mentre la spingeva contro il muro di casa sua, tra la finestra della cucina e la porta. «Non ce la faccio a tenere le mani a posto.»

«Solo ancora per poco.» mormorò lei, col fiato corto. «Non ce la faccio nemmeno io.»

Rimasero abbracciati lì, ancora per un po', a respirarsi addosso aspettando che la tensione passasse, peccato che non faceva altro che crescere, nell'attesa, col cuore che batteva forte, l'uno schiacciato contro l'altro.

«Per non farmi agonizzare mentre il nonno si decide a smettere di guardare la tv...» fece Elena, facendo scorrere lo sguardo sul suo viso con lentezza. «Potresti parlarmi della sorpresa.»

«Posso fare di meglio.» replicò Damon, e sfoderò il suo sorriso a metà. «Posso mostrartela

Curiosa, la ragazza seguì la mano di lui che si infilò nella tasca interna della giacca, prima di tirarne fuori un pacchetto, incartato con una carta blu, il nastro era grigio opaco, ed era ben illuminato dalla luce che sovrastava le loro teste, da sopra la porta.

«Non dirmi che è un altro regalo di Natale.» sospirò lei, intenerita, spostando gli occhi di nuovo in quelli di lui.

Damon scrollò le spalle, con finta noncuranza. «Se vuoi, non te lo dico.»

«Mi stai viziando.» gli fece notare, prima di stringere di nuovo le braccia che aveva allentato per permettergli di muoversi e spalmargli l'ennesimo bacio sulla guancia. «Sono facile da viziare, quindi non abituarmi.»

«Forse mi piace farlo.» ammise il ragazzo, ma piano, quasi che avesse dovuto assicurarsi che non riuscisse a sentirlo nessun altro.

Lei non poté trattenere un sorriso deliziato, mentre mormorava un «Grazie, amore.» tutto timido, prima di afferrare il pacchetto e rimanere pietrificata.

Non le aveva solo fatto qualcosa come tre regali di Natale, dopo averle preparato il pranzo, fatto passare il pomeriggio migliore della sua vita, condito anche da una merenda niente male, per non parlare del salvataggio dalla festa peggiore dell'anno, certo che no.

Le aveva preso qualcosa in gioielleria.

«So già che non dovevi.» gli disse, perciò.

L'unica cosa che aveva fatto per lui era stato un orologio, uno che aveva già: l'aveva solo portato a riparare, lei non aveva idea di cosa regalare a un ragazzo, perché a Matt erano sempre andati bene dei giochi, o delle palle da football firmate da gente che trovava suo padre una volta all'anno quando andava a qualche congresso medico in una qualche città grandissima, e bastavano.

Ma non aveva idea di cosa portare a uno come Damon, non aveva idea di cosa potesse desiderare.

Non poteva evitare di sentirsi da meno.

«Invece sì.» ribatté lui, accennando al pacchetto con la testa. «Apri e saprai perché.»

Nemmeno lo sapeva, Elena, il motivo per cui fosse così nervosa: non era il primo regalo che riceveva da parte sua, ma chissà perché aveva la sensazione che fosse importante. Che fosse quello il regalo vero.

Si affrettò a tirare via il nastro e a staccare lo scotch.

Sotto c'era una scatola rettangolare, blu notte, con il simbolo della gioielleria della città stampato in cima, il che portò Elena a chiedersi quale cifra astronomica dovesse aver speso per lei, dato che il proprietario non era famoso per i suoi prezzi economici.

La aprì, piano.

«Ommioddio.» mormorò, estasiata. «È bellissimo.»

Lo guardò di nuovo, stavolta commossa, e perché si sentiva in colpa: il suo regalo non era nemmeno lontanamente paragonabile.

«Ehi, ehi.» preoccupato, Damon la prese per le spalle. «Perché cavolo piangi? Se non ti piace si può cambiare, okay? Non fare così, non so mai cosa devo fare quando fai così.»

Ma lei, credendo che se avesse aperto la bocca avrebbe singhiozzato come una stupida, scosse semplicemente la testa: non l'aveva detto per cortesia, era davvero la cosa più bella che avesse mai visto.

«Cosa c'è?» le chiese, gentilmente, e con una carezza si portò via l'unica lacrima che aveva versato.

