【 sixteen 】

1.3K 94 30
                                    

A volte mentre stava fumando Frank si fermava improvvisamente, lasciava ricadere la mano con la quale reggeva la sigaretta sul davanzale della finestra e poggiava la testa sugli avambracci, inseguendo con lo sguardo le minute volute di fumo che si torcevano leggere nella loro corsa verso l'alto. Ben presto queste di dissipavano nell'aria fredda, diventando un tutt'uno con il grigio scuro delle nuvole sopra di lui. Benché inizialmente non fossero neanche della stessa tonalità il grigio del fumo sfumava lentamente in quello delle nuvole, e lo sguardo si fermava, impossibilitato a vedere altro. Di grigio ce n'era tanto attorno a lui in quel periodo: quello delle nuvole e del fumo, la cenere che si poggiava in minuscoli mucchietti quando con l'indice picchiettava la sigaretta, il grigio chiaro della sua felpa preferita, la prima neve caduta pochi giorni prima ora ridotta ad un cumulo d'acqua sporca ai lati della strada, il marciapiede in cemento, e a dirla tutta anche lui stesso si sentiva un po' grigio. Con cautela Frank fece scivolare il polpastrello sulla superficie scabrosa della carta, ritrovandoselo poi coperto da un'inconsistente patina nera. No, non proprio nera, forse più grigio scura, molto molto intensa. Si strofinò il dito col pollice e il velo grigio scomparve. Di grigi attorno a lui potevano pure essercene tanti ma gli unici che gli facessero pensare alla bellezza di quel colore, d'una fredda, insolita morbidezza, erano quelli che creavano mille giochi di sfumature sul ritratto che gli aveva regalato Gerard. Si poggiò il disegno tra le gambe incrociate, reggendosi la testa con i pugni. I gomiti erano puntati sulle ginocchia, il che gli consentiva di guardare il foglio senza stancarsi. Che poi, Frank dubitava che ciò sarebbe mai successo. Quella mattina si era svegliato insolitamente presto e si era ritrovato avviluppato tra le coperte completamente privo di sonno, quindi era riuscito a prepararsi per la scuola con largo anticipo. Dopo essersi vestito ed aver controllato lo zaino, gli mancava ancora tempo prima dell'ora in cui sarebbe dovuto uscire per andare, e visto e considerato che i suoi nonni e Linda erano fuori per un paio di giorni aveva la casa per sé, per cui si era seduto sul letto ed approfittando della prima luce del giorno, soffocata dalle nuvole compatte che si accalcavano sul cielo, aveva tirato fuori dal cassetto il disegno. Ne era incantato. Forse un po' ossessionato, ma almeno aveva i suoi buoni motivi. Primo, gli piaceva veramente tanto. A parer suo sarebbe stato impossibile che qualcuno avrebbe potuto non appezzarlo, con quei contorni fini, definiti e le ombre leggere, i pochi tratteggi che indicavano una zona scura ed i solchi lasciati laddove era stato impreciso. Gerard era bravo, e su ciò non c'era assolutamente alcun dubbio, riusciva quasi a percepire la passione che aveva messo per rilasciare su uno strato sottile di carta abbastanza grafite da creare un ritratto fedele ai ricordi, poteva sentire la pressione appena accennata delle dita sulla matita, il suo lento andare avanti e dietro per dare forma ad una ciocca di capelli o delineare il profilo del soggetto. Era percepibile. Frank pensò che gli sarebbe piaciuto vedere Gerard disegnare almeno tanto quanto l'altro insisteva per sentirlo suonare. Si chiese se per concentrarsi mordesse la cima della matita o se invece preferisse affondare i denti nelle sue labbra piene e sottili. Se a volte si fermasse per rimettersi i capelli dietro l'orecchio in modo da non ombreggiargli il foglio, se per certi tratti preferisse matite diverse o se facesse dei bozzetti preparatori, come la luce facesse risaltare le ciglia scure sulla pelle resa ancora più diafana dal fascio luminoso, se i suoi occhi verde autunno assumessero uno sguardo particolare, si concentrassero diventando più scuri, intensi, magnetici. Gli sarebbe piaciuto stargli accanto, seduto senza neanche essere notato ed assistere alla nascita fisica dei suoi pensieri. Sarebbe stato un modo per conoscerlo meglio, no? E poi Gerard si sarebbe girato e nell'ambiguo gioco di chiaroscuri dovuto all'illuminazione soffusa gli avrebbe sorriso, e lui gli avrebbe ovviamente sorriso di rimando. Ma se ci si fermava a pensare troppo il cuore cominciava a battergli più velocemente e si bloccava come una statuetta di ghiaccio infuocata, la sua mente rimaneva ferma sulle labbra dell'altro incurvate in un sorriso e sul No, non penso ma credo di no che quelle stesse labbra avevano pronunciato, finiva col sentirsi strano ed impacciato, quindi scacciò lo scenario dalla mente e con un'espressione corrucciata tornò a guardare il disegno. Secondo poi, gli piaceva proprio la tecnica grafica di Gerard, ma su questo punto ci si soffermava decisamente troppo. Terzo ed ultimo, era proprio lui il soggetto del ritratto, e ciò gli faceva spuntare sempre un sorriso. Aveva disegnato lui per la mostra, non qualcun altro. E poi era strano quel disegno, perché se fingeva di non conoscere il suo aspetto fisico e di