Capitolo 10

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"Ti daranno dei pezzi di puzzle
completamente mischiati.
Nessuno si preoccuperà di girarli
tutti e di numerarli.
Sei tu che hai chiesto la risposta a qualcosa,
ed è solo compito tuo mettere tutto
in ordine per trovare quello che vuoi."

-Emory Scott-

Emory –Oggi-

La domenica è il giorno che aspetti con ansia.
Quando la sveglia non suona all'alba; quando ancora con gli occhi appiccicati dal sonno non sei obbligata ad alzarti e vestirti per correre in una struttura dove ti devi subire infinite spiegazioni dai professori. È il giorno in cui abbracci il cuscino più a lungo, comodamente riscaldata dalle coperte, e in cui rilassi mente e corpo fino a che qualcuno non viene a ricordarti che è l'ora della messa. Ti devi alzare lo stesso, è vero, ma tutto procede con una calma che durante i giorni settimanali ti puoi solo sognare.
Amo la domenica, è il mio giorno preferito.
La messa? Il più delle volte la salto. Non è che non sia credente, solo che sono troppo pigra per andare in chiesa ogni santa domenica. Il patto che ho stretto con mia nonna è di due sole domeniche al mese, nelle altre due mi riposo.
E oggi è la domenica di pace, della mia pace. Quella domenica che aspetto sempre con amore per morire nel mio letto il più a lungo possibile senza dovermi alzare ad un orario decente. Di solito abbandono le coperte tra le undici e mezzogiorno, faccio colazione e poi metto lo stereo a tutto volume perché non c'è nessuno in casa fino all'una. Dopo la messa domenicale la nonna si ferma a bere il tè con le sue amiche, e io ne approfitto per dare una pulita alla casa con la mia unica e sola condizione: la musica.
Senza quella che mi dà la giusta carica io non riesco a muovere nemmeno la scopa a terra.
E l'ho aspettata questa domenica, quasi come una futura sposa aspetta il giorno del suo matrimonio, solo che c'è qualcosa di diverso oggi, e me ne accorgo dalla stanchezza che mi sento addosso quando apro gli occhi.
Solitamente, dopo tutte quelle ore di sonno, non mi sento mai così tanto rincoglionita.
Quando apro gli occhi mi sembra di avere all'interno la carta vetrata; il solo muovere le palpebre mi reca dolore e fastidio al punto di sentirli lacrimare. La mente non connette ancora, perché non è uscita dal suo stato di trans. Allungando una mano sul comodino tasto un paio di volte sul legno fino a che non sento lo schermo ghiacciato del cellulare. Me lo porto fin sotto le coperte, perché è lì che sono rintanata.
Le sette e venti del mattino.
La sveglia non sta suonando, mia nonna non mi sta chiamando e nemmeno ha aperto la porta per scoprirmi dalle lenzuola come fa di solito.
Io, normalmente, non mi sveglio mai da sola a quest'ora.
Potrebbero far scoppiare fuochi d'artificio, potrebbe arrivare il peggior terremoto che abbia mai colpito Cleveland, potrebbero anche bombardarmi la casa, io non sentirei niente fino a cosa fatta e finita.
Eppure sono sveglia, più incosciente che altro ma gli occhi ce li ho aperti lo stesso. Nell'aria lo sento che c'è qualcosa di insolito e ci metto anche troppo per capire di cosa si tratta.
Con gli occhi ancora mezzi chiusi scosto le coperte e mi alzo, e quando guardo fuori dalla finestra mi sale l'istinto omicida.
Non possono fare sul serio.
Non a quest'ora.
Non di domenica.
Ignoro il freddo che mi fa drizzare i peli delle braccia non appena esco dalla porta sul retro; mia nonna mi corre dietro chiedendomi dove sto andando ma io non posso dirglielo. Non sarebbe contenta di sapere che sto andando ad uccidere il mio vicino di casa. Chiunque sia di loro che ha ben pensato che tagliare l'erba del prato di domenica mattina all'alba sia una fantastica idea, non ha ancora fatto i conti con la sottoscritta.
Punto il tagliaerba acceso iniziando a guardarlo storto già da quattro metri prima; nessuno gli è accanto, continua a fare un rumore atroce in totale solitudine e odio la cosa ancora di più perché se nessuno lo sta usando non riesco a capire cosa diavolo ci faccia acceso. Piego la testa abbassandomi per cercare un interruttore, qualsiasi bottone che mi faccia capire come si spenga questo maledetto aggeggio. Nessuna lucetta però mi aiuta a trovare la soluzione al mio problema.
Maledetto tagliaerba e maledetti Cole.
Setaccio il prato cercando l'artefice di questo squilibrio mondiale, perché per quanto mi riguarda buttarmi giù dal letto in questo modo è profondamente lontano da ogni mia concezione psicologica, ma l'aria umida e un cielo annerito sono le uniche cose che mi saltano agli occhi. Non sono nemmeno io che spingo i miei piedi fino alla porta della loro casa, vanno da soli, anche loro dettati dal nervoso. Carico indietro il braccio invocando la forza necessaria non per bussare cortesemente ma per annientare direttamente la porta, e quando sto per scontrarmi contro di essa lei si apre di scatto.
Ci sbatto, contro qualcosa, ma non è il legno che mi aspettavo di sentire. È la pelle calda, scoperta per gran parte del suo corpo la cosa con cui entro a contatto. Non lo so da dove gli sia uscita fuori la prontezza di alzare il braccio per parare il mio colpo, però l'ha fatto e questo mi paralizza per qualche istante.
Chi cazzo è diventato, il nuovo Spiderman dell'Ohio?
Le cuffiette bianche sono incastrate nelle sue orecchie e la musica che emanano è talmente forte che riesco a sentirla anche io. Mi guarda con gli occhi sgranati mantenendo la sua posizione di difesa, e solo in netto ritardo mi accorgo che l'unica cosa che copre la parte superiore del suo corpo è una canotta bianca sporca di terra che gli sta troppo attillata. Si vedono i lineamenti dei muscoli sotto quella stoffa, come se fossero stati disegnati con una matita appena poggiata su di lui, e mi ci perdo a guardarlo, perché ogni essere vivente non può che rubare un paio di secondi al tempo per ammirare tanta roba come questa. Non farlo sarebbe da pazzi, ma questo non mi fa dimenticare perché sono qui.
Si toglie le cuffie con la mano libera, mentre con il braccio allontana da se stesso il mio pugno ancora chiuso.
«Che ci fai qui?» domanda, facendo scorrere lo sguardo sul fino pigiama grigio chiaro che ho addosso. Sembra che sia più questo particolare a prenderlo alla sprovvista che il semplice fatto di vedermi.
«Sono le sette e mezza di domenica mattina» ringhio a labbra strette «che cazzo ti salta in mente di fare con quel tagliaerba?»
Si prepara a rispondere, molto probabilmente con una delle sue battute stupide. Lo vedo dal ghigno che ha che sta per sparare qualche stronzata ed è per questo che lo blocco prima. «Vai a spegnere quella macchina infernale, Mayson. Adesso
Con tutta la tranquillità del mondo poggia una spalla all'uscio della porta e si accende una sigaretta. Intanto quel rumore continua a fracassarmi la testa e le orecchie, e solo Dio sa quanto invece io vorrei fracassare lo stronzo che ho davanti.
«Potevi risparmiarti di uscire in pigiama solo per dirmi questo. Non so se l'hai capito, ma quel rumore continuerà a torturarti per la prossima mezz'ora.» Sorride, si porta la sigaretta tra le labbra e dopo aver tirato mi sputa il fumo in faccia intossicandomi lentamente.
E questo è troppo.
Posseduta dal demone della rabbia, gli prendo la sigaretta e la butto a terra distruggendola con la ciabatta. Lo sguardo di sfida che mi rivolge mi istiga solo a mettergli le mani addosso per soffocarlo definitivamente, ma cerco di darmi un contegno e mi avvicino fino a portare le nostre facce a cinque centimetri di distanza. «Prendo le forbici e taglio il filo della corrente, Mayson. Giuro che lo faccio» lo minaccio, e lui avanza talmente tanto che sono costretta ad indietreggiare per poter riuscire a guardarlo negli occhi senza storcere i miei all'indentro. Odio quando si avvicina in questo modo, mi mette in condizioni di non poter ragionare come invece vorrei.
«Resteresti attaccata alla presa, Emory. Non si gioca con l'elettricità, e io devo tagliare l'erba.»
«Sai quanto me ne frega?» chiedo incrociando le braccia per evitare di farlo avvicinare ancora di più. «Praticamente un cazzo, ecco quanto me ne frega. Io voglio dormire. È domenica e ne ho tutto il diritto.»
Sono piccole le mie braccia messe a confronto delle sue, infatti non fa nessuno sforzo quando le allunga e mi chiude contro il muro. Sono talmente lunghe che nonostante io continui a tenere le mie incrociate al petto lui riesce lo stesso ad avvicinarsi quel tanto che basta per farmi perdere un po' di stabilità. Ci provo, maledizione. Ci provo a vedere tutto con occhi diversi e a tenere salde le mie idee, ma le vecchie abitudini non muoiono facilmente. Escono sempre a galla quando la vicinanza si fa minima, e il corpo freme sotto il suo sguardo come se mi stesse toccando con le mani.
