Prologo

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"Quando pensi che niente abbia il potere di distruggerti, fermati e rifletti.

Non cantare vittoria.
Diventa cauto e mantieni il sangue freddo.
Perché è in quel preciso istante, invece,
che tutto va a rotoli."
-Mayson Cole-

 –Passato o presente?-

Resto seduto su questa scomoda sedia guardando le mie mani torcersi l'un l'altra; sono cinque minuti scarsi che lo faccio, da quando ho lasciato le sue nonostante non volessi rompere l'unico contatto che abbiamo. Se l'ho fatto è solo perché nel tenerle strette ci sono pro e contro. Mi dà forza sentire la sua pelle delicata nella mia, ma le sue mani continuano ad essere fredde, immobili alla fine di queste braccia che ancora non danno il minimo accenno di volersi muovere. So che quel "bip" che continua a rompere il silenzio in questa stanza è il solo segno che lei è ancora viva, eppure quel freddo che emana mi sa di morte.
E fa male.
Fa un male talmente del cazzo che non c'è un minimo pezzo del mio corpo che non ne risente con dolore.
Fa male addosso vederla inerme in questa stanza asettica, dove l'unico colore che spezza il tutto sono i suoi capelli castani e i fiori viola che le hanno portato.
Possibile che loro non sanno che il suo colore preferito è il rosso e che il viola lo odia?
Anche il colore della sua pelle dovrebbe spezzare tutto questo bianco, ma, se la guardo bene, perfino la cera del suo visto è diventata quasi asettica. Ha perso la sua tonalità; non è più animato da quelle guance porpora che di solito si colorano a quel modo quando si arrabbia per qualcosa o si vergogna per qualche battuta cretina che faccio. Non c'è più nemmeno il colore rosso delle sue labbra: al posto di quel rosso che lei tanto ama c'è un colore che si avvicina più al viola spento.
Anche questo mi sa di morte, e lo odio.
Odio tutto questo.
Odio questi colori spenti, odio il bianco che la circonda, e odio me stesso.
Probabilmente mi odio più di quanto mi odiano gli altri.
Non mi volevano nemmeno qui, hanno provato a cacciarmi via ma non ci sono riusciti. Non ci sarebbe riuscito nemmeno Gesù Cristo a farmi spostare da questa maledetta sedia. Sono sei giorni che osservo questo panorama e i medici hanno detto che si risveglierà. Per quanto mi riguarda possono volerci ore, giorni, settimane... Non importa.
Le ho promesso che non l'avrei mai lasciata, e non intendo infrangere questo patto per nessuna ragione al mondo.
Quindi, io, da qui non mi sposto.
Può salire sulla terra anche il diavolo in persona se vuole, eppure nemmeno lui riuscirebbe a farmi schiodare da queste quattro mura.
Quando aprirà gli occhi, io dovrò essere esattamente accanto a lei.
Devo vedere da solo che le sue mani si muoveranno di nuovo, che la sua bocca sorriderà di nuovo, e che non avrà nessun problema dopo la botta che ha preso. Devo vedere da solo che lei ce la farà, perché so già con sicurezza che una realtà diversa non potrò mai accettarla. Me l'hanno detto più volte che ormai il pericolo più grande è passato, eppure io non ce la faccio a starmene tranquillo.
Io. Devo. Vedere.
Torno a posare la mano destra sulla sua, cercando di non toccare tutti questi fili che la circondano ovunque. C'è quello della pressione, attaccato con una pinza al suo dito indice; ci sono i fili che ci fanno capire se il suo cuore è regolare oppure no; il filo che finisce con l'ago cannula che le dà la possibilità di nutrirsi per evitare di farla essiccare come un ramoscello sotto il sole cocente di luglio. E ce ne sono tanti altri che tanto sono irrilevanti... Sapere a cosa servono o meno non fa la differenza: lei è comunque sdraiata in un dannato letto d'ospedale, incosciente da sei giorni e sette ore.
Vorrei parlarle, farle sentire la mia voce e farle capire che sono qua, che non l'ho mai lasciata da quando ha varcato queste porte distesa su una barella.
