XXI

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• Ellen •

< Ora mi dici dove sono i ragazzi?> Chiesi io, insistendo. Mi ero seduta sul divano della sala, con una ciocca mossa di capelli tra le mani e le gambe stese sul morbido tessuto.
Aaron si era stravaccato con le gambe aperte sul tavolo della cucina, con il telefono in mano e una bottiglia di birra nell'altra.
Il cellulare sembrava minuscolo tra le sue mani piene di anelli in acciaio.
Si era cambiato gli indumenti, forse per sentirsi più comodo in casa.
< Aaron?> Lo chiamai. Solo in quel momento alzò lo sguardo assonnato dal suo telefono per degnarmi di un briciolo di attenzione.
Si passò una mano fra i capelli.
< Ti risponderò solo se tu risponderai ad una mia domanda.> Mi rispose lui, rimanendo serio e senza staccare il suo sguardo agghiacciante da me.
Io ci pensai su.
Cosa voleva domandarmi?
Qualcosa riguardo mio padre?
Oppure sulla mia famiglia?
Non mi conveniva proprio...
<Okay.> Dissi io, portandomi le ginocchia al petto.
< Aspetta, cos'hai fatto al ginocchio?> domandò lui, spalancando leggermente i piccoli occhi scendendo dal tavolo e dirigendosi verso di me.
Non se n'era accorto?
< Oh, nulla, s... sono caduta. è questa la domanda che volevi farmi?> chiesi io, sarcasticamente.
Non pensavo facesse sul serio, a nessuno tranne a mio padre era mai importato di quando mi facevo male.
< Aspettami qui.> Disse soltanto, abbandonandomi in quella stanza, che mi sembrò immediatamente più piccola e stretta.
S... si era preoccupato per me?
Non mi sembrava così tanto preoccupato per me e la mia ferita, ma sembrava interessato.
Forse non mi odiava così tanto.
Magari provava solo un certo disprezzo per me.

Dopo qualche minuto Aaron mi raggiunse e mi lanciò sul divano un disinfettante, qualche cerotto e due dischetti in cotone, prima di tornarsene seduto sulla penisola della cucina.
< Cosa volevi chiedermi?> domandai io, curiosa di sapere cosa gli passasse per la mente.
Quel ragazzo non era per nulla semplice da capire, ma mio papà mi aveva insegnato a non cercare di capire sempre tutto, sopratutto le persone, queste bisognava tradurle, come una frase in una lingua straniera.
A volte gli atti che le persone compievano, anche quelli più orrendi dovevano essere tradotti.
Perché lo hai fatto, Ellen?
Ricordai le parole di mio padre, quando avevo quasi incendiato la cucina della villa.
Era il giorno del suo compleanno e volevo fargli una sorpresa, preparandogli una torta alla panna, la sua preferita, ma all'epoca non sapevo utilizzare il forno. Lo accesi al massimo, e per fortuna papà tornò a casa prima che il forno esplodesse insieme alla sua torta.
Dopo avergli raccontato tutto, mio papà mi aveva abbracciato e mi aveva chiesto scusa.

< Perché tuo padre e Marc hanno litigato?> chiese Aaron, sapevo che avrebbe riportato in ballo quella storia.
Me lo aspettavo.
Io mi strofinai gli occhi gonfi e feci qualche respiro profondo, prima di iniziare a parlare.
Avevo sempre provato una certa tristezza e disgusto nell'esporre quell'avvenimento, ma non mi ero mai ritirata. Ormai non potevo più farci nulla, la mia mente era stata marchiata, insieme al mio corpo.
Aaron capì che dovevo prepararmi, così aspettò paziente, senza staccare i suoi occhi da me.
< Okay... Beh... Lui si chiama Marc Harris. Mio papà e Marc hanno un rapporto così stretto che nemmeno la morte può separarli. Io ho sette anni, appena compiuti. È un giorno di primavera, Peter è andato con la sua famiglia in una gita in montagna e io non ho nemmeno io compiti da fare. Papà è uscito a fare la spesa e sento il campanello risuonare nelle camere vuote e silenziose della villa. Io sto guardando il mio cartone preferito, si chiama gumball. Mi alzo dal divano e corro verso la porta d'ingresso. Guardo all'occhiello e vedo i capelli mossi e corti di Marc. Sorrido, sblocco la porta e la apro, lasciandolo entrare nella grande sala.
Lui mi saluta e mi chiede se mio papà è in casa, io scrollo il capo, chiedendogli se vuole qualcosa da bere, ma lui dice di no. Mi sorride e mi fa una domanda strana, mi chiede se voglio giocare con lui. Io curvo le sopracciglia e gli domando a che cosa, e lui mi dice di seguirlo in una stanza al piano di sopra, mi porta nella stanza degli ospiti.> Mi fermai un secondo, lasciando che le piccole lacrime salate mi sfiorino il viso. Feci un respiro profondo interrotto da un singhiozzo, mentre vidi che Aaron non aveva staccato lo sguardo da me nemmeno per un secondo. Poi proseguii: < I... io... sono felice, lui si toglie la giacca e le scarpe e si avvicina a me. Gli chiedo se vuole giocare a monopoly, ma lui scrolla il capo, facendo un altro passo verso il mio piccolo corpo. Le... le sue mani mi sfiorano il collo, mentre il suo naso si avvicina ai miei capelli e lo sento respirare profondamente m... mentre mi leva la mia maglietta bianca. Dopo qualche minuto mi accorgo che sono quasi completamente nuda. ...av.. aveva strappato i miei pantaloni preferiti e... e li aveva lanciati dall'altra parte della stanza. Sento... Sento le... le sue m...mani su...su... sul mio co...corpo...> I singhiozzi interruppero il mio discorso mentre Il ragazzo di fronte a me scese dal tavolo e si avvicinò, sedendosi sul divano davanti al mio corpo in preda ai singhiozzi.
< Ei, è tutto okay...> Sussurrò, asciugandomi le lacrime con il pollice della sua mano. < Lui... lui non c'è, non è qui... ci sono io.> Allargò le braccia e me le avvolse attorno al corpo, mentre io non riuscivo a smettere di piangere, come una stupida bambina.
Stringevo il suo busto con le braccia, mentre tenevo il viso nascosto sul suo petto coperto dalla larga felpa.
Aaron profumava di borotalco, sigaretta e vaniglia e non riuscii a staccarmi dal suo abbraccio.
< N... non riesco a... a... a continua...re.> borbottai, asciugandomi le lacrime sulla sua felpa.
Ew.
< Non fa niente, stai tranquilla Ellen.> Mi sussurrò, accarezzandomi la schiena con movimenti circolari che mi tranquillizzarono
Mi ricordava l'abbraccio dolce e amorevole che mi riservava mio papà quando ero più piccola.

AllianceWhere stories live. Discover now