«Nessuno mi aveva mai regalato niente del genere.» riuscì a dire dopo, lei, tirando su col naso, e lasciando andare una risatina nervosa. «E... io praticamente non ti ho regalato niente, e tu...»

«Elena.» la interruppe lui, piazzandole una mano sulla bocca. «Piantala di dire scemenze: non ha importanza se pensi che per me l'orologio non sia stato abbastanza, perché lo è. Tu sei... diavolo, sei la cosa migliore che mi sia capitata nella vita.»

Spiazzata, lei rimase in silenzio, a bocca aperta. Fece vagare lo sguardo appannato e lucido dovunque tranne che nel suo, troppo intenso, troppo tutto.

«E se hai tre regali è stato perché non sapevo cosa comprare.» continuò, con un sorriso di scuse. «Ho chiesto ai miei amici e mio fratello, e mi hanno mandato in direzioni diverse, poi ci si è messa anche la mia idea, e... non sapevo quale fosse la migliore così le ho scelte tutte.»

E sperava di aver fatto quella giusta, perché non riusciva a capire, dalla faccia rossa per lo sforzo di trattenere le lacrime della sua ragazza, se ci aveva preso bene. Il pupazzo era stato una specie di jackpot: le era piaciuto davvero, e anche il completino l'aveva apprezzato.

Ma non c'era niente che fosse stato il regalo.

«Non volevo che ci restassi male.» concluse.

Lei sbuffò per scacciare l'istinto di piangere ancora e scacciò via un'altra lacrima traditrice. «Non so... cosa dire.» ammise, colpita. «Che ti amo lo sai già, e mi sembra troppo poco per rispondere a quello che hai detto tu ora.»

Abbassò di nuovo lo sguardo sul suo braccialetto nuovo: era di metallo, ma non del genere che avrebbe definito una 'patacca', certo che no: non solo Damon era il ragazzo più dolce e sensibile del pianeta, aveva anche gusto in fatto di biancheria intima femminile e gioielli, perché la perfezione non esiste.

Col cavolo, ce l'aveva davanti. Sua nonna avrebbe detto che non era solo quello, era anche bello, ricco, alto, muscoloso ma non più così single come quando l'aveva incontrato lei.

Erano due sottili fili di metallo, senza chiusura, abbastanza grandi per farci entrare il suo polso senza dubbio, e facevano da sostegno a dei fiori bellissimi, forse di Swarovski, lei non se ne intendeva, ma comunque luccicavano, di una luce tra il blu e il viola. Il centro era un puntino giallo.

«Posso metterlo?» gli chiese.

Damon rise. «Non te l'ho comprato perché lo tenessi lì.»

L'aiutò, dato che Elena era timorosa di fare le cose troppo in fretta e di far saltare, magari, qualche petalo e rovinare il regalo subito dopo averlo ricevuto.

«L'idea del gioiello era la tua, vero?» gli chiese, a un certo punto, dopo aver ammirato come le stesse bene anche al polso, non era pesante, affatto, anzi.

«Come fai a dirlo?» volle sapere lui, stupito che ci avesse preso con tanta precisione. Non sembrava che si aspettasse una risposta, ma che fosse in attesa di una conferma.

«Perché l'hai tenuto per ultimo.» spiegò lei, con semplicità. «A te piacciono le entrate ad effetto.»

Di nuovo, il ragazzo si ritrovò a ridere. «E non è tutto.» le confessò, sornione. «Devi ancora scavare nel sacchetto per il resto.»

Per mascherare quanto in realtà le facesse piacere – perché andava ben oltre il normale –, Elena alzò gli occhi al cielo.

«Chi l'avrebbe mai detto...» commentò, maliziosa. «Damon Salvatore un romanticone.»

Piegò la carta per sbirciare dentro al pacchetto che, ancora una volta, non aveva voluto strappare, e per fortuna o avrebbe rischiato di perdersi il foglietto verde, con la foto della pianta e delle parole in bianco, che accompagnava il suo bracciale.

Scoprì che i fiori non erano casuali, che erano Nontiscordardime e che avevano un significato particolare.

Elena non si era mai interessata del significato dei fiori: sapeva più o meno le cose basilari, rose rosse, amore, rose gialle, invidia. O qualcosa del genere.

Poi finiva lì, non aveva nemmeno idea di cosa volesse dire un nontiscordardime.