Mi destabilizza, me lo fa sentire fino all'ultimo il respiro che mi si blocca nella gola mente lotto per reagire.
La peluria sulle braccia si alza di nuovo quando pronuncia il mio nome, questa volta però non è per colpa del freddo. «Ho sempre adorato il fuoco che hai negli occhi quando sei incazzata.» Gli occhi vispi e maliziosi, il sorriso di chi tra le mani sta già stringendo un trofeo che ancora non si può definire assegnato a nessuno. E questo mi fa incazzare ancora di più: ha sempre adorato tante cose di me, ma mai abbastanza per arrivare fino in fondo.
Lo spingo via con forza non appena la porta si apre di nuovo. Sua madre è in piedi, con l'espressione confusa che fissa entrambi a turno. Dovrebbe capirlo che non è come sembra, ma mi rendo conto che la scena si presenta ai suoi occhi in maniera diversa da quella che è realmente. L'ho spinto, eppure non l'ho mosso di una virgola. Ho le mani posate sul suo petto, lui mi tiene bloccata al muro a distanza ravvicinata. Sembra che ci stiamo preparando per un round sotto le coperte, non che la mia mente sta tentando di ucciderlo. E, ovviamente, con tutta la gente che popola questa casa doveva vederci così proprio sua madre.
La figura di merda è doppia in questa caso.
«Ma che fantastico quadretto.» I suoi occhi ci scrutano attenti, mentre un sorrisino furbo le si dipinge sul viso. Ha le labbra piegate solo da un lato, e non posso fare a meno di notare quanto il suo sorriso sia identico a quello del figlio.
È lui ad allontanarsi per primo, dandosi una piccola spinta dal muro e indietreggiando di un paio di passi prima di voltarsi definitivamente e sparire oltre l'angolo della casa. Ascolto il tagliaerba cambiare rumore, ma non ce l'ho il tempo di corrergli dietro per farlo smettere perché l'abbraccio caloroso di Karen mi avvolge subito dopo, ed è una cosa che mi prende in contropiede. Lei è tipo da battute, da risate che riecheggiano nell'aria anche a metri di distanza, e da pacche sulla schiena o pugni sotto le costole quando si arrabbia. È sincera, vera, è quella figura che guardandola ti da qualsiasi segno al di fuori che sia la madre di quattro ragazzi. Sembra più una donna mai cresciuta, con i jeans strappati e le scarpe da ginnastica. Se la portassi a ballare con me, i ventenni si piegherebbero ai suoi piedi supplicando per un suo sorriso. Ha l'atteggiamento diverso da qualsiasi altra madre che abbia conosciuto; la mia, in prima persona, è sempre tutta educata e messa in tiro. Scherza e ride anche lei, ma mettendo a confronto i loro modi la differenza si vedrebbe lontano un miglio. Mia madre è una madre e basta, Karen Cole può essere madre, sorella e migliore amica tutto insieme. Lei, però, non è mai stata il tipo che ti butta le braccia al collo, e in un primo momento è questo che mi fa restare immobile almeno fino a che non la sento dire che è contenta di vedermi. Solo adesso mi rilasso, pensando che dopo tutto questo tempo un abbraccio non sia così tanto anormale. Tirandomi per la mano mi trascina dentro casa senza troppi preamboli; le parole di Vincent e le espressioni che mi ha rivolto qualche giorno fa mi tornano in mente facendomi sentire a disagio. Punterei i piedi e farei dietrofront dettata solo dalle prime sensazioni, ma non lo faccio. Se voglio scoprire qualcosa sul perché Mayson e tutti loro se ne sono andati allora devo infiltrarmi in qualsiasi posto che possa darmi anche la più piccola risposta. E casa sua è una parte fondamentale.
«Ancora non avete finito di sistemare gli scatoloni per il trasloco?» Accanto alla scala sono impilati una decina di pacchi messi all'angolo; il divano e la televisione sono stati spostati sulla parete opposta, mentre il grande mobile di legno chiaro ha preso il loro posto. È più spaziosa la sala messa in questo modo, molto più di come la ricordavo. Muove la mano sventolandola in aria, dicendo che i suoi figli hanno da fare e che lei sta passando le giornate fuori a cercare un lavoro, quindi molte cose sono ancora da sistemare come si deve. La osservo dare un paio di colpi alla porta chiusa accanto il bagno, urlando al marito di venire in cucina, poi continua a trascinarmi fino a che non mi fa sedere su una delle sedie. È frettolosa nei gesti, un'altra cosa che non è da lei, e la storia del lavoro mi ha lasciata sbigottita: non ho mai visto Karen Cole lavorare, di solito è suo marito che lo fa. Prima di iniziare ad armeggiare con la macchina del caffè si volta a guardarmi con un aria strana. Oserei dire che sembra quasi triste il suo viso mentre si torce le mani dopo aver socchiuso la porta, e la situazione non cambia molto quando inizia a parlare. «È un po' cambiato dall'ultima volta che lo hai visto, Emory» dice, e capisco fin da subito che sta parlando di suo marito. «L'unica cosa che ti chiedo è di non restare a fissarlo troppo a lungo in modo scioccato. Sto ancora lavorando sul suo stato psicologico dato che non vuole vedere mai nessuno.»
