Capitolo 7

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"Non sai che ragioni ci sono
dietro le scelte degli altri.
A volte, ma solo a volte,
scelgono solo per il tuo bene."
-Mayson Cole-

Emory –Oggi-

«Che cosa ti è saltato in testa!»
È la prima cosa che le urlo quando la vedo; in mano tiene il bicchiere del solito latte e cacao che prende ogni mattina. Se ne sta seduta fuori dalla libreria vicino la scuola, su una vecchia panchina di legno malconcia che se ci passi la mano con più forza del normale è in grado di sfregiarti la pelle per due settimane filate. Quando non viene in auto con me esce prima la mattina, e dopo aver preso la colazione si sistema qui fuori, che ci sia il sole, il gelo o la neve a lei non interessa: beve il suo latte mentre legge qualche libro. Lo fa da tutta la vita, è una delle sue abitudini preferite, ed è per questo che non andiamo sempre con una sola auto. A lei piace alternare la compagnia alla solitudine, e io adoro questo lato che ha perché la rende diversa da molte delle ragazze che conosco.
Ma non questa mattina.
Questa mattina la mia migliore amica non mi piace proprio per niente.
Alza lo sguardo già sbarrato, rendendosi conto della mia voce ancora prima di vedermi in faccia. Non appena mi individua, a quattro metri da lei, borbotta qualcosa tra le labbra e si alza, incamminandosi dalla parte opposta alla mia.
Se lo può scordare di cavarsela così, scappando da me. Ho provato a chiamarla di continuo ieri sera, ma ogni volta il suo telefono risultava spento. Si è fatta negare anche a casa pur di non sentire la mia voce urlarle contro tramite una cornetta. Adesso che mi ha davanti non può scappare: mi sono svegliata venti minuti prima per avere la possibilità di parlare con lei, e non ci penso minimamente a darle tregua.
Mi ci piazzo davanti non appena la raggiungo arrestando la sua camminata veloce. Non so come abbia fatto ma per la fretta di dileguarsi le è addirittura caduto il latte dal bicchiere colandole sulle dita nonostante abbia il coperchio. Sorrido malvagiamente: questo è il karma che sta già iniziando a farle scontare lo scherzo che mi ha fatto ieri.
La sua labbra si schiudono, mostrando la dentatura perfetta in un sorriso incerto. «Tesoro» prova a dire con aria dolce e innocente, ma "tesoro" in questo momento è più incazzata di un orso alla quale hanno fregato il miele da sotto il muso.
«Tesoro un cazzo, Callie!»
«Vuoi un po' di latte?» Mi porge il bicchiere appiccicoso e in risposta stringo gli occhi. Lo sa che non bevo latte, sta solo cercando una scappatoia.
Quando capisce che non sono dell'umore giusto, tira indietro la mano e getta il bicchiere mezzo pieno nel cestino del marciapiede. Per un attimo aspetto di sentire le scuse uscirle di bocca, perché non c'è nemmeno bisogno che le spieghi per quale motivo mi sento così tradita da lei, ma i suoi occhi si stringono come i miei, incrocia le braccia al petto per farsi vedere più autoritaria, e poi sbuffa.
Sbuffa, maledizione. Non ci posso credere.
«Non guardarmi come se fossi la peggior migliore amica sulla faccia del pianeta, Emory.»
«Perché, non lo sei?» replico imbestialita. «Ieri ti ho detto che non ero pronta a vederlo, e tu mi hai spedita a lavorare con lui senza nemmeno dirmi niente.»
«Ieri ti ho chiesto se volevi sapere qualcosa» ripete quasi le mie parole. «Ti mi hai detto di no.»
Apro la bocca per risponderle, ma poi la richiudo.
Sono sconvolta: sta rigirando i dettagli per portare le cose a suo favore ed è un gesto molto, molto meschino da parte sua.
«Avresti comunque potuto dirmi che lavorava lì anche lui. Questa non era un'informazione sulla sua vita, avrei accettato di ascoltarla.»
«Ma non avresti accettato di lavorare da zio Phill» afferma, ed ha ragione. Non ci sarei mai andata se avessi saputo che lui aveva ripreso il suo vecchio lavoro. Avrei trovato un altro posto, uno dove non mi sarei sentita costantemente sotto pressione e fuori luogo. Un posto dove per quattro ore al giorno non mi sarei ritrovata a lanciare occhiatine nascoste ad un ragazzo come fanno le adolescenti di quindici anni.
Perché ci ho provato, ieri, a guardare dritto davanti a me, ma i miei occhi non hanno voluto ascoltarmi quasi mai.
Sospira, mentre mi prende le mani e me le alza davanti al viso.
«Hai ancora due mani, Emory» mi fa notare, sballottolandole qua e là. «E due gambe» continua. «E stai ancora parlando con la tua bocca.»
La confusione mi cresce dentro: non sto capendo dove vuole arrivare.
«Vive accanto a te e avete un passato che vi ha tenuti legati per un sacco di anni. Non potete far finta di essere due perfetti estranei. Dovevate parlarvi prima o poi, io ho soltanto velocizzato i tempi. E tu, a quanto sembra, sei ancora tutta intera anche dopo averlo incontrato.»
Ci penso per il resto della mattinata ai suoi ragionamenti; con un briciolo in più di lucidità non sono così errati come invece immaginavo. Sarebbe arrivato davvero il giorno in cui ci saremmo scontrati e avremmo dovuto parlare, anche se ieri non abbiamo parlato praticamente di niente. Ci siamo limitati alle informazioni di lavoro, al modo di servire che hanno al Burger Phill, ai prezzi dei menù e delle ordinazioni singole, a come si annullano gli scontrini sbagliati dato che ne ho sbagliati due nella prima ora di lavoro. Siamo stati civili, non ci siamo scannati, ma alla fine di tutto nulla è cambiato o è andato apposto perché non abbiamo chiarito niente su quello che è successo in passato.
Io non so ancora perché se ne sia andato e ancor meno so perché sia tornato.
La delusione mi si appiccica addosso quando a mensa non vedo Deven; aveva giurato che sarebbe stato con noi e invece sembra sparito nel nulla. Lo cerco nei visi dei ragazzi che continuano a camminare per il refettorio, lo cerco nelle risate che si alzano dai tavoli, ma lui non c'è da nessuna parte.
Inizia a dare buche anche lui. Perfetto!
Quando torno a casa trovo mia nonna chinata sul lavello della cucina; il menù della mensa era leggermente diverso da quello di ieri: il cibo sembrava commestibile quindi ho preso quasi un po' di tutto, ma l'odore di dolci appena sfornati che gira tra le pareti di casa mia è talmente forte da farmi aprire lo stomaco nonostante abbia mangiato appena tre ore fa. Mi avvicino in silenzio senza palesare la mia presenza; sul tavolo ci sono due piatti coperti da carta stagnola, è da qui che proviene questo odore paradisiaco. Mi accorgo che sono ancora caldi non appena ne tocco uno, e nella bocca sento già la salivazione aumentare. Se c'è una cosa in cui mia nonna è una maga sono i dolci.
«Non ci pensare nemmeno, Emory.»
Le dita mi si bloccano di colpo, poco prima di staccare un pezzo a quello con il cioccolato. Davanti a me ci sono ancora le sue spalle appena ricurve, mentre la sua faccia è rivolta verso il lavandino. Non è girata, non ho fatto un solo fiato, eppure lei ha sentito che ero qui.
Sorda un accidente!
«E dai» la supplico «solo un pezzettino per assaggiare.»
«Puoi assaggiare l'altro, non quello al cioccolato.»
Stringo le labbra. «Non mi stai nemmeno guardando, nonna. Come fai a sapere quale stavo prendendo?»
Finalmente i suoi occhi mi guardano. Sono dello stesso colore del ghiaccio, quasi come lo sono i suoi capelli, ma non hanno niente che sappia di freddo. Mi ricorda sorridendo che sono sua nipote, che vivo con lei e che mi ha vista crescere: in pratica mi sta facendo capire che non ha bisogno di guardarmi per sapere su quale dolce mi sarei buttata.
Sbuffando, alzo la carta stagnola di quello accanto; l'odore di arancia mi solletica il naso facendomi capire subito cosa ci sia dentro. Mi piacciono le arance, ma non hanno il minimo paragone con l'altro.
«Perché non posso prendere quello al cioccolato?»
«Perché quello l'ho fatto per i ragazzi» confessa puntando il dito oltre la finestra e indicando la casa accanto. Non appena li ha nominati si è illuminata da capo a piedi peggio di un albero di Natale. Sorride, si sfrega le mani ripetendo che lo adoreranno perché loro vanno matti per il cioccolato, mentre a me cade a terra gran parte della mandibola. Anche io adoro il cioccolato, e sono io sua nipote non loro.
Questo dolce spetterebbe a me.
Glielo faccio presente, ma lei mi ignora avanzando una richiesta che mi fa stringere i denti ancora di più.
Vuole che sia io a portarlo alla casa qui affianco, come bentornato per tutta la famiglia. Scuoto la testa senza nemmeno rendermene conto. È già difficile vedere il passato quelle poche ore a lavoro, ma infiltrarmi a casa sua è troppo.
«Sono stati via tanto, Emory. Ho visto Karen giusto questa mattina e sarebbe davvero felice di rivederti.»
Menzionare la signora Cole è un colpo troppo basso persino per mia nonna. Sta cercando di sfruttare il fatto che io ho sempre avuto un debole per quella donna, e che piacerebbe anche a me rivederla. Solo che preferirei farlo fuori da quella casa. Ma mia nonna non è come le altre nonne del mondo; lei, per farti fare quello che vuole, fa leva su ogni cosa che può andare a suo favore e che possa metterti in condizioni di non poter dire di no. Infatti si getta sulla sedia della cucina spalmandosi per metà sul piccolo tavolo di legno, mentre si lamenta che in questo momento la stanchezza la sta consumando. A detta sua non ce la fa nemmeno ad alzarsi da lì per andare sul divano, a detta mia, invece, sono fermamente convinta che non appena sarò fuori da questa porta lei sarà in grado di ballare la danza del ventre con la piena attività fisica di cui ancora dispone.
Controvoglia prendo tra le mani il grande piatto di vetro ed esco fuori sbattendo la porta. Ad ogni passo che faccio e che mi avvicina al loro giardino il mio cuore aumenta di un battito ogni cinque secondi. Alla terza volta che busso sto quasi tirando un sospiro di sollievo perché penso che non ci sia nessuno in casa nonostante alcune macchine siano parcheggiate nel vialetto. Poi di colpo la porta si apre. Non riesco a capire subito chi sia dei fratelli, l'unica cosa che recepisce il mio cervello è un corpo mezzo nudo che si sta infilando una maglietta. La testa rasata castano chiaro sbuca fuori, e i suoi occhi verdi si palesano ai miei. Si assomigliano tanto tutti quanti su un fattore di lineamenti fisici e facciali, in quanto a colori, però, Vincent è l'unico Cole ad aver ripreso dalla madre.
Mi fissa in modo strano, come se tra tutto il mondo l'ultima persona che si aspettasse di trovare fuori dalla porta di casa sua fossi stata io.
«Ciao, bimba della casa accanto» mi saluta.
Il sorriso mi allarga sul viso nonostante il suo tono non sia stato dei più amichevoli. Non faccio nemmeno in tempo a rispondere che la sua voce viene fuori di nuovo, e quando parla ci manca poco che il piatto con il dolce mi scivoli di mano.
«Mi dispiace, ma Mayson sta riposando.»
Vorrei arretrare di un piccolo passo, perché un'accoglienza del genere non me l'aspettavo proprio. Tutto questo tempo senza vederci, senza parlarci, e questo è tutto quello che riesce a dirmi.
Non ci sono mai stati asti con lui, mai una litigata, mai nemmeno l'ombra di qualcosa che potesse assomigliare all'antipatia. Dal modo in cui ha parlato, però, e dal modo in cui mi sta guardando, sembra quasi che mi odi. Le guance mi vanno a fuoco in un attimo, e invece di indietreggiare resto ferma a guardarlo storto. Mayson quando mi ha vista da Phill non mi ha salutata, lui mi dice che suo fratello sta riposando senza nemmeno darmi l'opportunità di lasciarmi spiegare cosa diavolo ci faccio alla sua porta. Quando vedrò Jeremia che cosa succederà, mi impiccherà direttamente senza un motivo? Perché quello che mi sembra di vedere è che tutti ce l'hanno con me senza che io abbia mai fatto un cazzo a nessuno. Solo Deven ha mantenuto il suo solito atteggiamento, ma questo non significa che può mettere a paro il fastidio che provo con il comportamento degli altri.
Una volta eravamo uniti, tutti quanti, e adesso... Adesso fanno male i loro sguardi lontani, perché non ne capisco la motivazione.
Gli allungo il piatto con il dolce della nonna. Non mi tremano più nemmeno le mani perché ora il nervoso agitato ha fatto spazio al nervoso cattivo.
«Nonna vi ha fatto un dolce al cioccolato. Sono venuta solo per portarvelo, non cercavo nessuno di voi» paleso acidamente.
