1. Isabel

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La sveglia alle sei del mattino è così puntuale da risultare persino fastidiosa.
Con ancora gli occhi chiusi allungo una mano verso il comodino tentando in qualche modo di silenziarla.
Non ho chiuso occhio stanotte, il che capita spesso ma non so perché stamattina mi pesa più del solito.
Mi stropiccio gli occhi assonnati e stanchi e poi cerco le pantofole che chissà come non metto mai in ordine, vicino al letto.
Lo faccio ogni sera e poi me ne pento ogni mattina.
Vorrei essere più ordinata, più posata, più precisa, più... più...
Già, vorrei ma non lo sono, in questo momento sono solo una ragazza assonnata e non è il caso né il momento di fare un'introspezione personale.
Mi dirigo verso il bagno e guardo il mio riflesso allo specchio.
I capelli lunghi, lisci e castani sono la prima cosa che guardo, l'unica  cosa che mi piace di me in realtà, forse perché li ho ereditati da mia madre.
Mi lavo il viso con forza tentando di scacciare via il sonno malefico e corro a vestirmi.
Leggings neri, maglia larga per nascondere e scarpe comode.
Scendo giù a far colazione, ovviamente non c'è nessuno in cucina.
Mamma è in camera, dorme profondamente in balia dei sonniferi, ho sentito il suo respiro pesante passando davanti alla sua porta.
Caffè senza zucchero, cereali, spremuta e via, sono già in ritardo, comincio il lavoro alle sette in punto e da casa mia ci metto quasi venti minuti per arrivare da Julian's.

Lavorare in un classico diner americano non era tra le mie aspirazioni di vita, ma dopo il diploma non volevo andare al college, in realtà per giustificarmi dico a me stessa che non potevo.
Se avessi messo me al primo posto ci sarei andata ma come facevo a lasciare mamma da sola?
Non volevo nemmeno starmene con le mani in mano tutto il giorno, così ho fatto la scelta più ovvia.
Ci lavoro da due anni e anche se non è il lavoro dei miei sogni mi permette di mettere qualche gruzzolo da parte.

La jeep di mamma è parcheggiata fuori, salgo su e metto in moto.
Okay, ci siamo, comincia un'altra giornata.
Percorro le strade della cittadina in cui abito, c'è un enorme tranquillità la mattina, una tranquillità che amo.
La città che si sta risvegliando pian piano, le strade ancora semi vuote,
i negozi chiusi, il sole che timido ha fatto capolino nel cielo e non è ancora così forte e accecante come a metà giornata.
Arrivo al locale alle sette in punto, parcheggio e scendo giù.
Appena entro mi salta subito all'occhio la nuca di Sally, capello biondo, corto e sbarazzino, bassa di statura e piccolina, in preda già a ordinazioni anche se sarà arrivata da non più di cinque minuti prima di me.

"Isabel ciao! Dai corri che qui c'è il delirio!"
Lo dice ridendo e io non posso fare a meno di notare dove diamine trovi tutto questo entusiasmo alle sette in punto di lunedì mattina.
Non siamo propriamente amiche, anche perché nella mia vita non ho mai avuto amiche donne.
Siamo colleghe, conoscenti, ma dopo l'orario di lavoro non ci siamo mai frequentate in realtà.
Le rivolgo un sorriso rapido e mi dirigo nello spogliatoio sul retro della cucina a prendere il mio grembiule di un blu smorto come il mio umore e comincio così un'altra giornata.

Siamo solo io e lei a prendere le ordinazioni e servire ai tavoli.
Julian, il proprietario del locale, un omone sulla cinquantina alto e robusto, dagli occhi buoni, è in cucina.
Ha piena fiducia in me e Sally e ci lascia dirigere da sole anche quando la folla è gremita da schiere di scolari e uomini e donne che si fermano qui prima del lavoro, per una classica colazione americana.
Ci lavoro la mattina, il locale in tardo pomeriggio non è così pieno e la sera Julies ce la fa benissimo a gestirlo assieme ad Alfreda, la sua compagna.

