19 - RISCHIARE

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Nikolas


L'orologio appeso accanto alla libreria in camera mia segna le sette. Tra poco sarà pronta la cena, ma non ho tutta questa fretta di scendere.

Stasera il tavolo degli insegnanti sarà più sgombro del solito. Alcuni hanno deciso di scendere in paese, la proposta è partita da Karla.

Ogni tanto lo fanno, perché, comunque, a controllare gli studenti restano i bidelli, che hanno i loro momenti di svago in tempi diversi dai nostri. Ed Eugen ci tiene che anche gli insegnanti si prendano una pausa qualche volta; vivere costantemente chiusi tra le mura del castello può essere pesante.

Una volta andavo anche io con loro, il Fantoma mi piaceva. Quando sono stato assunto aveva appena aperto, era un posto niente male.

Poi ho smesso di vivere. E di uscire il sabato pomeriggio per andare a ubriacarmi in paese con i miei colleghi ho perso ogni voglia.

D'altronde, posso tranquillamente ubriacarmi nella mia stanza, da solo.

È questo il pensiero che faccio, mentre mi rigiro una bottiglia di cognac tra le mani, in piedi accanto alla finestra.

«Non ti starai facendo passare per la testa l'idea di scolartela, vero?», la voce ironica di Eugen mi raggiunge alle spalle.

Gli lancio un'occhiata di striscio, è in piedi accanto alla porta aperta della mia stanza, una mano stretta attorno alla maniglia e il cappotto drappeggiato su un braccio.

«Stai andando a casa?», domando, aggirando la sua battuta non proprio comica. Di solito torna a casa tutte le sere prima o dopo cena, e i weekend raramente rimane a scuola. Questo sabato però aveva delle questioni da sistemare nel suo ufficio.

«Non cambiare discorso, Nik. Metti giù quella bottiglia», replica bonariamente, con un mezzo sorriso calmo ma un tono che riesce a suonare comunque abbastanza deciso.

Io sbuffo e poggio il liquore sul mobiletto accanto a me. Il tonfo fa tintinnare le altre bottiglie e i bicchieri di cristallo. «Contento?».

«Molto. Soccorrerti durante una sbronza di quelle grosse non è nei miei programmi di stasera. A dire il vero preferirei non doverlo fare più, ormai».

Mi lascio uscire un versetto di scherno. Chino il mento e scrollo il capo.

Sapessi che è stata proprio tua figlia a soccorrermi durante l'ultima sbronza. Chissà che cosa diresti, amico.

Cerco di pensare il meno possibile a quella notte. Non mi piace l'idea che Viorica abbia visto quello che ha visto, che mi abbia sorpreso in quello stato. Non mi piace pensare che potrei essermi aperto con lei in un momento di incoscienza. Non voglio che sappia cose della mia vita privata che non ho intenzione di confidare a nessuno. Ma lei non ha mai detto nulla a riguardo, quindi forse, per tutto il tempo, mi sono limitato a vomitare, magari ad insultarla un po'.

Lo spero. Anche se mi ricordo poco.

«E che programmi hai, allora?», domando ad Eugen, sperando di smettere di vedere davanti ai miei occhi l'immagine di sua figlia che mi sorregge mentre sono mezzo morto con la testa sul cesso.

«Sono venuto qui proprio per questo».

Smetto di fissare il vuoto e punto gli occhi su di lui. «Vuoi propormi una cenetta romantica, amico?».

«La cenetta se vuoi te la offro, ma sappi che cucina Marta. È un po' che si diverte a bruciare gli arrosti».

Storco il naso, lui scrolla la testa e sorride. L'istante dopo, si fa incredibilmente serio. Serio come diventa solo quando si tratta di quella cosa.

«Stasera ripetiamo il processo». La sua voce è viscerale, io mi ritrovo ad aggrottare la fronte.

«Di già? Non lo abbiamo fatto solo tre settimane fa?».

«Aumentiamo la frequenza. Sta rispondendo bene, potremmo essere a buon punto. Vuoi venire anche questa volta?».

Annuisco secco. «Sempre».

Agguanto il cappotto che se ne sta abbandonato sulla sedia davanti alla scrivania e lo seguo di slancio in corridoio.

