【 twenty one 】

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Sono tornata. Per spiegazioni andate a leggere le note a fine capitolo.

Quando da piccolo Frank si metteva a pensare al Natale, come la maggioranza dei bambini lo ricollegava alla neve. Si immaginava sempre che la mattina dopo la vigilia si sarebbe risvegliato, ancora intorpidito dal calore delle coperte e dall'atmosfera vacanziera, avrebbe volto il viso verso la finestra ed ammirato milioni di fiocchi di neve volteggiare lievi e panciuti verso il suolo, in una calma danza candida e fredda, impedendo così la visuale dei tetti dei vicini. E poi sarebbe corso nella camera dei genitori e avrebbero tutti insieme fatto colazione e scartato i regali, che Linda non voleva mai si aprissero il ventiquattro, davanti al caminetto, sarebbero stati tutti sorridenti, magari ci sarebbero stati pure i nonni, e sarebbe stato perfetto, il freddo di fuori ed il calore dell'affetto nelle mura di casa. Ora Frank non si creava più idilliaci film sul Natale perfetto, semplicemente perché la crescita con dita caute ma intransigenti gli aveva slacciato la benda dell'innocenza che recava stretta sul viso, e mentre questa scivolava al suolo aveva imparato a guardare il mondo, a studiarlo, ammirando la crudeltà del caso. Che poi era capitato soltanto un paio di volte che svegliatosi la mattina di Natale stesse nevicando, ed in quel momento la neve Frank se la sentiva più all'interno della testa che fuori: sentiva una vera e propria tempesta nella testa, con miliardi di pensieri, di fiocchi impazziti che vorticavano confusionari in preda al vento, e come minuscoli aghi di ghiaccio gli trafiggevano il viso, sublimandosi così in fretta da non farlo neanche accorgere della collisione, se non fosse stato per la mordente e continua sensazione di freddo. Comunque sul piano fisico effettivamente aveva fatto una bella nevicata nei giorni precedenti, e sembrava che ciò avesse cristallizzato le preoccupazioni od il malessere del novantanove percento della popolazione di Belleville. Gli pareva che ognuna delle persone attorno a lui fosse stata colpita da un sortilegio, forse la colpa era di una strana invasione di ometti di pan di zenzero incantati che rincoglionivano chiunque li mangiasse, regalando una sorta di stato etereo di eccitazione e serenità. Perché davvero, pareva che ogni singolo abitante di quella piccola città fosse entusiasta alla vista della festività, soprattutto all'interno della scuola, il che era perfettamente comprensibile, visto che ciò avrebbe significato quasi due settimane di vacanze, assieme alla fine del primo periodo scolastico. Tutti gli studenti si aggiravano nei corridoi sì bardati di maglioni, cappotti, sciarpe e così via (Mikey si chiedeva in gran segreto chi sarebbe stato il primo a presentarsi con un alpaca vivo sulle spalle), ma a nessuno di loro parvero pesare gli ultimi giorni. Il comitato studentesco aveva addirittura fatto appendere degli striscioni verdi e rossi lungo il corridoio principale, che avevano ulteriormente alleggerito l'atmosfera. E così, in un clima paradossalmente natalizio era arrivato l'ultimo giorno, e dopo questo l'ultima campanella, accompagnata dalle grida di giubilo nei corridoi, che Frank stava attraversando in quel momento, accompagnato da Jamia, Mikey e un Ray tutto intento a ciucciarsi un pastello a cera giallo con aria assorta. Tornando al discorso di prima, Frank non la sentiva veramente tutta questa atmosfera natalizia, anzi, era tanto sepolto nei suoi pensieri che la suddetta