Capitolo 20

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"Per lei?

Sono disposto a fare la guerra."

-Mayson Cole-

Mayson –Ventidue mesi prima-

Ha la testa alzata verso di me in maniera così lieve che il suo guardarmi fisso sembra quasi inesistente; eppure io lo so che –seduto su quella sedia- la sua attenzione non è rivolta da nessun'altra parte all'infuori di me.

Mi guarda dritto negli occhi con la sua solita espressione da stronzo; le spalle dritte, la strafottenza che gli esce da ogni singolo poro della pelle, solo che al momento gli manca quella nota da bastardo infame nel sorriso che di solito gli appartiene perennemente. Quel sorriso che usa per comunicare al mondo che lui è intoccabile, che le regole lì intorno se le fa e se le gestisce da solo, e che qualsiasi cosa accada è sempre lui quello che ne esce vincitore.

Scruta la mia faccia, continuando a battere un dito sul piccolo frigo inusato che ha buttato nel suo garage, mentre io me ne resto in piedi, poco dopo la serranda alzata, lottando tra la sensazione di sollievo che sento per aver detto quello che dovevo dire e il senso di preoccupazione per come lui la prenderà. Non sono in pena per i suoi pensieri, di lui –sinceramente- non me ne frega deliberatamente un cazzo, l'unica cosa che mi tiene in agitazione è pensare a quale sarà la sua reazione.

E dopo quasi un minuto di silenzio, ad aspettare chissà quale ragionamento il suo cervello contorto stia elaborando, finalmente apre la bocca.

«Non ho capito cos'hai detto, Cole» si pronuncia, senza accennare al minimo movimento.

«Hai capito benissimo invece, solo che la cosa non ti piace e allora fai finta di aver chiuso le orecchie» obbietto, incrociando le braccia al petto. Non ci provo nemmeno a volare basso, perché tanto già lo so che questa non è una situazione che può finire davanti ad una bottiglia di birra con un brindisi ad una nuova vita senza lui tra le palle. Ci sono partito da casa con la consapevolezza che una discussione, oggi, non ce la toglierà nessuno.

«Io avrò anche chiuso le orecchie, Mayson, ma tu hai proprio chiuso il cervello.»

Presumo che le mie parole non gli siano piaciute affatto, infatti, alzandosi dalla piccola seggiolina spaiata e accendendosi una sigaretta alquanto modificata, lui continua a parlare. «Hai le palle, e questo l'ho sempre saputo, ma non pensavo minimamente che fossi così stupido. Questa non è una partita a carte dove ti alzi dal tavolo e smetti di giocare. Questi sono affari.» Calca l'ultima parola come se quella fosse la più importante dell'intero universo, come se tutto girasse attorno a lei, e lo so che quello che dice molto probabilmente sarà anche giusto, ma so anche che potrebbe minacciarmi addirittura con una mazza di legno e io comunque non cambierei idea.

Ho un trascorso valido con lui, un passato in cui il suo nome ha monopolizzato gran parte delle mie emozioni portandomi a pensare di non avere scelta sulla mia vita, o almeno di non averne su una grossa percentuale, eppure, anche se con netto ritardo, l'ho capito che il mio debito con Moses è già scontato da tempo. L'unico motivo per cui non ho realizzato tutto prima era solo a causa della paura che segretamente provavo a buttarmi in una cosa che non conoscevo.

A buttarmi con lei.

Per lei.

Mano nella mano in un futuro che ho sempre bramato ma che al tempo stesso avevo paura di perdere ancor prima di farlo mio.

E il suo viso nella mia mente, il rimbombare sordo dell'eco della sua voce che stamattina mi accompagna, mi aiuta quasi a non sentirla più quella paura.

I Ricordi che ho di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora