Capitolo 5

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Salve signorine belle😍😍 Questo capitolo lo dedico a due persone in particolare, oggi...
luckykatotoka Tesoro, spero che la febbre sia passata😣 In caso contrario provo a regalarti cinque minuti dove poterti rifugiare lontano da un termometro 😏💪
E poi c'è AmbraN02 Ecco il regalino del lunedì 🙈🙈🙈 Spero che questa settimana inizi alla grande👊👊

Ho visto la Sfortuna guardare
dalla mia parte e sussurrare:
«Sorridi, ho deciso di darti tregua.»
E allora ho sorriso.
Poi, però, ho capito che stava
parlando con l'individuo alle
mie spalle."
-Emory Scott-


Emory –Oggi-

È stata una fortuna che il sangue di Callie e quello di Phill siano legati da un profondo grado di parentela, perché è solo per questo motivo se adesso sto stringendo i lacci del grembiulino rosso accesso attorno ai miei fianchi. Il sorriso cordiale del mio nuovo capo allenta il mio stato d'animo nervoso per il fatto che prima d'ora non ho mai lavorato in un fast-food. So fare il caffè, servire pezzi di torta con lo zucchero a velo sopra e sono brava e veloce a portare ordinazioni ai tavoli, ma non ho mai cotto nulla in tutta la mia vita. Mi sono trasferita a casa di mia nonna perché fare le faccende domestiche le succhia via troppa energia; penso io a spazzare e lavare a terra, sono io che pulisco i bagni e che tolgo la polvere e sono sempre io che mi armo di detersivi e panni per lucidare i vetri dagli aloni. La sua cucina, però, è sempre stata zona off-limits. Non mi ha mai permesso di cucinare perché è una cosa che ama fare lei, e a me è sempre andata bene così. Solo ora mi rendo conto di quanto possa penalizzarmi un fattore del genere: se dovesse accadere che qualcuno del personale del Burger Phill si ammali, e se dovessi essere io a doverlo sostituire, ho il brutto presentimento che Phill potrebbe perdere la metà della sua abituale clientela. Quando Callie lo ha pregato di prendermi a lavorare, nonostante non gli servisse una nuova cameriera, avrebbe dovuto aggiungere anche la piccola informazione di base che riguarda il fatto che io sono in grado di mandare a fuoco una cucina anche solo provando a cucinare un'omelette.
Molto probabilmente il mio nervosismo si palesa direttamente sulla mia espressione, perché lui si avvicina e mi poggia cautamente una mano sulla spalla. «Non ti preoccupare, è un lavoro facile e tranquillo» mi dice. Lo penso anche io, almeno fino a che le mie mani indelicate resteranno lontane dai suoi fornelli. Mi spinge fuori dalla cucina dopo avermi presentato Tania, la ragazza che si occupa delle verdure, e un signore sulla sessantina che è più largo di due sedie affiancate. Ha detto di chiamarsi Bob, e che è lui che si occupa della carne insieme al ragazzo che dovrebbe seguirmi per i primi giorni. C'è un'altra cameriera, Sonia, ma con lei non servono presentazioni: ogni volta che sono venuta a mangiare qui mi ha sempre servito lei. Avrà una decina d'anni più di me, e fortunatamente è un tipo alla mano.
Osservo la sala, costatando che ci sono soltanto una decina di persone intente a mangiare; Il cibo che offre Phill è dei migliori della città eppure questo posto non è quasi mai affollato come dovrebbe essere. È lontano dal bordo strada, nascosto dietro diversi vicoli dove trovare un parcheggio libero equivale quasi a vincere alla lotteria. Quando si riempie accade solo perché il tempo permette alla gente di poter camminare a piedi.
Dopo avermi presentato i miei nuovi colleghi e fatto vedere il magazzino dove tiene la scorta della merce, si ferma allargando le braccia lungo i fianchi. La cosa di lui che più mi piace è che il suo viso non ha i segni di acidità che invece aveva Darren la maggior parte del tempo. «Questo è tutto quello che posso spiegarti io» afferma. «Al resto penserà Mayson.»
Di tutte le parole che ha detto, la mia mente ne ha percepita soltanto una: l'ultima.
Mayson lavorava per Phill, ma questa è una cosa che è cessata un anno e mezzo fa, quando ha fatto la valigia ed è sparito nel nulla.
Deve essere una sarcastica coincidenza, non può essere tornato e aver ripreso il suo vecchio lavoro così, su due piedi.
La sfortuna non può essere così maledettamente infame.
Un cigolio lento alla mia destra mi fa voltare di scatto mentre ancora cerco di metabolizzare la sua frase; la porta di servizio è lievemente aperta occupata dalla schiena di un ragazzo. I lacci di un grembiulino nero gli penzolano poco sotto il fondoschiena e, nonostante porti una tuta blu scuro, le linee che si intravedono lasciano fin troppo poco all'immaginazione. La maglia rossa aderisce alla sua pelle all'altezza delle spalle per poi ricadere più morbida lungo i fianchi. Alza un braccio prima di voltarsi, tirando verso la strada un mozzicone di sigaretta ancora acceso. La folata di aria fresca che entra mi sbatte addosso facendo scuotere il mio corpo con un brivido e sento la pelle d'oca prendere in mano il comando di tutto quello che sono all'esterno. Si è appena girato verso di noi, ma non c'è un solo attimo in cui il suo sguardo tocca la figura dell'uomo al mio fianco. Non si muove, resta fermo a guardarmi per quattro, cinque secondi, dove un potente silenzio regna indisturbato. La mascella squatrata, coperta da un leggero velo di barba, si serra non appena distoglie i suoi occhi dai miei per portarli al grembiulino rosso che indosso, poi tutta la sua attenzione vola verso Phill. Lo guarda come se avesse voglia di ucciderlo, ma è talmente una cosa di un attimo che molto probabilmente me lo sono solo immaginato. Nello stato confusionale in cui si trova il mio cervello adesso sarei anche capace di scambiare un cane per un unicorno rosa.
Davvero sto sul cazzo alla fortuna, perché di aiutarmi sembra che non ne abbia proprio voglia.
«Quando hai detto "Scott", credevo di dover affiancare un ragazzo, Phill, non lei.» È ancora immobile davanti alla porta di servizio ormai chiusa, e io non riesco a muovere un solo arto di tutto il mio stupido corpo. Il problema è che non riesco a capirne nemmeno il motivo. Ho sempre pensato che rivederlo mi avrebbe portato a fare una cosa soltanto: aprire la mano destra e piazzargliela direttamente sulla faccia. Solo poi urlargli contro chiedendogli cosa gli è passato per il cervello per sparire a quel modo senza dirmi nemmeno ciao. Ma se lui l'ha fatto con tanta leggerezza significa che allora tutto quello che eravamo non era così importante per lui come lo era per me, e attaccarlo gli darebbe il potere di avermi nelle sue mani.
Io non voglio questo.
Io non voglio che lui capisca quanto cazzo ci sono stata male per la sua assenza.
Quello che però non capisco io, è perché dalla sua voce ne esca solo un tono che sa' di risentimento nei miei confronti. Non mi vede da circa diciotto mesi; mi sono svegliata una mattina e nella casa accanto non c'era più nessuno. Il suo numero è staccato da quel giorno e il suo account Instagram non esiste più da allora.
Esisteva Mayson Cole, l'amico, il confidente, quello per cui ho lottato tutta la mia dannata vita pur di riuscire a farmi strada nel suo cuore. Ho combattuto per fargli aprire gli occhi, ho creato strategie per fargli ammettere che lui mi voleva come lo volevo io. Ho spinto, cercando di portare il gioco sempre più avanti, e mi sono buttata nelle braccia di Ryan solo per avere la reazione che aspettavo da lui.
Amare qualcuno in silenzio per me equivale a morire dentro, ma il modo in cui mi guardava, il modo in cui mi prendeva la mano e mi faceva rialzare, non mi hanno mai fatto morire del tutto. Mi sono aggrappata a quella speranza, poi mi ha dato il colpo di grazia quando troppo velocemente mi ha voltato le spalle lasciandomi solo un mucchio di domande senza risposte che pesano più di me.