Vorrei dirle mille volte scusa per tutto quello che è successo. Vorrei ribadire al suo cervello cocciuto -quello stesso cervello che ogni parte di me adora- che ogni attimo che ho passato accanto a lei non lo cambierei per nulla al mondo. Vorrei dirle tante cose, eppure me ne resto zitto, stringendo i denti per non far uscire nemmeno una sola sillaba dalla mia bocca. Ho paura a farle sentire la mia voce, perché l'ultima volta che le ho detto qualcosa la macchina che controlla il suo cuore è come impazzita. Ho visto i battiti arrivare a 210, ho sentito le mani dei dottori trascinarmi via contro la mia volontà. Ho quasi rischiato di finire dietro le sbarre per aver colpito uno di loro pur di non allontanarmi da lei. E la paura che ho provato è stata la stessa che mi ha invaso dieci minuti prima che la portassero a sirene spiegate in questo ospedale. Ho pensato di perderla, e un dolore del genere non lo posso nemmeno provare a spiegare con le parole, perché non esistono termini per descrivere come ti senti quando il cuore ti si spacca dentro. Non esistono sinonimi da poter prendere e usare per descrivere in altre parole cosa vuol dire guardare qualcuno, qualcuno per cui daresti tutto, con gli occhi chiusi e la bocca cucita da cui non esce un microscopico suono.
Non esiste niente che possa minimamente avvicinarsi alla paura che si prova quando i tuoi occhi guardano quella persona sdraiata a terra senza niente che ti faccia capire che in lei esiste ancora un alito di vita.
Muori.
Praticamente, innegabilmente, dolorosamente, muori.
Ti si serra la gola, il cuore sembra uscirti dal petto, e quelle mani che per tutta la tua intera esistenza hai reputato forti e potenti tremano come se fossero un misero pezzo di carta alle prese con un uragano.
Non ti controlli, perché non esiste controllo alla paura di perdere qualcuno.
Questo è quello che ho provato io mentre pregavo un qualsiasi Dio di poter prendere il suo posto.
Ma nessuno mi ha ascoltato.
Ricordo quando avevo sedici anni e mia madre aveva portato tutta la famiglia ad una fiera in Illinois; aveva pregato mio padre per due mesi di fila per preparare le valige e andare una settimana in quel posto. Tra le tante bancarelle c'era una signora seduta su una piccola sediolina di legno spaiata. Un tavolino altrettanto piccolo era tutto quello che aveva. Leggeva le mani, o almeno lei diceva questo. Nemmeno mio padre era riuscito a fermare mia madre dal prenderci tutti quanti e piazzarci di fronte a quella vecchia signora dai capelli bianchi. A turno, uno per uno, ci aveva sopposto al suo sguardo di ghiaccio; non ricordo molto delle sue parole, perché non ho mai creduto a queste stronzate, ma una cosa la ricordo perfettamente.
I colori.
I colori delle anime.
Le era bastato posare gli occhi su ognuno di noi e toccare le nostre mani per pronunciare un colore diverso. Quando aveva preso le mie, un ghigno le era passato sul viso tra la pelle segnata dagli anni. "Rossa", aveva detto. "La tua anima è rossa."
Il colore del cuore, della passione e della sensualità, dell'autorità e della fierezza, della fiducia nelle proprie forze e capacità; il colore della persona impulsiva, combattiva, competitiva.
Non capivo come avesse fatto, ma mentre la sentivo parlare non ho potuto fare altro che starmene zitto: io ero proprio così. E ascoltandola blaterare su quei colori notai anche quanto ci avesse preso con i miei fratelli. In fondo non era poi una ciarlatana come immaginavamo noi, e una volta tornati a casa avevamo deciso che quella era una cosa che ci avrebbe legato a vita. Un piccolo segno che, tatuato sulla nostra pelle, distingueva noi Cole.
Quattro colori diversi per quattro anime diverse che avevano lo stesso, identico sangue.
Quella vecchia dai capelli bianchi, però, si era scordata di aggiungere una cosa molto importante sul colore rosso: la paura non si spaventa davanti ad un colore, di qualsiasi variazione esso sia.
E io, quella paura, non riesco a cacciarla via.
Me la sento addosso mentre poso gli occhi su di lei.
Me la sento addosso mentre ancora cerco di scaldare la sua mano troppo ghiacciata.
Me la sento addosso anche ora, mentre sento le sue dita muoversi appena nella mia mano.
E quasi non ci credo.
Sgrano gli occhi e guardo i suoi, costatando che sono ancora chiusi. Ma quella mano io l'ho sentita muoversi davvero.