Sono le undici, Sally sta servendo una coppia di anziani, io ricontrollo le ordinazioni.
Alzo lo sguardo e lo noto.
Mi sembra di conoscerlo.
Alto, moro, capelli mossi tagliati molto corti.
Sì, mi sembra proprio lui.
Vestito in maniera casual, jeans, maglia scura, giubbotto di pelle.
"Ciao, Isabel."
Josh. Era un mio compagno di scuola, abbiamo fatto le superiori assieme alla Newport Harbor Hight School.
Tra noi non è mai corso buon sangue, ci detestiamo praticamente dalle elementari, senza un reale motivo poi,  in realtà è una questione di pelle.
Sì, è una questione propriamente di pelle.
C'è qualcosa in lui che mi infastidisce, forse il suo modo di fare da sbruffone oppure quell'atteggiamento da "sono il re del mondo".

"Ma che diamine ci fai qui?"
Sul suo viso compare subito un'espressione beffarda, la stessa di sempre e automaticamente il mio sguardo diventa gelido, di pietra.
"Ci lavoro, non vedi? mi sembra ovvio. Che cosa ti porto?"
Ignora completamente la mia domanda e mi lancia uno sguardo ancora più approfondito prima di parlare di nuovo.
"Questa sì che è esilarante, Isabel Forbes fa la cameriera!"
Termina la frase con una fragorosa risata, incurante della gente che possa sentirlo.
"Ti immaginavo al college come tutti e invece ti ritrovo qui a servire caffè, ma devo ammettere che il grembiule ti dona, molto."
Mi fa persino l'occhiolino, mi sta prendendo in giro e anche questa non è una novità.
Sto per rispondere subito qualcosa in maniera piccata ma lui mi precede, sposta lo sguardo verso i tavolini e parla non guardandomi più in viso, come se abbia finito la sua sceneggiata durata sì e no un minuto, come se mi abbia ormai dato fin troppa attenzione.
"Ordino solo un caffè senza zucchero, grazie."
Il suo tono diviene di colpo formale, persino quasi gentile.
Mi volto per prepararlo subito e con la coda dell'occhio lo vedo prendere posto nell'ultimo tavolo vicino la vetrata.
Smanetta con il telefono ed è assolutamente tranquillo e pacato, come se se fosse stato gentile con me, come se avessimo avuto una normale conversazione, invece mi ha ferita.
Sa benissimo perché non sono potuta andare al college e la sua battuta sul grembiule è stata molto molto  insensibile.
Quasi senza rendermene conto i miei occhi si bagnano di lacrime colme di rabbia e umiliazione.
Eccolo lì un mio grande problema, non riesco a non lasciare trasparire le mie emozioni, belle o brutte che siano.
Sally dal lato opposto al locale ha notato tutta la scena, le basta un mio sguardo per farle capire che non me la sento di servirlo, così lo fa lei mentre io rimango dietro il bancone fingendo di essere indaffarata con i menù.
Non alzo lo sguardo neppure quando si alza, paga il conto e e se ne va.
Stronzo.
Non mi importa nulla di quello che dirà ai suoi amici, ma le sue parole mi hanno fatto veramente male, mi sono sentita umiliata.
Non sempre possiamo scegliere quello che ci piace fare o che vorremmo fare, ma non tutti riescono a capirlo.

"Tieni."
Senza pensarci due volte Sally mi offre un fazzoletto, uno di quelli usa e getta che usano i clienti.
Tampono subito gli occhi, il tovagliolo a contatto con le palpebre graffia pure un po' eppure non ci faccio poi così caso.
"Lascialo stare, è solo un fottuto riccone figlio di papà."
Sally alza le spalle e tenta di tirarmi su e io un attimo sorrido non tanto per la frase un po' sboccata ma perchè in fondo ha ragione.
Non ne vale la pena, non ne è mai valsa.
È che le insinuazioni troppo personali feriscono soprattutto se sono vere.
Devo imparare a infischiarmene, un po' come fa lei che quando la prendono in giro per la sua poca altezza ci ride su oppure risponde per le rime ma comunque sempre e comunque lascia correre.
E io devo fare la stessa cosa, lasciar correre.
Il lato positivo è che adesso non sembra poi così difficile, specialmente ora, con una decina di clienti da servire e l'ordinazione del tavolo cinque che tarda ad arrivare.

Nocciola e Cioccolato Where stories live. Discover now