Sono io che dovrei provare del risentimento verso di lui, sono io che sono stata abbandonata, e sono sempre io che ho il diritto di essere incazzata nera.
E le provo tutte queste cose, ma le soffoco perché il suo atteggiamento proprio non lo capisco.
Alzando lo sguardo al soffitto, Phill sospira e mi supera arrivando direttamente davanti alla sua faccia. Gli poggia una mano sulla spalla, proprio come ha fatto con me poco fa, solo che a lui la stringe.
«Sei tornato da appena tre giorni, Mayson. Aspetta almeno una settimana prima di iniziare a rompere le palle.» Non c'è cattiveria nelle sue parole, solo il tono leggero e scherzoso che fa capire che la sua è soltanto una battuta. Mi augura un buon lavoro prima di voltarsi e di sparire nella cucina, e io me ne resto immobile e in silenzio.
Buon lavoro un accidente! Non ho nemmeno iniziato e ho già voglia di fuggire da qui. Come faccio a lavorare tranquilla, spalla a spalla, con il peggior incubo della mia vita?
Cerco in tutti i modi di incrociare il suo sguardo per capire che intenzioni abbia; parlare e scoprire le carte adesso? Chiedere scusa per il suo comportamento inconcepibile? Perché io, da sola, non la so prendere questa decisione. Proprio oggi sono scappata dalla mensa perché non ero pronta ad affrontare la cosa, e da allora niente è cambiato. Non sono ancora pronta.
Ma se lui lo è, allora posso alzarmi le maniche della maglietta e affrontarlo muso a muso, perché di certo non mi tiro indietro.
«I turni di lavoro sono dalle diciotto alle ventidue» mi comunica. «Tutti i giorni, tranne il lunedì. Quello è il giorno di chiusura.» Si calca ancora di più il cappellino blu sugli occhi, togliendomi definitivamente la possibilità di guardarlo nell'unica finestra che può farmi capire qualcosa.
Di tutto quello che poteva dire ha tirato in ballo i turni di lavoro.
«Mayson» lo chiamo, rendendomi conto che pronunciare il suo nome ad alta voce mi fa uno strano effetto. È passato troppo tempo.
Stringe con le mani la sedia su cui si è appoggiato, la testa è ancora piegata verso il basso nascondendomi tutto quello che vorrei vedere.
«Puoi fare tutte le pause che vuoi, l'importante è che tutti i tavoli siano già serviti» aggiunge, ignorando del tutto il mio richiamo.
Sta scherzando per caso?
«Adesso ti faccio vedere come funziona il registratore di cassa.»
Mi passa accanto, l'odore del suo profumo mischiato all'odore del tabacco fa risvegliare in me qualcosa che mi sembra di conoscere, che mi sa di familiare. Scuoto la testa lentamente, oppressa da troppe cose che non riesco a collegare. C'è qualcosa che non va in lui: questo non è il Mayson Cole che conosco io. Lui non scappa dalle situazioni scomode, lui le affronta a testa alta anche quando sa di poter perdere, perché è stupido, perché è impulsivo, perché il comando ama averlo tra le mani. E lo so perché io e lui siamo sempre stati così.
Io e lui siamo sempre stati uguali.
Non ce la faccio a trattenermi; con un paio di passi lo raggiungo prima che entri in sala calcando di nuovo il suo nome, e lo afferro per un braccio istintivamente per la paura che mi ignori di nuovo. Per un istante resta fermo, immobile, ancorato sotto la mia presa nonostante sia leggera. I muscoli dell'avambraccio sono tesi, me lo sento sotto la pelle della mano perché se non fosse per il calore che emana sarei fermamente convinta di star toccando un pezzo di acciaio. Non vedo i suoi occhi quando con calma sposta l'attenzione sul punto in cui i nostri corpi sono uniti, ma li vedo quando finalmente trova il coraggio di guardarmi in faccia.
E mi si chiude lo stomaco di colpo.
L'intensità con cui si aggancia a me mi stravolge talmente tanto da indurmi ad arretrare di un passo. Non so su che cosa debba soffermarmi prima, se le sue labbra piene, il suo sguardo incomprensibile o la bianca cicatrice che gli scorre sulla guancia sinistra e che gli ha rovinato il volto. Tempo fa non ce l'aveva, come non aveva la tristezza negli occhi che gli sto vedendo adesso. Solo le sue labbra sono rimaste invariate, quelle stesse labbra che per anni ho sperato di poter provare anche solo per una volta.
Ma questo è il passato, e il passato non può cambiare il presente.
«Sei stato tu ad andartene, non io, quindi non comportarti come se fossi tu quello che ha il diritto di essere incazzato, perché io non ti ho fatto niente.»
Serra la mascella per la seconda volta da quando l'ho visto, quasi come se volesse iniziare ad urlarmi contro, poi di colpo cambia espressione e un sorriso amaro fa il suo ingresso. «Non sono incazzato.»
Sbuffando, incrocio le braccia al petto e imbruttisco lo sguardo. «Un anno e mezzo che non mi vedi e non sei stato nemmeno in grado di dirmi "ciao, Emory, è un piacere rivederti"
Fa una smorfia. «Questo non vuol dire che sono incazzato.»
«Allora vuol dire che non volevi vedermi?»
Inspira aria dal naso, il petto –già abbastanza gonfio di suo- si alza, poi butta fuori tutto espirando lentamente. Potrebbe sembrare un gesto innocuo, e forse lo è, ma io lo conosco troppo bene: sta cercando di mantenere la calma. Il perché, ovviamente, non lo capisco.
«Non vuol dire nemmeno questo» obbietta. «Solo che non mi aspettavo di vederti qui.»
«Se può farti sentire meno solo nemmeno io mi aspettavo di vederti qui» confesso acidamente. «Quando Callie mi ha detto del lavoro non credevo che...» e poi mi blocco.
Le rotelle del cervello girano a mille mentre prego in silenzio che l'idea che si sta palesando nella testa sia quella sbagliata.
«Hai parlato con lei oggi a mensa» affermo. Mi guarda stupito, poi piega la testa di lato e un angolo delle labbra gli si alza in un sorriso storto. Non dovrei farci caso, ma quell'espressione ha il potere di farmi sentire un vuoto allo stomaco. Un vuoto che non sentivo da troppo tempo.
«Quindi mi hai visto ma non ti sei fatta vedere. E poi mi punti il dito contro dicendo che sono io che non voglio vedere te.»
È di trionfo il sorriso che ha stampato sulla faccia, e lo odio perché sono pienamente consapevole che ha ragione.
Non ho nessuna intenzione di rispondere a questa frecciatina, perché la mia priorità al momento è sapere se ho ancora una migliore amica oppure no.
«Le hai detto che eri tornato a lavorare qui?»
«Me lo ha chiesto e le ho risposto. Avrei dovuto mentire?»
Mordo l'interno della guancia, passando convulsamente le mani sulle cosce. Devo tenerle impegnate, altrimenti so già che la prima cosa che farò sarà prendere il telefono, chiamare Callie, e mandarla al diavolo mille volte al secondo.
Lo ha fatto apposta. Non esisteva questo lavoro prima che lei incontrasse Mayson alla mensa, ma dopo aver parlato con lui sì.
Quella maledetta stronza mi ha incastrata.
«Fammi vedere questo registratore di cassa» borbotto.
Il suo braccio si allarga, facendomi strada verso la sala.
«Benvenuta al Burger Phill, Emy.»
Impongo a me stessa di guardare dritto davanti a me e continuare a camminare. Non abbiamo parlato davvero, non abbiamo chiarito un bel niente, e la rabbia che provo verso di lui non è minimamente svanita. Non dovrei sentirmi sotto sopra, eppure mi ci sento lo stesso perché quel nome mi risuona in testa per tutta la santissima sera peggio di un disco rotto.
Emy.
Emy
Emy.
Non so perché mi ha chiamata in quel modo, ma sentire la sua voce pronunciarlo mi ha smosso qualcosa dentro.
Qualcosa che è mio ma che ancora non riesco a definire. 

I Ricordi che ho di teOnde as histórias ganham vida. Descobre agora