atmosfera non lo toccava neanche. Tutti i pensieri fungevano da cuscinetto attorno a lui, gli si rovesciavano addosso creando come una cascata, invisibile e densa, che filtrava il mondo circostante, anestetizzandolo prima di farlo assorbire ai suoi sensi, delimitando così il suo spazio. Era come tenere dei vecchi abiti, consunti e malandati, all'interno dell'armadio. Potevi appallottolarli e pressarli negli angoli per nasconderli quanto ti pareva, non toglieva il fatto che fossero lì. E non era difficile rimanere impigliati in qualche sformato scampolo di tessuto dal brutto colore mentre inseguivi con le dita una felpa rossa come papaveri vivi in mezzo ad un campo che profumava di bei ricordi. Erano così i brutti pensieri, come avere quel brutto vecchio maglione indosso e non riuscire a levarselo, lo percepisci appiccicato addosso e ti fa sentire tremendamente a disagio, si antepone a qualsiasi azione tu stia per compiere, non ti fa stare tranquillo. E quel maglione era proprio come gli striscioni, verde e rosso, era un ingrato regalo di un Natale morto ancor prima di essere nato. Quell'anno Frank non avrebbe festeggiato il Natale. Lo aveva deciso la sera prima assieme a sua madre, quando lei durante una particolarmente silenziosa conversazione a cena gli aveva esternato le sue preoccupazioni e la sua decisione, con un tono piatto e falsamente controllato. Linda era stata molto sincera, dicendogli che non gli pareva il caso di festeggiare visti i recenti avvenimenti in famiglia Iero. Non avevano nulla da festeggiare. E Frank sotto sotto era d'accordo, non se la sarebbe sentita di portare avanti una farsa ipocrita con un fondo di malessere in fondo al cuore. Dalla caserma, ancora nessun aggiornamento.
Quell'anno, il venticinque di dicembre sarebbe stato un giorno esattamente come gli altri di vacanza, e lo aveva accettato a cuore freddo. In ogni caso, per molte persone ogni anno era così, e sarebbe stato peggio dover affrontare un clima di festività palesemente impalcato su commiserazioni e "va be', dai, cerca di non pensarci...". Tuttavia vedere che tutti intorno si preparavano per quel giorno non lo aiutava molto, anzi, sottolineava solo la barriera che divideva il mondo da lui, come un tutti + 1, ecco cos era la sua vita. Lo sottolineava e basta. Ed in famiglia ora erano lui + 1, non più un lui + 2, che per quanto frammentata sarebbe potuta essere avrebbe fatto tornare l'equazione all'originale, sette miliardi. Non tutti sono normali e perfetti ed io sono un uno, la mia famiglia è un uno. Sentiva di avere uno strato di ghiaccio attorno al cuore, perché stava imparando ad accettare tutto senza farsi sconvolgere troppo, come se il ciclo dell'acqua in eterno scorrimento della vita si fosse gelato con l'inverno attorno a quel piccolo muscolo che lo teneva in vita.
Arrivati alla porta dell'istituto scolastico Mikey e Jamia li salutarono con affetto, augurando loro buone vacanze e facendosi promettere di tenersi in contatto e di vedersi in quel tempo libero, forse addirittura il giorno seguente. Frank ricambiò, impalcando un sorriso in poco meno di un terzo di secondo. Come prevedibile, non sapevano nulla. A nessuno aveva detto nulla, e non voleva neanche pensarci. Era una sua responsabilità, non altrui. Loro abitavano da un'altra parte rispetto a lui, per cui li salutò con la promessa che al più presto si sarebbero rivisti e si girò di spalle, verso la strada che avrebbe dovuto percorrere per andare da Gerard. Poi si volse verso Ray, ancora pensieroso e col pastello in bocca.
«Anche tu vai di qua?» chiese, indicando la strada. Ray annuì silenziosamente, così i due si avviarono sul marciapiede senza spiccicare parola. Ray era molto silenzioso, forse un po' strano, ma aveva imparato a conoscerlo meglio col tempo e non era male. Aveva i suoi momenti, la sua realtà, e a volte veniva a galla con quella circostante, rivelando una mente funzionale e piuttosto insolita. Era anche indecifrabile, ma quando entrava in sintonia con l'ambiente ci si trovava molto a suo agio. Frank tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del giaccone e gliene offrì una, che prese e si accese sostituendo il pastello, ringraziandolo con un cenno del capo per poi passargli l'accendino. Anche Frank si accese una sigaretta e lasciò che la nicotina facesse diminuire la tempesta di neve in testa, riducendola poco a poco ad una rilassante, modesta nevicata. Esalò il fumo, dello stesso colore grigio pastello delle nuvole. Gli stavano finendo, e visto che durante le vacanze non aveva la minima intenzione di mettere piede fuori di casa se non per questioni di massima necessità, sarebbe dovuto andare a comperarle quel pomeriggio. Infatti Belleville rientrava in quella categoria di città moderatamente squallide, abbastanza concedere sigarette a minorenni e non. Inoltre quell'anno avrebbe pure potuto non festeggiare, ma si era ripromesso che sarebbe passato più tardi in centro città, per fare dei regali. Gli mancava ancora qualcosa per Mikey, sua madre e Gerard. Certo, si sarebbe potuto svegliare prima, visto che proprio in quel momento stava andando da lui, ma non sapeva ancora cosa fargli. Non ne aveva idea. Voleva andare sul classico, magari gli avrebbe regalato qualche fumetto o della band merch (o della tinta per capelli, se solo Natale fosse stato il primo di aprile), ma in ogni caso si trattava di Gerard, non di qualcun altro. Di Gerard, il suo ragazzo. E non aveva la più pallida idea di cosa regalargli, cui si ricollegava la paura di non riuscire a prendergli qualcosa in tempo. Si sarebbe offeso così tanto se gli si fosse buttato addosso per baciarlo come regalo?
«Frank, devi smetterla con questa farsa.» Ray aveva parlato così poco nei giorni precedenti che quasi si strozzò con il fumo della sigaretta. Si girò sorpreso verso di lui, fermandosi a ricambiare lo sguardo fisso del riccio, stranamente serio come altre poche volte era stato.
«Cosa?»
«Hai capito bene, devi smetterla con questa farsa.» Ray si rimise la sigaretta tra le labbra per qualche secondo. «Jamia è la mia migliore amica, e non voglio che tu giochi coi suoi sentimenti. Mi ha raccontato di quello che è successo dopo la tua festa di compleanno e di come poi tu sia corso via quella volta che eravate usciti e c'è stata la bufera. E non so se tu te ne sia accorto o meno, ma le piaci, le piaci davvero tanto. Potrai ricambiare o no i suoi sentimenti, questo è affar tuo, ma in ogni caso devi smetterla di giocare con i suoi sentimenti ed essere chiaro con lei, perché lasciarla così senza una risposta diretta è abbastanza crudele. So che non lo fai con cattive intenzioni, ma fammi un favore, smettila inconsciamente di giocare con lei. Detto questo, passa un Buon Natale. Ci si vede.» si girò ed attraversò la strada, lasciando Frank muto e immobile all'angolo del marciapiede. Non gli urlò dietro né lo rincorse, semplicemente si rimise sui suoi passi, riflettendo sulle parole ragionevoli di Ray. Quindi questa era la conferma alla maggior parte dei suoi dubbi verso la ragazza, ossia che le piaceva. Certo, se avesse attaccato le sinapsi nel modo corretto probabilmente ci sarebbe arrivato prima, ma diciamo che Gerard lo aveva tenuto un po' impegnato sul lato sentimentale. Non gli era stato facile scendere a patti con i suoi sentimenti, per quanto fossero intensi e da tempo