«Puoi dirlo se è melenso.» le concesse, quando vide che aveva finito di leggere la spiegazione che gli aveva rifilato l'ennesima commessa, e che poi aveva anche infilato nel pacchetto. «L'ho pensato anche io.»

«Al contrario, sei molto, molto dolce.» commentò Elena, invece, e non suonò mai più seria. Era una cosa che superava la commozione, non esisteva una parola per descrivere il suo stato d'animo, e neanche tutte le lacrime del mondo avrebbero potuto spiegare cosa le aveva scatenato dentro. «Non penso che nessuno, Damon, nessuno mi ami nel modo in cui mi ami tu.»

Le aveva regalato un braccialetto con i fiori dell'amore. Non riusciva a dirglielo a parole, ma non per questo aveva perso l'occasione per tenerlo per sé.

E non per questo era meno bello o meno vero.

Seppe, in quel preciso istante, che sarebbe stata sua per sempre. Non ci sarebbe potuto essere evento, litigata, intromissione, catastrofe naturale che avrebbe potuto cambiare le cose: non avrebbe mai smesso di amarlo tanto quanto lo amava allora.

Forse era una sicurezza che aveva avuto sempre, dal giorno in cui l'aveva incontrato, ma se prima, da qualche parte, c'era stata una minuscola porzione di lei che ne aveva paura, adesso non più.

Adesso era solo felice, come non era stata mai in tutta la vita.

«Ora, sei mia.» sottolineò lui, ridendo sommessamente.

«Sempre.» confermò lei, senza nemmeno bisogno di pensare che non aveva idea se gli stava dicendo se lo era sempre stata o se lo sarebbe stata sempre, o entrambe.

Come senza pensare le loro labbra si ritrovarono ancora, alternando momenti di calma a momenti di frenesia, in cui le mani non riuscivano a stare ferme in un posto, che fossero capelli, guance, fianchi, schiena.

Avevano bisogno di sentirsi sotto le dita in ogni modo possibile.

Elena gli tirò fuori la camicia dai pantaloni per infilarci sotto le mani, incapace di toccarlo ancora da sopra i vestiti, e si guadagnò un ansito da parte di Damon che fu costretto a staccarsi da lei, non senza averle rivolto uno sguardo di fuoco che sembrava volerle, invero, incendiare i vestiti.

«Oh, siete qui.» li interruppe la voce di Grayson, proprio alle spalle di Damon. Lui, sua madre e Jeremy erano appena scesi dall'auto, ancora nel vialetto.

Nessuno dei due aveva sentito la macchina.

Il ragazzo girò leggermente la testa, ed Elena si sporse dalla sua spalla, mordendosi l'interno della guancia perché sperava fosse più presto: adesso come faceva a far salire Damon in camera sua, con suo padre che sarebbe rimasto lì a sorvegliarli come un gendarme?

«Ehi...» li salutò lei, debolmente. «Siete già tornati?»

«Tesoro, è l'una passata.» le fece notare sua madre, lanciando un sorriso gentile al suo ragazzo. «E non è stato molto educato da parte tua lasciare la festa senza salutare i Mikaelson.»

Elena fu costretta a prendersi un labbro tra i denti per non ridere, non appena incontrò gli occhi del suo fidanzato: non era davvero una cosa a cui era riuscita a pensare quando aveva saputo che lui era là. Esther e la sua adorabile famiglia erano veramente l'ultimo dei suoi pensieri e/o preoccupazioni.

Senza giustificarsi in alcun modo, si strinse nelle spalle.

«Stavi andando a casa, Damon?» domandò il padre di lei, con quello che non voleva essere un invito a togliersi di mezzo ma che lo sembrò ugualmente.

«Grayson.» fece sua moglie, infatti, esasperata. «Lascia stare i ragazzi, cosa vuoi che facciano sul portico di casa?»

Con un gesto lo invitò ad entrare e, se possibile, ad essere lui quello che si toglieva dalle scatole: d'accordo che diventava più irritabile quando era molto stanco, e Damon non gli andava a genio già quand'era riposato, ma non le sembrava il caso di mettere fretta a due ragazzi che non si sarebbero visti per tutte le vacanze di Natale ed erano abituati, come loro, a stare praticamente sempre insieme.

«D'accordo.» concesse l'uomo, che non aveva nessuna voglia di discutere. «Allora tu ti assicuri che Elena rientri perché io me ne vado a letto. Buonanotte a tutti.»

