Capitolo 8

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 Quando metto piede al Burger Phill decido di stamparmi in faccia il sorriso di chi non ha il minimo problema nella vita. Ho preferito fare un giro per schiarirmi le idee e sono arrivata direttamente qui con mezzora di anticipo senza tornare a casa. Volevo evitare di dire a mia nonna che non ci sono proprio entrata in quella casa, perché tanto avrebbe fatto domande alla quale io non avrei potuto rispondere. Non intendo farmi atterrare dagli strani comportamenti di Vincent, e non intendo mandare in tilt il mio cervello a forza di pensarci. Se la lontananza ha avuto dei risvolti di questo genere significa allora che è così che va la vita. In fondo l'ho sempre saputo che la lontananza rovina anche i rapporti migliori, quindi al diavolo tutti quanti.
Il sorriso di Phill non appena mi vede mi contagia all'inverosimile; dice che non gli capita mai di vedere i suoi dipendenti arrivare prima del loro turno e che è una cosa che apprezza. E me le godo ora le sue parole carine e di ammirazione per chi ha davvero voglia di lavorare, perché tempo qualche giorno e so già che non le sentirò mai più appena avrà conosciuto la mia vera indole. Dubito che mi accoglierà con la stessa felicità quando mi vedrà entrare di corsa un minuto prima dell'orario prestabilito. Mi conosco, e so che andrà esattamente così quando inizierò a sentirmi a mio agio in questo posto. Sempre che questo –prima o poi- accada.
Aiuto Sonia a servire un paio di tavoli dopo che ne ha preso le ordinazioni; ha i capelli biondi raccolti in una coda perfetta, una di quelle che io non sarei capace di fare nemmeno dopo un corso avanzato per parrucchieri. Neanche il più fino capello spunta fuori da quell'opera d'arte, e il trucco che porta sul viso sembra fatto appena cinque minuti fa nonostante siano già cinque ore che lei fa avanti e indietro a portare vassoi pieni di roba. Tania, la ragazza delle verdure, è stata sostituita da Ricky, un ragazzo spagnolo che da quanto ho capito è arrivato in America circa tre anni fa. È un bel tipetto tutto sorrisi e complimenti che non smette mai di parlare. Ha due occhi che incantano e il modo di rivolgersi costantemente malizioso. Sono straconvinta che se Phill lo mettesse in mezzo alla strada attirerebbe nel fast-food anche quelle madri che pensano che il cibo che diamo sia solo un accumulo di pessime calorie per i loro figli. Sarebbe un'attrazione perfetta per la gente, con il Karma che ha questo posto si riempirebbe di donne nel giro di un attimo.
Ognuno qui ha il suo compito e i suoi orari prestabiliti, anche Phill ha i suoi turni nonostante sia il capo di tutto. L'unico che sembra non togliere mai le tende da qui dentro è Bob, che una volta piazzato davanti alla sua griglia non smette di lavorare fino a che i clienti non sono finiti. Questo, almeno, è quello che mi ha confidato Sonia tra un servizio e l'altro. Mi ha anche detto che tre volte a settimana i turni serali cambiano; a rotazione due del personale attaccano mezz'ora più tardi per restare a pulire il locale più a fondo dopo la chiusura delle ventidue.
«Quindi è per questo che Mayson ancora non arriva?» le domando facendomi due calcoli.
«Esatto» mi conferma. «Stasera resteranno lui e Bob.»
In realtà la mia è stata una domanda un po' a trabocchetto; sono le diciotto e un quarto, il turno è iniziato quindici minuti fa. Nel profondo iniziavo a domandarmi se non avesse deciso di licenziarsi dopo che ha scoperto che lavoro qui anche io.
«Ed è un bene che Mayson si sia offerto di restare, perché ho avuto un problema con la babysitter e non può restate con la bambina» aggiunge con nonchalance mentre io sbarro gli occhi.
«Hai una figlia?» le domando sconvolta.
Sonia annuisce, e i suoi occhi si illuminano di una luce diversa mentre parla di sua figlia. Le leggo la tristezza sul viso quando mi racconta di quanto sia difficile lasciarla nei turni di lavoro, soprattutto perché il suo orario è diverso dal nostro. «Devo lavorare minimo sette ore al giorno per cercare di farcela con le spese. Suo padre è sparito quando ancora ero incinta, e crescere una bambina da sola non è una cosa facile.»
Abbassa lo sguardo, forse per nascondere a me il dolore che può venir fuori dai suoi occhi. Non so come comportarmi, non so se sia meglio compatirla o cercare di farle rialzare il morale. Mi spacca il cuore ascoltare queste cose, nella mia famiglia non sono mai capitati casi del genere e non ho la più pallida idea di come debba essere il tenore di vita che fa questa ragazza per far conciliare tutto il suo mondo. Di certo non può essere niente che possa definirsi facile.
Sento tintinnare i sonagli della porta d'entrata mentre Sonia continua a parlare; tiro fuori dal taschino del grembiule il piccolo blocchetto di carta, così da non farmi prendere impreparata quando i clienti si metteranno a sedere, ma non faccio nemmeno in tempo a prendere la penna che una voce tuona dietro di me.
«Tua figlia è un mostro!»
Alzo di colpo gli occhi e mi volto di scatto. Ho sentito il cuore iniziare a battere più veloce ancor prima di avere avuto il tempo di incontrare il suo viso. Non sono nuovi clienti, è lui.
Porta il solito cappellino blu calato sugli occhi, l'unica cosa visibile a primo impatto è la sua bocca e quella cicatrice che ha sulla guancia. Sonia si sposta al mio fianco, guardandolo confusa. Quando alza la testa, i suo occhi non vergono verso di me nemmeno per un attimo lasciandomi addosso una delusione che odio provare.
«È qui fuori con tua madre. Stanno aspettando che tu finisca il turno» la mette al corrente. «Le ho toccato una guancia per salutarla e lei mi ha morso» continua stringendo lo sguardo. Sonia scoppia ridere, giustificando la sua piccola creatura con la scusa che sta mettendo i dentini, quello che esce a me, però, è solo un sorriso di cortesia dovuto al discorso mentre cerco di spiegarmi come mai Mayson porti una maglietta a mezze maniche e i guanti sulle mani. È un'accoppiata che non ha senso.
Ma non è nemmeno questo ad infastidirmi, quanto il fatto che mi sento messa da parte; non mi ha proprio calcolata e anche se non dovrebbe fregarmene assolutamente niente mi ritrovo a sentirmi tutto il contrario.
La porta si apre di nuovo, questa volta entra una coppietta di ragazzi che sembrano avere meno di diciotto anni. Si tengono per mano, sorridono come se il mondo ai loro occhi fosse tutto rose e fiori. Li invidio, dannazione. Li invidio come se tra le mani avessero l'oro colato. Ho il pretesto perfetto per allontanarmi, così mi muovo per raggiungerli e prendere le loro ordinazioni, ma Sonia mi ferma allungando un braccio davanti al mio petto.
«Vado io, così poi mi tolgo questo grembiule e puoi divertirti a portare tutti i vassoi che vuoi» mi comunica.
Si allontana dal tavolo dove ci siamo fermate a parlare, piazzandosi in faccia il classico sorriso di benvenuto che ha soltanto chi sa fare bene il suo lavoro. Fino ad un minuto fa sembrava che le fosse passato sopra un tir e non avevo la minima idea di come migliorare le cose, ma è bastata una battuta sulla sua bambina e un paio di clienti che lei è tornata raggiante come se non avesse mai toccato un argomento pesante come la sua vita.
Avrei preferito che avesse lasciato a me quei clienti, perché l'alternativa di restare con lui mi mette solo ansia. Sento la sua presenza dietro le spalle, come se ad ogni secondo si avvicinasse sempre di più. Ho le mani poggiate sul tavolo, e mi accorgo che le mie sensazioni non sono errate quando vedo la sua, ancora coperta dal guanto nero, posarsi accanto alla mia.
Il calore del suo corpo mi avvolge come se mi stesse abbracciando; lo sento espandersi dalla schiena fino alle braccia. Cerco di ignorare il brivido che mi passa addosso, mentre il profumo di bagnoschiuma e l'odore di sigaretta ammazzano tutti gli altri odori del locale.
Mi sta troppo vicino, e mi resta difficile anche respirare.
«Ciao, Emory Scott» mi sussurra vicino all'orecchio, e per un secondo trattengo il fiato. Quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui il suo viso è stato così vicino al mio? Quanto tempo è passato da quando non sentivo più lo stomaco ribaltarsi al suono della sua voce?