fosse conscio della sua parziale mancanza di eterosessualità, e sulla ragazza non aveva fatto altro che proiettare i suoi dubbi e le sue paure, comportamento che, a conti fatti, era stato decisamente scorretto, Altamente giustificabile, ma altrettanto scorretto. Tuttavia, percepì la situazione scivolargli sul cuore come su uno scivolo di ghiaccio. Non ci diede molto peso. Era preoccupato, ma era solo una delle tante nuvole nella testa, e ricevere una conferma piuttosto che un ennesimo punto di domanda lo aiutava a ragionare lucidamente. E poi stava andando da Gerard, e per quella macchia rossa nella sua vita non c'erano respiri di fumo da dedicare, ma soltanto un sorriso spontaneo e nascosto dall'ombra di un viso reclinato. Si era davvero innamorato, e per un momento il resto del suo lato sentimentale non contò. Buttò quello che ormai era un mozzicone fumante a terra e lo spense con la punta della scarpa, digitò un messaggio a Gerard e poi attraversò la strada di fretta, entrando in meno di un minuto nell'accogliente salottino dalle calde pareti arancioni. Fece un cenno di saluto a Donna dall'altra parte del bancone, soffermandosi un attimo di troppo a pensare se lei sapesse di lui e suo figlio, ed in caso contrario cosa sarebbe successo se li avesse scoperti, e aprì timidamente la porta bianca. Gerard era lì, a gambe accavallate sulla sedia, dondolandosi leggermente col telefono nella mano destra, lo sguardo, uno sveglio lampo nocciola, puntato fuori dalla finestra. Al rumore dei cardini si girò verso di lui, e le labbra si dilatarono in un sorriso. Mentre lui si alzava Frank si richiuse la porta alle spalle per poi slacciarsi la giacca e depositare questa e lo zaino accanto alla sua poltroncina color vinaccia. Percepì la stretta delle braccia di Gerard attorno alle sua vita, si voltò e senza neanche accorgersene le loro labbra erano pressate in un bacio. Frank gli poggiò le mani sulle spalle, i nervi assenti da qualunque stimolo che non fosse la presenza del ragazzo accanto a lui, e le fece scivolare lentamente sul suo collo, mentre in un muto accordo le labbra si schiudevano e Frank lasciava che la lingua di Gerard si scontrasse con la propria, le labbra scivolose e già arrossate che si pressavano l'una contro l'altra. Frank sentì vagamente che si stavano stringendo di più, come l'edera che si arrampica su per il muro di un vecchio palazzo, ma la sensazione era distaccata, lieve, come il rotolare di una biglia su un lenzuolo teso. Si poggiò contro il bordo della scrivania, Gerard in un qualche modo incastrato tra le sue gambe, l'elastico della felpa sollevato in una maniera molto scomoda, ma resa più comoda dalla mano del ragazzo che lo teneva ben saldo, ed una specie di caldo nodo si strinse nel ventre di Frank, era del colore rosso del vino che sua madre comperava per i Natali passati e che quell'anno non avrebbe bevuto, e gli risalì per lo stomaco, dal cuore alla gola, inebriando tutti i suoi nervi di quel rosso sanguigno, e si baciarono ancora. Ormai da qualche giorno a questa parte succedeva sempre, le loro bocche si sfioravano e la situazione andava fuori controllo, ma almeno a lui andava bene. Era più forte di lui, come se una forza superiore lo facesse muovere a quel modo e gli instillasse ogni singola goccia di rosso. Nel fondo della sua mente Frank sapeva che quella forza superiore aveva un nome, e anche che ciò che li spingeva l'uno contro l'altro aveva un nome, ma il fondo della sua mente ne era continuamente annegato, per cui Frank cercava di prestarci poco conto. Quando riuscirono a staccarsi, Frank aprì appena gli occhi, le mani posate sulle guance di Gerard, il quale rialzò le palpebre, lasciando che l'iride nocciola guizzasse da sotto le ciglia lunghe. «Be', direi che è stato parecchio intenso come saluto.»