La ragazza non poté credere alle proprie orecchie, infatti si scambiò un'occhiata perplessa con sua madre, e anche col suo ragazzo. Jeremy borbottò un blando 'buonanotte' e sparì su per le scale, insieme a suo padre. Anche il nonno doveva essere andato a letto perché la casa era buia.

«Io stavo rientrando.» tentò Elena, in un tentativo di mandare a letto anche sua madre.

Miranda inarcò un sopracciglio, con la faccia di chi ti sta chiedendo se vuoi prenderlo in giro. «Sì, chiuderai la porta e, ammesso che lui non ti venga dietro, lo farai entrare dalla porta della cucina.» fece, facendo sorridere maliziosamente Damon e arrossire sua figlia fino alla radice dei capelli.

Colpita e affondata.

«Lascia perdere le scuse, ho avuto anche io la tua età.» le ricordò, con l'intento di rimproverarla.

Ma ad uno sguardo triste che si lanciarono i ragazzi al pensiero di doversi salutare subito quando avevano pensato di avere ancora tanto tempo, Miranda alzò gli occhi al cielo, ma verso se stessa.

«Puoi salire a una condizione.» si rivolse a Damon, con un sospiro. «Non sentirò nessuno dei due fare un rumore. Nessuno. Dei. Due. E Grayson non dovrà mai saperlo, o passeremo tutti un brutto momento. È chiaro?»

Elena si affrettò ad annuire in modo febbrile, che servisse da garanzia, come sottoscrizione di quell'accordo alle spalle di suo padre.

Non che la cosa la facesse sentire la persona migliore del mondo, ma non c'era davvero tempo per pensarci: le opzioni erano due soltanto, con o senza Damon, e per una volta sarebbe passata sopra alla sua decisione di non mentire mai più. La faceva sentire meglio il pensiero di avere la complicità di sua madre.

«Ottimo.» commentò la donna, infine. «Perché io non so niente e non ho visto niente.»

Li osservò di nuovo entrambi muovere la testa su e giù, e stavolta anche sua figlia era un po' più calma, e Miranda sperò solo di aver preso la decisione giusta a fare ad entrambi quella concessione, per quanto avesse capito, già prima, che quei due non erano certo rimasti a giocare a scacchi.

«Be', buonanotte.» li salutò così, prima di indugiare su altri pensieri e ritirare tutto ciò che aveva detto, mandando Damon a casa sua.

Anche perché sospettava che non avrebbe funzionato.

Una volta che fu sparita per le scale, dato che non doveva vedere nulla, lei e Damon si affrettarono a imitarla, per paura che, se avessero aspettato ancora solo un momento, Grayson sarebbe sbucato fuori dalla camera da letto e li avrebbe beccati sul fatto.

«Mi sento tanto 007.» fece Damon, una volta che furono entrambi al sicuro in camera di Elena.

Lei, dispiaciuta, sospirò. «Scusa.» mormorò, contrita. «Lo so che non è carino farti salire come un ladro... ma sai com'è papà. Ha detto che possiamo uscire insieme, ma già ieri sera non era favorevole a farmi tornare tardi durante il finesettimana, e non credo che approverebbe... be', questo

Indicò lo spazio tra se stessa e il suo ragazzo e il letto, per sottolineare l'esatto aspetto della cosa che poteva non piacergli.

Damon scosse le spalle, con totale noncuranza: non gli importava di salire in camera della sua ragazza nemmeno fosse stato un clandestino in una nave di contrabbandieri, anzi, dava a tutto quello il fascino del proibito.

«Ti prendo dei vestiti più comodi.» fece allora lei, quando non ottenne nemmeno una parola in risposta.

«Mi serviranno?» le domandò, accattivante. «Avevo capito che ci divertivamo un po'.»

Lei aprì l'armadio, alla ricerca del suo pigiama e dei soliti vestiti di Jeremy da prestargli. «Lo so. E vorrei.» ammise, perché stava morendo dalla voglia, anche se erano stati interrotti dall'arrivo dei suoi genitori. «Ma hai sentito che ha detto la mamma. Non un suono, e io non corrispondo esattamente alla descrizione, credo che i tuoi genitori questo se lo ricordino piuttosto bene.»

«Già...» concordò Damon, soffocando una risata. «Non vogliamo svegliare Grayson.»

Era vero, pensò Elena, che suo padre aveva il sonno pesante, ma era meglio non tentare la sorte, per quanto sarebbe stata una tortura non da poco dormire nello stesso letto con Damon con la consapevolezza che non poteva allungare le mani come avrebbe voluto.

E avrebbe anche potuto dire che non vedeva l'ora che si trasferisse nel suo nuovo appartamento, ma non era la verità: non sarebbe cambiato niente, perché lei non aveva il permesso di dormire da lui e non intendeva mentire ai suoi genitori.

Che gran casino.

Sbuffò, tirando fuori gli indumenti per entrambi. Passò i suoi a Damon che, una volta che lei voltò la schiena, li gettò su una sedia: promise a se stesso che non ne avrebbe avuto bisogno.

Tra l'altro, non avrebbe nemmeno potuto, visto il modo il cui Elena si raccolse i capelli su una spalla per abbassarsi la cerniera dell'abito.

Non glielo lasciò nemmeno fare.

«Lascia che ti aiuti io, con questo vestito...» le baciò la spalla scoperta, le mani sulle sue braccia, poco sopra ai gomiti. «È da quando ti ho rapita dalla festa che voglio farlo. Te l'ho già detto quanto sei bella, stasera?»

Lei si premette con la schiena sul suo petto, occhi chiusi e labbra schiuse, la schiena leggermente inarcata, per offrirgli quanto più possibile il collo.

«Mmh... sei un ruffiano.» commentò, piano, ma estasiata e già incapace di sottrarsi ai suoi baci.

La cerniera andò giù con facilità, dopo un attimo, il vestito le scorse lungo il corpo aiutato da lei stessa che se lo tirò sui fianchi per farlo arrivare a terra e non averlo più tra i piedi, e così facendo era già praticamente nuda.

Col fiato corto e una certa dose di fastidio nel sentire ancora la sua camicia contro la pelle, Elena si girò interrompendo il disegno invisibile che le stava tracciando addosso.

«Questa via.» strattonò i lembi della camicia e i bottoni fuggirono dalle loro asole, dandole l'opportunità di gettare quella camicia lontano.

Così era decisamente meglio.

«Se continui così non mi rimarranno più camicie.» commentò Damon, ma non sembrava granché dispiaciuto.

Dopo, si affrettò a slacciarsi la cintura, un sorriso sornione che gli deformava le labbra: Elena era straordinariamente timida fuori dal letto, ma dentro era un'altra faccenda, e non poteva certo negare che la cosa gli stimolasse istinti primitivi piuttosto espliciti. Era tremendamente eccitante, la sentiva tremare di aspettativa, sotto le sue mani, e quando finalmente riuscì a stenderla sul letto, ormai entrambi liberi dell'impiccio dei vestiti, non ebbe nemmeno bisogno di toccarla per sapere che era pronta.

«Damon.» lo chiamò. Era un misto di lamento e preghiera. «Non replichiamo la scena di casa tua.»

Lui rise, e si piegò su di lei, incerto su cosa intendesse. «Cioè?» chiese spiegazioni, con voce roca, sentendo il suo respiro andare in pezzi.

«Ricordati di mio padre.» ansimò lei, il petto che si alzava e si abbassava in modo spasmodico, toccando a intermittenza il suo, cosa che ebbe il potere di renderla più frustrata di quanto già non fosse. «Facciamo piano.»

Artigliò le mani dietro al suo collo, pretendendo la sua bocca sulla propria e soffocò un gemito contro di essa, quando le sue dita cominciarono a stuzzicarla lungo tutto il corpo, e non sapeva più come fare per non lasciarsi andare a sospiri liberatori, non appena la lasciò per accompagnare coi baci i suoi tocchi maledettamente inebrianti.

Mio Dio, pensò la ragazza, portando una mano alla fronte per spostarsi i capelli dal viso e avere una scusa per coprirsi la bocca con quella. Non doveva svegliare nessuno, o la nottata sarebbe finita ben diversamente da come l'aveva immaginata, e a giudicare da come stava bruciando il suo corpo, dubitava che sarebbe riuscita a sopportarlo.

Anzi, era sicura che sarebbe impazzita se lui avesse atteso un altro attimo, prima di darle sollievo.