Ne è passato tanto, ma a quanto sembra non così tanto da far cambiare le mie reazioni alla sua vicinanza. Sono esattamente le stesse di anni fa, e rendersene conto non è una cosa che mi fa fare salti di gioia.
Borbotto un saluto in risposta, nel frattempo che invoco le mie sane facoltà mentali.
«Sono carini, vero?» Con la cosa dell'occhio vedo il suo mento muoversi verso la coppietta che è appena entrata. Mando giù aria, perché il suo respiro vicino alla mia pelle è riuscito a prolungare il brivido che avevo sentito non appena si era avvicinato. Di colpo ho voglia di voltarmi, senza un motivo né un valido perché. Ho solo voglia di guardare i suoi occhi e continuare a sentire quest'eccitazione nello stomaco che mi è così tanto familiare, ma non posso farlo. Abbiamo giocato a lungo noi, e chi ne è uscita distrutta sono stata io.
Non voglio che mi faccia a pezzi di nuovo. Non voglio arrivare al punto di rimettere tutta la mia vita nelle sue mani, perché senza più un controllo diretto ho la sensazione che questa volta ne uscirei più distrutta di prima.
Cercando di trovare un falso equilibrio dentro di me, mi schiarisco la voce prima di parlare. «Sembrano innamorati.»
«Non sembrano. Lo sono» dice con decisione. «Guarda i loro occhi. Si guardano come se fossero l'una l'aria dell'altro. Come se la sola idea di doversi separare non potesse nemmeno essere presa in considerazione.»
Involontariamente mi ritrovo a serrare le gambe. Mi sembra di essere tornata nel passato quando il gioco tra di noi era ancora aperto, solo che a quel tempo ero io a stuzzicare lui. L'ho fatto per una vita intera, mentre lui teneva i fili del mio cuore sempre in tiro. Senza mai avvicinarli troppo, e senza mai lasciarli andare del tutto. In bilico, tra il desiderio che lottava per raggiungerlo e una silenziosa preghiera che supplicava di smetterla, di darmi finalmente il via libera per avere un pretesto e non rincorrerlo più. Ma lui non me l'ha mai dato questo pretesto. Briciola dopo briciola mi incitava a non mollare mai, perché io me lo sentivo addosso che il suo desiderio era identico al mio anche se cercava di tenermi lontana.
Ora sembra che il gioco si sia ribaltato. Ci sono io incastrata tra lui e un tavolo, ad ascoltare parole che potrebbero avere mille e mille sensi diversi. In questo preciso istante potrei dire che i ruoli sono cambiati e che sono io che tengo tra le mani i fili di tutto. Mi agita questa sensazione, nello stesso modo in cui mi eccita.
«Probabilmente tra qualche anno saranno sposati» ipotizzo, abbozzando un sorriso, ma evidentemente lui non la pensa come me.
«L'amore fa schifo» replica. «Probabilmente domani succederà una catastrofe e le loro strade si divideranno.»
«Da quando sei diventato così cinico, Mayson?»
Lo sento sospirare vicino alla mia spalla mentre aspetto che risponda. Da lui ci si può aspettare di tutto su un discorso del genere, ma questo discorso non lo continua.
«Vado dietro ad aiutare Bob. Se ti serve un aiuto con i tavoli chiamami, Emory.»
Mi assale il freddo quando si sposta, lasciandomi immobile senza la forza di muovermi per qualche secondo. Sonia mi guarda sorridendo dolcemente a qualche tavolo di distanza, ma a me la voglia di sorridere è passata del tutto mentre mi rendo conto di una cosa importante.
Ha abbandonato il campo da gioco, proprio come faceva un tempo quando si rendeva conto che la cosa si stava spingendo troppo in là. Questo era un gioco tranquillo, eppure lui ha abbandonato lo stesso.
Sembra non sia cambiato niente da allora: lui si è appena allontanato e quei fili che credevo spezzati sono tornati a galla di nuovo, pronti ad essere comandati da lui.
Ma questa volta è diverso.
Questa volta non ho intenzione di stare al suo gioco.
Quando finisco il mio turno saluto tutti, tutti tranne lui. Mi ha evitata fino ad ora, quindi non vedo perché dovrei avvicinarmi io. Non è che lo faccio perché di punto in bianco sono diventata una bambina capricciosa, lo faccio solo perché adesso non ho paura delle conseguenze che riceverò quando gli risponderò con le sue stesse, identiche carte.