~ ☆ ~

La campagna scorre tranquilla fuori dal finestrino dell'auto di Eugen. È già buio da un pezzo, in questa stagione. Tutto quello che vedono i miei occhi sono campi vasti tinti di scuro, i profili aggrovigliati dei frutteti e le sagome lontane delle montagne sullo sfondo, tutto stagliato contro un celo nero come il petrolio.

I lampioni un po' vecchiotti illuminano il fianco della carreggiata, gettando ombre sui fossi e sui tratti di sterrato che costeggiano la strada.

Tengo il gomito puntellato al finestrino e due dita premute contro le labbra. Stiamo procedendo in silenzio da quando abbiamo imboccato la via asfaltata per scendere dal castello. Cala sempre una sorta di tensione solenne, quando ci prepariamo a fare questa cosa.

«Hai rischiato molto, la sera del compleanno di Karla», dico ad un certo punto, rompendo il silenzio. Perché glielo voglio dire. Perché tutto questo sta diventano molto complicato, la presenza di Viorica a scuola non fa che incasinare le cose, soprattutto perché lui non vuole dirle nulla.

Eugen, accanto a me, sospira, e con la coda dell'occhio lo vedo sollevare le spalle per poi riabbassarle di peso, strofinando i pollici sul volante. «Lo so. Viorica è sempre stata una a cui è difficile farla da sotto il naso. Ma almeno ho avuto il lampo di genio di scambiare le focacce e la torta che avevo nel sacchetto con i bigliettini di auguri. Dai, non sono stato furbo?», mi rivolge un sorrisetto un po' stupido, capisco che sta cercando di fare dell'ironia.

«Furbissimo», lo sfotto. «La torta non ti si è spappolata in tasca?».

«Un po', ma era avvolta nella stagnola, quindi è arrivata su commestibile».

Scuoto la testa, esasperato. «Devi smetterla di arricciare il naso ogni volta che spari balle. Tua figlia lo sa che lo fai».

«Lo so che lo sa. Ma non ci posso fare niente, è un riflesso incondizionato».

Gli lancio un'occhiatina storta. Non sono uno che si impiccia negli affari degli altri, e tutta questa storia è più un affare di Eugen che mio, ma ci sono dentro anche io, e comunque vorrei alleggerirgli un po' il carico. «Io rimango sempre della mia idea. Se le raccontassi tutto...».

«Ho già detto di no», mi interrompe brusco, il tono improvvisamente nervoso.

Alzo le mani in segno di resa. «Okay, okay. Come vuoi, uomo delle menzogne».

Lui mi fulmina con uno sguardo che vuole essere severo, ma "Eugen" e "severo" nella stessa frase sono parole che fanno a cazzotti.

«Sei riuscito ad andare in soffitta, dopo che lei ti ha beccato in corridoio, vero?». Mentre faccio quella domanda, i miei occhi slittano sullo specchietto laterale, puntando ai sedili posteriori, e si incrociano con un altro sguardo.

Eugen, alla mia sinistra, annuisce piano. «Sì, anche se ho comunque dovuto fare il giro lungo per assicurarmi che Viorica pensasse che stessi andando davvero nel mio studio, nel caso fosse rimasta lì a guardarmi andare via. Alla fine dei conti, Karla mi aveva chiesto veramente di portare quei bigliettini al sicuro, dove non sarebbero andati persi. Ci tiene ai pensierini dei suoi studenti».

Anche lui di tanto in tanto lancia un'occhiata allo specchietto retrovisore, e ogni volta sorride rassicurante.

Alle nostre spalle si solleva un breve sospiro, ma nessuna parola. Quelle sono sempre rare.

Eugen gira lo sterzo a sinistra e imbocca la via di casa sua. La strada si fa irregolare e più larga, le abitazioni un po' meno accalcate rispetto a quelle del centro.

La casetta di Eugen è l'ultima prima della fine della strada. Prima che comincino i campi sconfinati e la vallata che si srotola fino al bosco e poi alle montagne.

Si ferma al centro del cortile, alla luce del lampioncino appeso sopra la porta un po' consunta ma ancora solida. Slacciamo le cinture, apriamo gli sportelli.

E nel silenzio della sera, tre paia di suole calpestano il ciottolato che circonda la casa.

DRAGOSTE - insegnami ad amareWhere stories live. Discover now