«Ti prego.» sussurrò, sollevandosi quel tanto che le bastò per raggiungere di nuovo la sua bocca. «Ti preg-o...oh.»

Un grido smorzato ma piuttosto alto le uscì involontariamente dalla gola, spontaneo, nell'esatto istante in cui i loro corpi si fusero, Elena aveva il dubbio che non si sarebbe mai abituata alla sensazione che le dava averlo nell'intimo: diventava qualcosa di veramente suo, in modo completo, erano così uniti che le era impossibile – se anche ci si fosse messa d'impegno, ma la sua testa non era esattamente funzionante al cento percento – capire dove stesse la differenza tra lei e lui.

Aveva sempre pensato che il modo di dire "diventare una cosa sola" fosse un eufemismo, un modo per dire gentilmente che erano i corpi ad essere legati, ma ogni volta che Damon si ritirava per poi tornare a restituirle il pezzo di anima che portava via con sé insieme a un piacere devastante, Elena sapeva che non era solo questo.

Scese con le mani lungo la sua schiena, lenta e lasciva, il suo bacino che andava incontro a quello di lui al ritmo che aveva deciso per entrambi, e che lei lo forzò a sistemare conficcandogli le unghie proprio nel fondoschiena. Non aveva intenzione di fargli male, ovviamente, e la cosa non sembrò nemmeno dispiacergli dal ringhio animale che gli tirò fuori.

E dopo fu soltanto estasi: non capì proprio più nulla, sapeva solo che stava continuando a baciarlo, mentre si si perdeva in lei, facendole scoprire cose che nemmeno sapeva di volere, come nessuno era mai stato in grado di fare prima, in un modo che sembrava fatto apposta per lei, e non si capacitava di come capisse perfettamente come fare cosa e quando, il tempo che ci metteva lei a pensarlo.

Gli si aggrappò addosso anche con le gambe, e riuscì a sentirlo più a fondo, aggiustando l'angolazione del bacino. Non poteva credere che esistesse un piacere così perfetto.

«Damon...» piagnucolò, piano. Era arrivata al limite, faceva quasi male, aveva bisogno che il nodo che sentiva alla base dello stomaco si sciogliesse. «Oh, Damon...»

E capì anche questo, Damon, proprio perciò fece scivolare una mano tra i loro corpi: per permetterle di lasciarsi andare come voleva, lui non avrebbe resistito molto di più. Lo scosse una risatina, al suo grido mal trattenuto per quella mossa che non aveva previsto, gli occhi spalancati, le guance così rosse che riusciva a vederle anche alla debole luce della luna.

Damon non aveva mai avuto tra le mani niente di più perfetto di Elena.

E fu con quella consapevolezza che cedettero entrambi, non consci del fatto che lo stesso pensiero aveva attraversato le loro menti.

«Aspetta.» lo pregò, non appena fece per stendersi di fianco a lei. Lo trattenne su e dentro di sé ancora per un po', godendosi quella sensazione di incredibile intimità, nel silenzio della notte.

Rimasero così, per un po', finché Elena non ebbe raccolto abbastanza fiato per parlare ancora.

«A che ore parti?» gli chiese, quindi.

Anche a Damon ci volle qualche secondo per riprendersi: «Perché?» fu la sua domanda, divertita, ma ancora senza fiato. «Stai valutando se abbiamo abbastanza tempo per un prossimo round? Sei insaziabile, ragazzina!»

Elena mise il broncio, e gli diede un pizzico ben assestato sull'avambraccio che lo fece spostare sull'altro lato del letto con un lamento blando, fin troppo presto per i gusti di entrambi.

«Sei un idiota!» lo rimproverò, quella smorfia offesa che durò giusto il tempo che il ragazzo ci mise a piegarsi per darle un bacio piccolo. «Mi stavo solo chiedendo tra quanto ci dobbiamo salutare per davvero...»

Quando lo confessò il tono era basso e più dolce di quanto si sarebbe mai aspettato dopo aver ricevuto una simile dimostrazione di irritazione.

Damon non riuscì a esprimere quanto adorasse quel modo che aveva di dimostrare di tenere a lui, così si affrettò a stringerla a sé, senza però poter trattenere una risatina sommessa data dalla sua espressione buffa.

«Tranquilla, sto qui con te ancora per un po'.» la rassicurò, facendole una carezza gentile tra i capelli, e permettendole di appoggiare la testa contro di lui. «Puoi dormire, se sei stanca, non sparisco. Promesso.»