Mi volto di spalle e mi allontano, sovrastata da un'umiliazione che non sopporto e che non dovrebbe far parte di me. Che ne è stato della famiglia della porta accanto con la quale condividevo tutto? Che ne è stato delle risate, degli abbracci e del gruppo unito che una volta eravamo?
Sono tornati a casa, ma di loro, dei fratelli che conoscevo io, sembra essere rimasto meno di niente.
«Emory!» mi chiama, ma che se ne vada al diavolo anche lui.
Che vadano al diavolo tutti quanti i Cole.
Non mi volto perché una dignità ancora mi è rimasta, e non mi schiodo dalla mia posizione nemmeno quando mi blocca per il braccio. È lui che si pianta davanti a me dicendo che gli dispiace, anche se al momento dei suoi mi dispiace non me ne frega niente di niente. Mi tiro indietro scrollandomi di dosso la sua presa, e nonostante sul suo viso vedo balenare davvero il dispiacere per il suo comportamento non mi lascio scalfire.
«Credevo fossi venuta per Mayson.»
«E se anche fosse stato?» reclamo indignata. «Una volta venivo sempre per lui, non mi pare sia mai stato un problema per nessuno, Vince.»
«Una volta non è adesso» afferma con decisione, e non posso dargli torto. Una volta Vincent Cole mi scompigliava i capelli e mi aiutava a dare il tormento a suo fratello, non mi ha mai trattata da estranea come invece sta facendo ora.
Una volta non è adesso, dice, e se davvero questo è quello che vuole io posso farcela comunque. Ho vissuto senza la loro presenta per l'ultimo anno e mezzo, e non sono morta. Posso continuare a farlo senza il minimo problema.
Lo sento sospirare e chiamare di nuovo il mio nome quando gli do le spalle, poi di nuovo torna a piantonarsi davanti a me. Nel giro di due minuti ho provato agitazione, incertezza e delusione, adesso tutto quello che sento è stanchezza, perché questi suoi giochetti già mi hanno stancata.
Poggia le sue mani sulle mie spalle, inarcando le sopracciglia che regalano alla sua faccia un non so che di confuso. «Credo di aver cominciato proprio in un modo di merda» ammette sconfortato, e non posso non dargli ragione. «Immagino che tu sia un tantino confusa.» Tira le labbra in una linea dritta, un sorriso smorto che di sorriso non ha praticamente niente.
«Forse mi sbaglio, Vincent, ma l'ultima volta che ci siamo visti stavamo cercando di battere Deven a basket. E io e te facevamo squadra. Quindi sì, sono un tantino confusa visto che mi stai trattando come se fossi il tuo peggior incubo.»
«Non sei il mio peggior incubo» ribatte, poi chiude gli occhi per un paio di secondi. Quando li riapre, sembra ci sia qualcosa di diverso nel suo sguardo. «È difficile da spiegare, Emory, ma sono molte le cose che sono cambiate in questo ultimo periodo, e non ho assolutamente niente contro di te.» Mi tira più vicino e mi abbraccia scompigliandomi i capelli con una mano. Almeno questo è un vizio che non ha perso. Vorrei alzare le braccia e imitare il suo gesto, ma non ci riesco. Mi sento confusa, incerta su quello che con loro posso ancora fare o meno. Si è rotto qualcosa durante la loro lontananza, di questo me ne rendo conto, eppure sento che il cuore non vuole accettarlo perché lui vorrebbe solo tornare alla normalità. Quando ho visto Deven, il primo giorno di scuola, ero contenta che fossero tornati. Nonostante i problemi con Mayson una parte di me era felice che tutti fossero di nuovo a casa. Ora però non lo sono più. Questa sensazione di non riuscire a sentirmi a mio agio con loro mi destabilizza.
«Vieni dentro. Mamma sarà felice di vederti.»
Blocco le gambe esattamente dove sono non appena prova a spingermi per la schiena. Se prima era un problema farmi entrare, adesso la cosa non può essere cambiata di punto in bianco.
«Cazzo, Emory, non farmi sentire uno stronzo!» esclama, quando mi vede scuotere la testa. È esattamente il modo in cui voglia che si senta, invece, una specie di piccola vendetta per come ha fatto sentire me.
Mento, dicendogli che tra poco devo andare a lavorare anche se manca ancora un'ora e mezza all'inizio del mio turno. Davvero non ho più voglia di entrare a casa sua. Quello che vorrei è solo che aprisse la bocca per dirmi cos'è che è cambiato. Forse, avendo questa piccola informazione, riuscirei a mettere insieme i pezzi che mi mancano per capire che cosa c'è che non va. 

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