«Mmh mmh.» annuì l'altro, sollevando un angolo della bocca. «Pensa se qualcuno fosse entrato.» ed eccola di nuovo, la paura di Frank. Che qualcuno li scoprisse. E non capiva perché. Gerard era il suo ragazzo, era una delle cose più belle che fosse mai capitata nella sua miserabile vita, eppure ne aveva paura.
«Direi che se quel qualcuno fosse stata mia madre mi avrebbe ammazzato.»
«Diciamo che non credo si aspetti di spendere i suoi soldi in questo modo.» ammise Gerard. La presa sui suoi fianchi divenne semplicemente un paio di mani da artista poggiate sul suo corpo. «Perché sì, vengo pagato per questo, e mi sento per metà grato per metà in colpa.»
«È pur sempre una ragione per vederci.»
«Sì, ed infatti ne sono grato, ma rimane comunque la mia futura professione. A proposito, dovremmo metterci a lavoro, lo sai? Solo perché abbiamo diminuito la regolarità delle visite non vuol dire che dobbiamo smettere.» Gerard riteneva che Frank non avesse più bisogno di un sostegno costante. E lui era d'accordo. Si sentiva maturato, si sentiva già meglio. Sapeva che il suo percorso non sarebbe finito lì, ma era conscio del fatto che prima o poi, più prima che poi, sarebbe giunto ad un termine. Ora si sentiva bene, presente, nonostante la mente come un cielo in tempesta, ma era una sua caratteristica personale. Non stava bene solo per convenzione sociale o mancanza di termine positivo di paragone. Sentiva di stare bene. Soprattutto con, e grazie, a Gerard.
«Per quanto mi riguarda potremmo pure rimanere così per la prossima ora.» disse Frank, riferendosi all'abbraccio in cui erano ancora uniti, rimarcando il concetto con un cenno alle braccia con cui lo stringeva sulle spalle. Gerard alzò gli occhi al cielo, teneramente divertito. A volte si soffermava a guardarlo nelle sue mimiche espressioni facciali, accorgendosi solo minimamente di quanto fosse ammaliante nei suoi dettagli, tanto si incantava nella sua bellezza. Oggettivamente, Gerard come tipo poteva piacere e non piacere. Ma lui, soggettivamente, lo trovava un'opera d'arte.
«Sì be', non che non piacerebbe anche a me, ma il mio senso di responsabilità dice tutt'altro.»
«Da quando hai un lato responsabile?»
«Più o meno da quando mia madre mi mandava a prendere mio fratello a scuola e mi implorava di non lasciare che si buttasse sotto le macchine. Anche io sono felice di vederti, ma seriamente, sei qui per una ragione.» e seppur contrariato, Frank era d'accordo. «Ah, aspetta un secondo, mi ero dimenticato.» Frank lo guardò con un'espressione interrogativa, l'unica cosa che era rimasta unita erano le loro dita intrecciate, e dalla loro presa capì che gli doveva dire qualcosa.
«Di cosa?»
«Il giorno dopo Natale ti va di venire da me? Ho invitato qualche persona - tranquillo, non saremo più di una decina - per passare la giornata insieme, a pranzo. Ovviamente sei invitato, sempre ammesso che non abbia già impegni e-»
«No, quest anno no.» Frank storse la bocca, pensieroso, avvolto in una delle sue metafisiche nuvolette grigiastre. «Verrò volentieri, mi farebbe piacere.»
«Hai cambiato espressione.» notò Gerard, i cui occhi nocciola si incupirono un po'. «È successo qualcosa che ha a che fare con ciò che ho detto?»
Frank sospirò. Come faceva quando fumava, che le sue preoccupazioni erano trascinate via dalla nicotina ed espulse in fumo grigiastro, con Gerard stava imparando a soffiare via tutte le nuvole del medesimo colore, carico della pioggia dei ricordi, fuori dalla sua testa. «Lascia che ti spieghi.»
E così raccontò del suo infausto Natale e delle albe nuvolose con e senza neve, senza mai lasciar andare la mano di Gerard.

dear psychologist 【 frerard 】Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora