XVIII

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• Ellen •

Parlare.
Non mi era mai piaciuto parlare, esprimermi e comunicare agli altri quelli che pensavo e che provavo dentro. Ero sempre stata dell'idea che dichiarare i tuoi pensieri era come aprire una porta e far entrare la persona di fronte a te all'interno di te stessa e mostrare tutto quello che avevi dentro la tua testa e cuore.
Era per quello che odiavo parlare di me.
Ma amavo aiutare qualcuno a risolvere i suoi problemi. Lo adoravo perché mi piaceva il pensiero che quella persona si fidava così tanto di me da condividere le sue difficoltà.
Ma in quel momento non avevo scampo. Non potevo scappare, come facevo sempre.
Perchè quella volta non si parlava di una persona qualunque, di un semplice amico oppure di mio papà.
Si trattava di Peter.
E a Pet non potevo mentire, o meglio, non riuscivo a farlo con lui.
Con Peter era impossibile persino omettere qualcosa, perché lui se ne accorgeva, si rendeva conto che qualcosa non andava dal primo istante in cui incrociava il mio sguardo.
E questo mi faceva piacere, ma allo stesso tempo mi terrorizzava.

< Per favore El.> Sussurra lui, accarezzandomi la spalla dolcemente.
Io non riuscivo a guardarlo.
I miei occhi erano fissi sulla parete ricoperta di carta da parati illuminata dalle fiamme del camino.
Sentivo il mio cuore battere velocemente nel petto e la mia mano tremare all'interno della tasca della felpa.
< El, guardami.> Mi disse, appoggiando le sue dita gelide sul mio mento e costringendomi a voltarmi verso di lui.
Il mio sguardo, quindi, incrociò il suo.
Non riuscivo a descrivere quello che mi trasmettevano i suoi occhi lucidi.
Nessuno poteva farlo.
Era strano.
Ero sempre riuscita a cogliere anche la minima sfumatura di emozione nel suo sguardo, ma in quel momento non riuscivo.
Probabilmente perché non stava provando nulla, oppure non voleva farmi vedere le sue emozioni, per non farmi sentire in colpa.
Perché se in quel momento lui stava male, era solo ed esclusivamente per colpa mia. Ero stata io a trasmettergli la mia tristezza.
Che schifo di migliore amica che ti sei scelto, Pet.
Mi dispiace per te.
< È okay...> bisbigliò, mostrando un impercettibile sorriso.
È proprio in quel momento scoppiai.
Letteralmente.
Il mio cuore fece qualche capriola e le mie labbra iniziarono a tremare.
Sentii un'amaro in bocca.
Un singhiozzo.
Un'altro.
E un'altro ancora.
Appoggiai la fronte alla spalla di Peter è solo in quel momento le lacrime si fecero sentire.
Ma in fondo erano solo gocce salate.
Perché facevano così male?
Perchè a me?
Non...Non potevano far male a qualcun'altro?
Un clacson di un auto, però, mi fece sobbalzare.
Io e Peter ci voltammo contemporaneamente verso la porta e ci guardammo negli occhi.
Io mi asciugai le lacrime rapidamente, non volevo che sua madre o chiunque ci fosse fuori mi vedesse piangere come una bambina.
Pet si alzò dal divano, dirigendosi a passo felpato verso la porta d'ingresso, la spalancò e osservò l'esterno per qualche minuto, poi si voltò verso di me.
< C'è qualcuno per te.> Mi disse, raggiungendomi.
Erano i ragazzi che mi avevano accolto in casa loro, molto probabilmente.
Pet mi prese per mano e mi portò fuori.
La luce mi accecò gli occhi e dovetti sbatterli qualche volta prima di aprirli definitivamente.
Vedevo Kim all'interno di una macchina nera, insieme a Liam, mentre gli altri tre ragazzi erano appoggiato all'auto.
Quando avevano preso quella macchina?
E dove?
Era loro?
Aaron si stava portando alle labbra una sigaretta, mentre non staccava gli occhi da Peter.
Lo conosceva?
Sembrava di sì.
Mi voltai verso il mio migliore amico e lo osservai.
Lui fece lo stesso, poi mi asciugò ulteriormente le lacrime con i due pollici delle mani.
< Non piangere più, d'accordo?> Mi chiese, facendomi un sorriso e accarezzandomi la schiena.
Mi avvolse due braccia attorno al corpo e mi strinse forte.
Io però non riuscii a ricambiare completamente quel gesto d'affetto, certo, lo stavo abbracciando, ma dentro non provavo più quel senso di sicurezza e felicità che solitamente sentivo.
< Volete muovervi?> Chiese una voce disprezzante alla mia sinistra, facendomi staccare dall'abbraccio di Peter.
Mi voltai a sinistra, scambiando uno sguardo freddo verso la persona che aveva pronunciato quella frase.
< Okay, ci vediamo presto, Pet.> Dissi io, facendo un leggero sorriso.
Lui lo ricambiò e mi salutò, ritornando in casa.
Abbassai lo sguardo e raggiunsi i ragazzi.
Mason mi aprí la portiera dell'auto, ma io non avevo intenzione di entrare.
Aaron, al mio fianco, buttò a terra la sigaretta, schiacciandola ripetutamente con la scarpa, poi mi guardò.
< Ti decidi ad entrare in macchina o vuoi guardarmi ancora un po' ?> Mi chiese retoricamente, io non riuscii nemmeno a ricambiare con uno sguardo disprezzante.
< Penso... penso che ritornerò a piedi.> Sussurrai, abbassando lo sguardo e iniziando a camminare, superando la sua figura, che non si era ancora mossa.
Il piede era ancora sulla sigaretta e le braccia erano incrociate proprio sotto al petto.
< Sali, ragazzina, non scherzare.> Rispose. Sentii il rumore di una portiera aprirsi, ma non mi voltai, continuai a camminare, senza nemmeno rispondere a quel ragazzo arrogante.
< Non rompere i coglioni, sali su questa cazzo di macchina!> Sbraitò Aaron, facendomi sobbalzare.
Non sapevo dove riuscii a trovare il coraggio, ma non mi voltai.
Accelerai il passo e camminai senza fermarmi.
La parola si diffondeva nel mio petto, quel ragazzo mi terrorizzava.
< Sai una cosa? Vaffanculo!> Quella frase fu l'ultima che riuscii a sentire, prima di vedere l'auto sfrecciare rapida alla mia destra.
La mia testa iniziò a dolere, ma non ci badai, in poco tempo raggiunsi la mia villa ed entrai, sentendomi subito al caldo.
Entrai nella mia stanza e impugnai uno dei miei libri all'interno della mia libreria, senza leggere nemmeno il titolo.
Lo infilai nella mia borsa e uscii dalla casa, sentendo immediatamente l'aria pizzicarmi il viso.

L'erba bagnata mi inumidiva le scarpe, provocando un rumore fastidioso ad ogni mio passo.
Le foglie sugli alberi si sfioravano sotto la forza dell'aria fresca di quel giorno, mentre le nuvole che ricoprivano l'immenso cielo non promettevano nulla di buono.
Ero sicura che quella sera avrebbe piovuto, non povero rimanere nel bosco per troppo tempo.
Quando raggiunsi il piccolo campo dove quel giorno stavo passando il pomeriggio, mi sedetti a terra, bagnando automaticamente i miei jeans.
Appoggiai la mia borsa affianco a me e mi sdraiai a pancia in su, osservando il cielo.
E rimasi lì, immobile.
Non mi interessava se qualcuno poteva vedermi, osservarmi oppure chiamare un'istituto psichiatrico, perché la mia vita era finita quando mio papà aveva lasciato l'ultimo respiro e un'insignificante figuraccia non mi faceva nè caldo nè freddo.
Spalancai il libro e iniziai a leggere, mentre il suono delle foglie sugli alberi e degli uccellini che canticchiavano mi teneva compagnia.
Il libro che avevo preso da casa era uno dei miei preferiti, mi ricordavo che quando avevo dieci anni me lo aveva regalato mia zia Carol.
Io e lei avevamo un buon rapporto, anzi, perfetto, ma un giorno, Carol e mio papà ebbero una pesante litigata, una di quelle da cui non si ritorna amici così facilmente e mio papà mi aveva severamente vietato di vederla, fino al giorno della mia morte e oltre.
La cosa mi aveva scioccata, soprattutto il fatto che due persone così legate potessero odiarsi da un momento all'altro.
Un giorno siete fratello e sorella e un altro siete dei semplici estranei.
Non era più venuta a nessuno dei miei compleanni.
Non mi aveva più parlato nè salutato.
Come se un errore di un genitore potesse interessare anche il figlio, come se io avessi litigato con lei.
Cos'avevo fatto di male?
Lei era pur sempre mia zia, non poteva fare finta di non conoscermi.

Non riuscivo a capacitarmi di che ora fosse.
Il vento mi agitava i capelli, mentre mi sentivo come sollevata da terra.
Le gocce d'acqua ticchettavano ripetutamente sul tappeto di erba che si trovava sotto di me, mentre delle leggere scosse mi facevano saltellare frequentemente, come quando Peter alla scuola elementare mi portava in spalla correndo fino a casa mia.
Cosa succede?
I miei occhi erano appesantiti, mentre il sangue nelle mie vene scorreva verso il basso, come quando da piccola tentavo invano di fare la verticale nel giardino di casa mia e sentivo la testa pesare e il viso arrossire.
Solo che in quel momento non stavo svolgendo nessun tipo di ginnastica che mi facesse arrivare il sangue alle punte delle dita fino a sentire un leggero fastidio.
Cercavo disperatamente di tenere gli occhi aperti, ma non ci riuscivo.
Sentivo una leggera pressione sotto la mia schiena, volevo scoprire di più, ma i miei occhi si chiusero e la mia mente si spense, come una lampadina.

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