La rabbia per la mia domenica di sonno, sfumata dal rumore del tagliaerba, svanisce dalla mia testa. Mi sento agitata ad ascoltarla perché non ho la minima idea del perché stia dicendo queste cose. Le parole di Vincent iniziano a prendere forma, di certo qualcosa è cambiato se sua madre parla così.
Mi alzo dalla sedia in completo disagio; se il signor Cole non vuole vedere nessuno non capisco cosa diavolo ci faccia io dentro casa sua. Eppure è strano: lui è sempre stato un tipo che adorava qualsiasi tipo di compagnia. Cos'è che è cambiato da allora?
«Credo che sia meglio...» andarmene, vorrei continuare, ma questa parola resta nascosta nella mia bocca non appena la porta si apre e lui si palesa ai miei occhi.
C'è stato un tempo in cui lo reputavo l'uomo montagna; ero una bambina e ricordo che per guardarlo dovevo alzare gli occhi fino al cielo. I lineamenti del suo viso erano larghi, massicci, proprio come la sua corporatura da gigante. Quando abbracciava sua moglie la testa di Karen arrivava al centro esatto del suo petto per la differenza di altezza che avevano e adoravo vederli insieme, perché la loro immagine dava sempre il senso di protezione che un uomo dovrebbe dare alla sua donna. Non c'è stata una sola volta in cui io abbia dovuto abbassare lo sguardo per guardarlo.
Mai.
Fino ad ora.
Adesso lo abbasso lo sguardo, sentendo l'aria farsi troppo pesante mentre guardo un viso scarno e allungato. La barba troppo lunga sembra donargli un minimo di pienezza in più, ma la realtà è ben diversa da quello che può sembrare a primo impatto. Del suo viso sono rimasti solo la pelle e le ossa, proprio come le sue spalle, una volta grandi e possenti, mentre ora sono solo il guscio di qualcosa che decisamente è cambiato.
Quello che sto guardando non è l'uomo che sfidava la vita al volante di una macchina con la luce vispa negli occhi. Quello che mi ha appena salutata, e che poi ha guardato sua moglie in modo alterato prima di voltarsi e andarsene senza dire altro, non è l'uomo che sorrideva e che mi avrebbe presa in giro per essere entrata in casa sua con un pigiama addosso.
Ho avuto a che fare con questa famiglia per quasi tutta la mia vita. Ho sempre visto Daniel Cole essere la roccia di sua moglie e dei suoi figli. Quello che è rimasto di lui, adesso, è solo il fantasma della persona che conoscevo io. Un fantasma che per uscire da questa cucina ha dovuto spingere le ruote di una sedia a rotelle.
E vorrei uscire dopo di lui, virare verso la porta e correre a nascondermi in casa mia. Vorrei cambiarmi, andare in chiesa nel giorno che non mi spetta e chiedere a Dio di poter cambiare quello che ho appena visto, perché anche se in questo anno e mezzo sono cambiate più cose di quanto avrei potuto pensare non si possono cancellare tutti gli anni che sono venuti prima. Il bene che voglio ad ogni singolo componente di questa famiglia non potrebbe svanire nemmeno tra dieci anni, perché in tutti i miei ricordi le loro facce sono ovunque. Ma guardo gli occhi di una donna che mi crolla accanto, abbassando la testa che tiene tra le mani verso il basso. Sento il suo sospiro distrutto nel vedere chi ama in quelle condizioni, e non ce la faccio a prendere la strada di quella porta. Non ce la faccio perché capisco che il male allo stomaco che ho appena sentito io è niente messo a confronto del suo.
È niente messo a confronto del dolore che sicuramente ha messo radici nei cuori di tutti i suoi figli.
Forse hanno ragione quando dicono che non bisogna giudicare gli altri, perché magari dietro parole poco carine e gesti indecifrabili c'è sempre una storia troppo triste e complicata.

I Ricordi che ho di teWhere stories live. Discover now