Ormai Mayson l'ho perso tempo fa, non posso avere paura di perdere qualcosa che non ho.
Salgo in macchina con uno spirito nuovo, decisa che niente mi porterà ad abbassare la testa. Giro la chiave per mettere in moto, ma lo spirito combattivo con cui ho lasciato il Burger Phill inizia già a vacillare non appena sento un brontolio al posto del solito rumore di accensione. Le lancette del quadro dell'auto sono tutte immobili e restano così per le due volte in cui riprovo ad accendere.
«Non è possibile» sussurro. «Ti prego non puoi lasciarmi a piedi proprio adesso.»
Sbatto le mani aperte contro il volante, imprecando contro questo maledetto furgone. L'ho fatto aggiustare ieri, non può aver deciso di morire così, di punto in bianco anche oggi. Non posso essere così sfigata.
Provo ad aprire il cofano e a controllare l'interno; decine di fili e tubi mi si presentano davanti agli occhi mentre l'arrabbiatura si tramuta in disperazione. Più guardo e più mi rendo conto che non so dove mettere le mani. Con un ringhio soffocato richiudo tutto e salgo di nuovo sul sedile, sperando che nell'arco di due minuti Dio si sia messo una mano sulla coscienza e abbia deciso di fare un miracolo, e dieci minuti più tardi sto camminando a piedi imprecando tra i denti continuamente. Dio, una mano sulla coscienza non se l'è messa proprio per niente.
Mi sto praticamente abbracciando da sola, cercando di non tremare per il freddo; se avessi saputo che questa serata si sarebbe chiusa in questo modo mi sarei portata dietro una felpa. È ancora settembre e durante il giorno non c'è bisogno di coprirsi chissà quanto, ma la mattina presto e la sera le temperature sono troppo basse per camminare a piedi vestiti solo con una misera maglia leggera, anche se a maniche lunghe. I lampioni illuminano la strada lungo il marciapiede quasi deserto; sembra che stasera abbiano imposto un coprifuoco dato che le persone che popolano il quartiere si possono contare sulla punta delle dita. Ci avrei messo meno tempo per arrivare a casa se fossi passata per i vicoli e le stradine secondarie, ma la maggior parte non sono illuminate, e non me la sono sentita di restare anche al buio oltre che a piedi.
Il muso di una macchina grigia metallizzata mi si affianca rallentando e mi rendo conto di quando possa essere stronzo il destino. Siamo più di trecentonovantamila abitanti a Cleveland, e tra tutte queste persone proprio lui doveva riconoscermi dalle spalle e rallentare.
Ha il gomito appoggiato al finestrino completamente aperto, dall'interno vedo il fumo della sigaretta elevarsi nell'auto e disperdersi nell'aria. Il cappellino è sempre al suo posto, solo che ora è girato al contrario, dandomi la possibilità di guardare i suoi occhi divertiti e quel maledetto sorriso di chi sta osservando qualcosa di buffo.
Continuo a camminare ignorandolo, e lui insiste a far camminare a passo d'uomo la sua auto.
«Ho visto il furgone ancora parcheggiato. Ti ha lasciata di nuovo a piedi, eh?»
Allargo le braccia, intenzionata comunque a non fermarmi. «No, Mayson. Avevo voglia di gelarmi, quindi ho deciso di fare una bella camminata a piedi» replico guardando dritto davanti a me.
«Saresti potuta rientrare e dirmelo. Ti avrei riaccompagnata io.»
Sono indecisa se mandarlo al diavolo direttamente oppure se continuare ad ignorarlo e basta. Possibile che non gli sia venuto in mente che se non ho detto niente è solo perché non lo voglio un passaggio da lui? Eppure non mi sembra un ragionamento di così elevata intelligenza a tal punto che non possa riuscire ad arrivarci. Alla fine lo ignoro, aumentando il passo per quanto le mie gambe ghiacciate me lo possano permettere, e non rispondo quando mi dice di salire in macchina con lui.
«Avanti, Emory, fa freddo. Non fare l'idiota e sali.»
Fa un altro piccolo scatto per raggiungermi, ma io non mollo. «Non fa freddo. Sto benissimo così.»
«L'hai detto tu che stavi gelando.»
«Non ho affatto detto questo» sibilo tra i denti.
«Non lo avrai detto, ma lo hai fatto capire dalla tua battutina sarcastica» ribatte, buttando fuori dal finestrino il mozzicone di sigaretta accesa. Che vizio del cavolo. Farei i salti di gioia se qualcuno della forestale lo beccasse a fare un gesto del genere, così me lo toglierei di torno. Non può far finta che non esisto il novanta percento delle volte e poi comportarsi così, come se fossimo di nuovo migliori amici. Mi blocco, buttando fuori un sospiro talmente lungo e irritato che mi ha quasi prosciugato i polmoni, poi mi volto a guardarlo mentre si ferma accanto a me. «Non hai nient'altro di meglio da fare che darmi il tormento?»
Non fa nemmeno la finta di pensarci su che subito indurisce lo sguardo. «Certo che ho di meglio da fare, ma non posso lasciarti fare quaranta minuti di strada a piedi quando con la macchina te ne risparmierei minimo trenta.»
«Perché?» sbotto, allargando le braccia. Mi rendo conto che questa è una domanda mirata ad un altro scopo solo dopo aver pronunciato la parola. Una piccola parte del mio cuore aspetta ancora di sentire una risposta che per anni ha aspettato invano. Vorrei sentire la sua voce dirmi che non può lasciarmi camminare da sola per strada, al freddo e al buio della sera, perché ha paura che mi succeda qualcosa di brutto, perché si preoccupa per me.
Perché è una cosa che non ha mai smesso di fare. È questo quello che il cuore spera di sentire da una vita, perché dietro a frasi del genere c'è molto altro a cui si può arrivare. Ma sono realista, non sono una stupida. È della vita vera che stiamo parlando e nella vita vera niente va come nei film.
Sospira anche lui, come me poco fa. Un sospiro diverso il suo, non arrabbiato come il mio ma esasperato da qualcosa che può capire soltanto lui. «Non posso lasciarti al freddo perché se tu ti ammalassi Sonia dovrebbe ricoprire i tuoi turni a lavoro. Non mi sembra corretto.»
Sento la botta che mi è arrivata proprio dietro la schiena, quel colpo al cuore che si sente quando i tuoi desideri si infrangono contro un muro troppo solido con cui tu potresti competere. Ha ragione Vincent quando dice che adesso non è più il passato. Ora è ora, e sono perfettamente consapevole che le cose sono cambiate, ammetterlo, però, fa male.
Dietro di lui sta iniziando a formarsi una piccola fila di quattro, cinque macchine. Un paio hanno anche iniziato a suonare il clacson, eppure a lui sembra non fregare niente di niente. Torno a camminare ancora più incazzata, perché se prima il dolore per qualcosa mi atterrava, adesso mi dà la forza di continuare a tirare fuori le unghie.
«Porca puttana, Emory! Smetti di comportarti come una ragazzina.»
Sento un tizio urlare da dietro di noi, intimandolo ad accelerare.
«Stai facendo fare la fila» gli faccio notare senza voltarmi.
«Non me ne frega un cazzo della fila. O sali in macchina e finiamo questa stronzata, oppure tengo il tuo stesso passo fino a casa.»
La sua bocca potrebbe mentire e tenere questa velocità per altri due minuti, giusto il tempo che si rompa le scatole e se ne vada schiacciando il pedale dell'acceleratore. Ma sono i suoi occhi che mi mettono in guardia: quelli non mentono affatto. È capace di pedinarmi a questa lentezza anche a costo di bruciare la frizione dell'auto. Rallenta ancora di più, e vedo fermarsi la terza macchina dietro di lui. Credo che il tipo pienotto e con la faccia incazzata che sta scendendo sia lo stesso che gli ha urlato dietro poco fa. Lo nota anche Mayson, osservando lo specchietto retrovisore.
«Se scoppia la rissa è colpa tua, Emory» dice, e sento la leva del freno a mano tirarsi. Lo vedo togliersi il cappellino da baseball, e nell'oscurità la sua mano passa tra i suoi capelli. Sbarro gli occhi di colpo: si è tolto il cappello perché in uno scontro può essergli di intralcio. Si sta davvero preparando a fare a botte, e vuole farmi sentire in colpa se questo accade solo perché non sto salendo sulla sua maledettissima macchina.
