32 - CREDI NEI FANTASMI?

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«Cosa siamo venuti a fare qui?», domando, un po' smarrita, un po' irritata dai suoi modi.

«Mi serve il cellulare», dice avvicinandosi al comodino.

«E perché ti serve il cellulare?».

«E tu perché non sei capace di fare meno domande?».

Ignoro la sua risposta acida e incrocio le braccia al petto, aspettando.

Nikolas agguanta il telefono che tiene sul mobiletto accanto al letto, apre il cassetto e afferra qualcos'altro che non riesco a vedere, poi torna da me. Prima che possa aprire bocca, mi prende di nuovo la mano con pochi complimenti e mi ritrascina in corridoio.

Imbocchiamo nuovamente le scale diretti verso l'alto, e nel frattempo lui fa partire una chiamata. Non so a chi, non sono riuscita a vedere in tempo lo schermo.

Dall'altro capo rispondono dopo appena un paio di squilli, anche se è notte fonda.

Sento una voce – troppo bassa e lontana per riuscire a riconoscerla – chiedere qualcosa.

Nikolas mi stringe impercettibilmente la mano mentre risponde. «Vieni a scuola. Subito».

Dall'altra parte seguono sì e no due parole, poi Nikolas chiude la chiamata senza spiegare assolutamente nulla alla persona con cui ha parlato  e si infila il cellulare nella tasca del pigiama, continuando a camminare così spedito che persino io, con le mie gambe lunghe, fatico a stargli dietro.

«Chi hai chiamato?», chiedo strattonando un po' il braccio nella speranza che rallenti e mi degni di uno sguardo.

Ma lui procede imperterrito, divorando scalini alla velocità della luce. «Tuo padre».

~ ☆ ~

Fisso il muro davanti a me, arrabbiata e sempre più confusa. Il pavimento di pietra è freddo sotto il mio sedere, e tengo le braccia incrociate così strette che i muscoli degli avambracci cominciano a indolenzirsi.

Ma non m'importa, con gli occhi continuo a trapassare Nikolas da parte a parte mentre fa avanti e indietro come un'anima in pena nel corridoio stretto e buio del quinto piano.

«Perché mi hai portata quassù?».

«Smettila di chiedermelo».

«Perché hai chiamato mio padre?».

«Smettila di chiedermi anche questo. È la quinta volta da quando siamo saliti».

«E tu rispondimi, allora!» esclamo esasperata, battendo le mani sul pavimento dove mi sono seduta nell'attesa.

Nell'attesa di cosa, poi, non l'ho ancora capito. Stiamo aspettando papà, d'accordo, ma perché?

«No, ti risponderà Eugen quando arriverà».

Mi mordo l'interno della guancia per non mandarlo al diavolo. Sposto gli occhi verso la porticina di legno accanto a me, quella della mansarda, quella che Nikolas continua a fissare a intervalli regolari da quando abbiamo raggiunto questo piano.

La luce pallida della luna la illumina di sbieco, entrando da una delle finestre prive di vetri che si trovano quassù, ad un'altezza così vertiginosa sopra lo strapiombo che solo gli uccelli possono arrivarci. Non c'è stato bisogno che Nikolas lo dicesse ad alta voce, è ovvio che siamo qui per quella porta.

Lo capisco dal suo sguardo. Lo capisco dal modo in cui ci cammina davanti consumando il pavimento, nervoso. E sento una strana inquietudine montarmi dentro.

«Cosa c'è lì dietro?», trovo il coraggio di chiedere, la voce arrochita e il dubbio di non volerlo sapere davvero che mi rosicchia lo stomaco.

Nikolas si ferma, lancia un'occhiata veloce alla porta, la mano con cui si stava strofinando la mandibola si blocca a mezz'aria. Un macigno si deposita tra noi, pesante di preoccupazioni e incertezze.

DRAGOSTE - insegnami ad amareWhere stories live. Discover now