Se qualcuno le avesse chiesto: "ti piace correre?" avrebbe detto di no, che lo detestava. Odiava l'odore dei vestiti sudati, la fatica, quella continua sensazione di non farcela, la noia della ripetizione del mettere un piede davanti all'altro. Non sapeva spiegarsela nemmeno lei quella nuova ossessione per la corsa. Se le avessero chiesto perché correva, avrebbe detto per farsi la doccia, dopo. La differenza tra una doccia e la doccia dopo la corsa era la differenza tra la sua attuale vita sessuale e quella dei primi tempi con Leonardo. Il fatto è che lei, con Leonardo, stava ancora insieme. Erano passati poco più di cinque anni dal giorno in cui lui le si era inginocchiato davanti e le aveva dichiarato il suo amore offrendole in dono una supposta lassativa effervescente, che a onor del vero le era anche capitato di usare in un giorno di emergenza. Solo che se l'era messa da sola.

Si allacciò le scarpe, mise le chiavi di casa nella tasca dei pantaloni e uscì.

Da quando correva si era convinta di non avere un cuore, o che comunque fosse diventato un organo irrilevante del suo corpo. Non lo sentiva, nemmeno dopo un'ora di corsa. La fatica era nel respiro, nella sensazione di non avere abbastanza aria, nella gola asciutta per aver respirato troppo a lungo dalla bocca, la fatica era nelle gambe che sembravano non voler collaborare, che sembravano diventare di piombo o di marmo. Il suo cuore, invece, pareva indifferente.

Mentre gli alberi del parco le scorrevano accanto, cercò di concentrarsi sul battito del suo cuore, senza successo. Dov'era finito il suo cuore? Probabilmente, dal petto, si era fatto largo tra gli altri organi, aveva perso tempo cercando di districarsi tra le spire dell'intestino per poi scivolare lungo la gamba sinistra e tentare di scappare dal tallone o dall'alluce. Se le fosse stato possibile, anche lei avrebbe tentato la fuga da se stessa. Forse era anche per quello che correva.

A Chiara sembrava di non capire più nulla, di provare allo stesso tempo troppo dolore e niente. Aveva l'impressione di assistere al processo che porta alla pazzia. Le sembrava di essere spettatrice del suo diventare matta.

Quando raggiunse il posto smise di correre e si arrampicò sul terrapieno ricoperto di sterpaglie e rovi. Era per quello che correva, anche se non l'avrebbe mai ammesso con nessuno – nemmeno con Alessandra, nemmeno da ubriaca – correva per raggiungere il suo posto per morire. Si trattava di un tratto di binari ferroviari attivi e accessibili da chiunque. In quel punto curvavano un po', e Chiara pensava che quello, insieme alla vegetazione circostante, avrebbe impedito al conducente del treno di vederla e frenare in tempo, e a chiunque altro di vederla e provare a farla desistere. Le sembrava il posto perfetto per morire, anche se detestava il pensiero di trasformare in omicida una persona qualunque. Aveva letto da qualche parte che molti conducenti, in seguito a incidenti di quel tipo, lasciavano il lavoro o lo perdevano in seguito, perché portati a rallentare la corsa nei pressi dei cavalcavia o di luoghi graditi agli aspiranti suicidi.

Pensare al suicidio era diventata la sua nuova occupazione a tempo pieno. Se fosse stato possibile morire semplicemente spegnendo un interruttore o inghiottendo una pillola, sarebbe già morta. Il fatto di dover compiere un gesto eclatante e completamente fuori di testa come buttarsi da una finestra, tagliarsi le vene o – appunto – sdraiarsi sui binari di un treno, rendeva la cosa molto più complicata del necessario. Perché doveva vivere per forza? Lei la forza per vivere non ce l'aveva più. Aveva fallito in tutto. Non c'era niente di buono che potesse fare, non ne era proprio capace.

Rimase a guardare i binari. La parte pazza di lei ci si sarebbe sdraiata, per riprendere fiato, per arrendersi, per dormire, la parte complementare, quella "normale" – qualunque cosa la parola normale potesse significare – era terrorizzata e cercava disperatamente di togliere Chiara da lì. Se il film Inside out avesse guardato nella testa di Chiara, invece di cinque personaggi a farsi la lotta ce ne sarebbero stati dieci, cinque per ciascuno dei due schieramenti che si agitavano nel suo cervello. Gioia sarebbe stata afona, o comunque irrilevante, mentre Rabbia, Tristezza e Paura si sarebbero contesi a suon di botte il ruolo di protagonista.

Se avesse avuto una pistola se la sarebbe puntata alla tempia. Dato che non esisteva un interruttore per spegnere i pensieri, una pallottola le sembrava un'alternativa percorribile.

Era vicina ai binari. Un passo e avrebbe raggiunto il centro di una traversina. Sarebbe stato facile. Con la punta di una scarpa diede un calcio al metallo del binario, come per tastarne la consistenza. Si inginocchiò un attimo per raccogliere un sasso. L'arrivo del treno la sorprese in quel momento. Ne sentì lo sferragliare, la vibrazione sotto ai piedi, il fischio. Si riscosse dai suoi pensieri e scappò via come un animale terrorizzato.

Era più forte di lei. L'istinto di sopravvivenza era più forte del dolore e più forte della volontà. Fu l'unica cosa che riuscì a pensare mentre ruzzolava giù dal terrapieno senza nemmeno rendersene conto. Mentre ritornava correndo verso casa, invece, pensò che avrebbe fatto quella telefonata, non era più rimandabile.

(continua...)

Aria e altri coccodrilliWhere stories live. Discover now