«Damon...» sussurrò la ragazza, alzando lo sguardo verso il suo, i nasi così vicini che si sfioravano. «Non innamorarti di nessun'altra mentre sei via.»

Come se questo fosse possibile pensò lui, sconcertato da una simile richiesta. Rimase a fissarla per qualche secondo, disorientato, e la vide praticamente arrampicata sulla sua spalla, con entrambe le mani, come se fosse stata un cuscino, il suo sguardo da cerbiatto spaurito puntato nel suo, in cerca di qualche conferma che gli sembrava le stesse dando da tutta la sera – da tutto il giorno, da tutto il tempo –, proprio perché sapeva che sarebbe stato via per un bel po'.

Ma quella era Elena, e per quanto lui potesse cercare di rassicurarla, non c'erano parole che avrebbero mai potuto accantonare i suoi dubbi, se si trattava di se stessa.

«Ti direi lo stesso, ma so che è impossibile, quindi...» scherzò, quindi, dandole una testata leggera, alla sua occhiata di rimprovero. «Scema. Ancora non ti fidi?»

Lei distolse lo sguardo, dubbiosa. «Non è di te che non mi fido. È solo che mi preoccupa se qualcuna...»

«Dovesse guardarmi il culo. Lo so, è da urlo.» la interruppe, di nuovo per non lasciarle fare discorsi troppo seri e che comunque non avevano nessun senso. Era da un bel po' che aveva smesso di guardare le altre ragazze – non che non sapesse più riconoscere quelle attraenti, quantomeno quelle belle: non era semplicemente più un interesse prettamente fisico, era più una constatazione sterile. «Non lascerò che nessuna oltre te tocchi nemmeno un centimetro di questo corpo meraviglioso, te lo prometto.»

Non le avrebbe mai potuto confessare che non si vedeva più a fare sesso occasionale, non ora che aveva lei e che era conscio di quanto fosse profondamente diverso andare a letto con una ragazza per cui aveva sincero interesse, e non solo sotto le lenzuola.

La smorfia che si guadagnò, gli fece alzare un angolo delle labbra. «Non avevamo detto che la dovevi smettere di leggermi il diario?»

«I buoni propositi per l'anno nuovo.» fece lui, ridacchiando sommessamente. «Ero a caccia di complimenti, il tuo diario ne è pieno. Tu, al contrario, non me lo dici mai che ho un bel culo.»

Finalmente le strappò un sorriso. «Ti amo.» fu un sussurro piccolo, emozionato e timido, dopo il quale si nascose nell'incavo del suo collo, lasciando che lui la coccolasse un po'.

Il ragazzo si rese conto che forse era quello il problema: non gliel'aveva mai sentito dire, sebbene il braccialetto gliel'avesse regalato con quell'unico scopo di non dubitarne mai.

«Anch'io.» le mormorò in risposta, perciò, dopo un momento, ma lei non si mosse o diede alcun segno di averlo sentito, e quando Damon si scostò per osservare la sua reazione, scoprì che dormiva già. «Non potrei nemmeno iniziare a spiegarti quanto.»

Appoggiò le labbra delicatamente sulla sua fronte per non svegliarla, e pensò che quello era davvero un buon modo per addormentarsi.

«Buonanotte, piccola mia.» fu un sussurro che sentì solo il buio.

Continue Reading

You'll Also Like

43.7K 2.1K 57
Due semplici ragazzi, tormentati da ciò che hanno dentro. Entrambi pieni di paura, ansia e panico. Entrambi presi a schiaffi in faccia dall'amore. TW...
4.8K 244 24
𝐈𝐧𝐬𝐭𝐚𝐠𝐫𝐚𝐦 𝐚𝐧𝐝 𝐫𝐞𝐚𝐥 𝐥𝐢𝐟𝐞 - Mavie e Pablo si erano avvicinati sempre di più, sembrava che tra loro stesse nascendo qualcosa di spec...
47.4K 2.5K 27
"I sogni a volte si trasformano in incubi, e tu sei stato decisamente il mio incubo migliore" A Torino, Sofia crede di star finalmente realizzando i...
21.6K 1.5K 26
Torino, un' estate diversa dalle solite 29/06 --- 🥇 in #dusanvlahovic