Presa dal panico mi volto verso il tizio che sta avanzando verso di noi, alzando le mani in aria e cercando di tirare fuori un sorriso cordiale che sappia di scuse.
«Stiamo partendo» lo informo. «Mi dispiace per la fila.»
Mi affretto a fare il giro della macchina e apro lo sportello buttandomici praticamente dentro, il senso di vittoria che ha stampato sulla faccia mentre riparte mi fa venire voglia di pestarlo fino a domani mattina.
«Non sei cambiato per niente, Mayson. Sei sempre un manipolatore del cazzo.»
Vorrei sputargli contro altre mille insulti, ognuno mirato ad ogni volta che per colpa sua e della sua assenza mi sono sentita uno straccio, ma tutto passa in secondo piano quando gli occhi mi cadono sulla mano con cui sta cambiando le marce. È livida, gonfia, le nocche sono tutte spaccate quasi a sangue. Anche la mano con cui sta tenendo lo sterzo è più o meno alle stesse condizioni dell'altra. Al lavoro è arrivato a mezze maniche e con un paio di guanti neri e per tutto il turno ha tenuto addosso guanti anallergici celesti, adesso ne capisco il motivo e mi viene il volta stomaco all'istante.
«Mayson, le tue mani...»
«Stanno bene» chiude l'argomento ancora prima di darmi il tempo per poterlo aprire. Dice che stanno bene anche se a me sembra tutto il contrario, ma con il tempo ho imparato che quando qualcuno svia un argomento o lo interrompe sul nascere è sempre meglio non andare a fondo, quindi, nonostante vorrei chiedergli che cosa abbia combinato, chiudo la bocca e non la apro più per tutto il resto del tragitto.
Quando parcheggia al vialetto di casa sua il silenzio è ancora padrone di ogni cosa, ed è una situazione strana la nostra, perché dovremmo scendere, chiudere gli sportelli e andare uno a destra e uno a sinistra.
Eppure siamo ancora tutti e due seduti, con il quadro elettrico spento, aspettando non so nemmeno io cosa. I nostri sguardi vagano sul giardino davanti a noi, dove le luci di casa sua sono ancora tutte completamente accese mentre in quella di mia nonna tutto giace nell'oscurità. In passato sarebbe sceso e saremmo entrati entrambi in quella casa che conoscevo come le mie tasche, ora, però, mi ricordo che siamo nel presente.
Apro lo sportello, pronta a scendere da questa gabbia troppo stretta che mi fa mancare l'aria. Lo faccio senza dire una parola, senza nemmeno ringraziarlo per il passaggio, perché alla fine si può dire che mi ha quasi obbligato a salire accanto a lui, ma dopo un paio di passi faccio dietro front e appoggiandomi alla cappotta della macchina lo guardo scendere e imitare i miei movimenti. Pochi sono i centimetri che ci dividono, ma lui sembra lontano anni luce da me.
«Perché te ne sei andato?» Di tutte le cose che vorrei sapere su di lui questa è l'unica che per me abbia davvero importanza. Me la sono fatta troppe volte questa domanda, e aspetto di sentire una risposta da troppo tempo.
Dopo qualche secondo scuote la testa lentamente. «Questo non posso dirtelo.»
«Credo di meritarmela una spiegazione decente.»
Di nuovo il silenzio cala sulle nostre teste. Sembra perso in una battaglia dove sta cercando di uscire vincitore da solo. Quando torna a guardarmi, qualcosa in lui è cambiato. Si è freddato, gelato, distanziato più di quanto non lo sentissi distante fino ad un attimo fa.
«Mayson» lo incito.
«A volte non sapere la verità risparmia del dolore inutile.»
«Te ne sei andato senza dire niente. Io il dolore l'ho sentito lo stesso» obbietto stringendo gli occhi. Lui non ha idea di quanto io abbia sofferto il giorno in cui ho scoperto che in quella casa non c'era più nessuno.
Si stacca con calma dall'auto, dandomi le spalle e avanzando verso casa sua. A metà strada, si volta un'ultima volta.
«Mi dispiace. Non volevo farti soffrire, Emy.»
Di nuovo questo nome che mi batte nella mente.
Di nuovo il nulla al posto di una risposta sincera.
«Eppure l'hai fatto» mi ritrovo a dire, soffiando nell'aria queste parole talmente silenziose che solo io riesco a sentire. 

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