L'elettrocardiografo rileva battiti lievemente aumentati, e la paura di vedere di nuovo il suo cuore battere troppo forte mi soffoca la gola. Questa volta però non riesco a stare zitto.
«Svegliati» le sussurro quasi come fosse una preghiera, avvicinandomi ancora di più a lei. «Ti prego, svegliati.»
Un piccolo movimento cattura la mia attenzione: i suoi occhi si muovono a rilento, come se stessero lottando per aprirsi davvero. E alla fine lo fanno.
Quegli occhi nocciola tornano a farsi vedere dai miei.
Ed è come morire nuovo, ma questa volta la luce alla fine del tunnel riesco a vederla, e mi fa sorridere come ormai non faccio più da giorni interi.
Sta tornano.
Lei sta tornando da me.
Mi sembra di essere appena entrato in stallo, con gli occhi sgranati, la bocca contratta da un sorriso scioccato e l'anima in fibrillazione mentre a squarciagola chiamo l'infermiera di turno che irrompe nella stanza seguita dal Dottor Torrence.
Questa volta non faccio storie quando lui mi dice di allontanarmi per poterla visitare. Le fa qualche domanda, lei apre la bocca ma nessun suono le sorpassa le labbra. A me iniziano ad aumentare i battiti cardiaci.
Perché non parla?
Stringo forte i pugni alla fine delle braccia, nella mia testa continuo a pregare Dio che mi dia la possibilità di sentire di nuovo la sua voce.
E alla fine accade.
Bassa, roca, un impercettibile suono sfiatato, ma è pur sempre qualcosa di positivo.
Mi sembra che un peso da diecimila chili mi si sia tolto dallo stomaco; ha riaperto gli occhi, la sua voce esiste ancora. Forse le preghiere servono davvero a qualcosa.
«Mi sai dire il tuo nome?» le domanda il dottor Torrence.
"Emory Scott", rispondo io nella mia mente muovendo solo le labbra, e il primo sospiro di sollievo arriva quando lei sussurra le mie stesse parole.
«Sai dirmi il tuo indirizzo, Emory?»
Faccio la stessa cosa di un attimo fa: muovo solo le labbra mimando la via di casa sua e, di nuovo, sospiro quando la sento rispondere correttamente.
«Sai dirmi che giorno è oggi?»
Inarco le sopracciglia a questa domanda, chiedendomi come lui si aspetti di sentire una risposta corretta. Probabilmente lei non lo sa nemmeno che per quasi sette giorni è stata in coma. Risponde rantolando che è il quattro di luglio, ma nel frattempo che lo fa i suoi occhi si posano su di me mostrando solamente confusione.
«Che...» La vedo inghiottire, chiudere gli occhi come se parlare le recasse fin troppo dolore.
Nessuno lo vede e nessuno lo percepisce, ma in questo preciso istante ho il cuore che minaccia di uscirmi fuori dal petto.
«Che ci fai tu qui?» finisce la domanda, come se fosse assurda l'idea di aprire gli occhi e trovare proprio me.
Eppure lo sa che io le promesse le mantengo, e gliel'avevo promesso che non l'avrei lasciata.
Sono giorni che sogno ad occhi aperti il suo risveglio, pensando e ripensando a cosa dirle; mi sono preparato parole, discorsi, e una marea di piani. Credevo di essere pronto a tutto ma evidentemente, dato il mio stato d'animo, non è così.
Abitiamo da sempre nella stessa città, a Cleveland, in Ohio. Da noi dura solo pochi mesi il sole che ci sbatte sulla pelle; di solito neve e freddo caratterizzano il nostro Paese tra autunno, inverno e primavera.
Guardo fuori dalla finestra osservando questa specie di coperta che ricopre ogni cosa. I tetti delle case sono bianchi, le cime degli alberi sono bianchi, le strade sono agibili solo grazie agli spazzaneve, ma ai loro lati tutto è colorato di bianco.
Questo cazzo di colore bianco che sta diventando il mio incubo peggiore.
E sento esattamente il momento in cui il cuore mi si ferma nel petto. Sento l'angoscia prevalere su ogni singola parte di me, e mi rendo conto di una cosa molto importante: se avessi dovuto puntare su qualcuno che il sorriso non me l'avrebbe mai tolto, quella era proprio lei.
Ma Emory Scott, inconsapevolmente, oggi me lo toglie questo sorriso dalla faccia. Me lo toglie con una naturalezza spaventosa.
Nessuno è mai riuscito a piegarmi o a spezzarmi fino ad ora, lei, invece, mi ha praticamente massacrato.

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