essere un'altra persona mai vista o conosciuta, il ragazzo ritratto gli appariva quasi bello. Non di una bellezza canonica e stereotipata, ma sfuggente, proprio come la cenere tra le dita, che non ha consistenza ma lascia sulla pelle una traccia di sé. Gli occhi concentrati su un punto lontano, le mille grinze della felpa attorno al collo, la linea della mandibola e delle ciglia leggermente abbassate. Tutto ciò contribuiva a rendere il Frank della dimensione disegnata degno di essere ammirato. E dire che era pure privo di colori. Si chiese se apparisse veramente così agli occhi degli altri, o perlomeno a quelli di Gerard. In un certo senso lo desiderava, desiderava essere sfumato, grigio ed evanescente come la bellezza mortale del ragazzo raffigurato. Mortale non perché capace di uccidere, ma perché era pieno di quella capacità di essere attraenti tipici della vita che finirà, e che al contrario del fascino di ciò che esisterà per sempre, era ricco della linfa che veniva pompata disperatamente in tutto il suo essere. La bellezza del mortale, proprio perché destinata a finire, è quella che attrae di più, quella che secondo i miti fece innamorare infiniti Dei e Dee mitologici dei più svariati esseri umani. E la creatura bidimensionale di carta e grafite traboccava di tutto ciò. Con l'indice Frank seguì la linea curvilinea del suo profilo, partendo dalle ciocche arruffate di capelli scuri per poi proseguire lungo la fronte, rientrare nell'incavo alla base del naso e poi scivolare delicatamente lungo la sua curva appena accennata. Procedette lentamente sulla forma arcuata delle labbra appena dischiuse e concluse con un gesto fluido la piccola sporgenza del mento e la linea più dritta del collo. Mentre da fuori la luce pallida e flebile di quel mattino quasi invernale si faceva sempre più intensa, Frank sollevò il dito dal foglio, esaminandolo attentamente per accertarsi di non aver privato il disegno del più piccolo grammo di grafite. Ma il suo tocco era stato tanto leggero che aveva a malapena sfiorato la superficie cartacea. Il ragazzo lanciò un'occhiata veloce alla sua sveglia, e a malincuore tirò la manopola del cassetto in legno nel quale ripose il disegno, facendo bene attenzione che non si rovinasse, poi richiuse il cassetto e si fece scivolare silenziosamente giù dal letto. Prese le scarpe da ginnastica e se le infilò senza prendersi il disturbo di slacciarle e rifare i nodi, poi afferrò lo zaino e la giacca ed uscì dalla camera, i passi attutiti sul pavimento. Nonostante lui non stesse emettendo alcun suono, non era esattamente immerso nel silenzio. C'erano i cardini che scricchiolavano leggermente, le scarpe sulle scale che scendevano uno ad uno i gradini, le macchine in lontananza che frenavano e rombavano per raggiungere la destinazione il più presto possibile, lo zip della giacca, il rumore soffocato del suo viso contro il morbido tessuto del giaccone, reso tiepido dal calore umano. Insomma, i rumori per esserci c'erano, ma quello che mancava era l'intromissione umana. Quel giorno tuttavia si sentiva in sintonia sia col pallore grigiastro del cielo che con il silenzio umano, quindi a Frank faceva solo piacere. Affondando le mani in tasca e rintanando sempre di più la metà inferiore della faccia nel colletto interno della giacca Frank si avviò verso scuola, di tanto in tanto dei rimasugli di neve ripetutamente sublimata e congelata a scricchiolargli sotto le scarpe. Gli avrebbe fatto piacere se avesse nevicato di nuovo, ormai l'ultimo resto della neve era intriso di nero ed accatastato ai lati delle strade, oppure congelato tra i fili d'erba che sbucavano qua e là tra il cemento. Frank si perse a guardare le nuvolette create dal suo fiato. Si fondevano con il cielo esattamente come il fumo di sigaretta. Sarebbe stato bello rivedere un manto bianco atterrare piano sulla città, come un velo dal candido colore sulla testa di una sposa troppo irrequieta, monotona. La neve rendeva tutto più surreale e distante, un po' più magico dal punto di vista di Frank che per questo attendeva paziente il suo avvento ogni anno. E poi la neve gli ricordava tanto la capigliatura di Gerard al suo compleanno, innumerevoli soffici fili di sale che rilucevano lievi sotto le lampade. La stessa tonalità, lo stesso invito ad essere presa tra le mani ed accarezzata, modellata. Non che Frank avrebbe mai fatto delle palle con i capelli di Gerard, ma lo allettava la sola idea di allungare la mano e sentire le serici ciocche tra le dita, corte e sfuggenti proprio come i primi fiocchi di neve che preannunciano una bufera. Ma non poteva farlo. In poco tempo Frank giunse ai cancelli di scuola e si affrettò a raggiungere l'entrata dell'edificio, calda e gremita di gente chiassosa. Pochi passavano gli ultimi minuti prima delle lezioni in cortile, con quel freddo non era proprio il caso. Lo stesso Frank corse al suo armadietto per prendere i libri delle due ore seguenti e riacquistare anche un po' di sensibilità alla punta delle dita, che poi strinse saldamente sui volumi mentre affrettava il passo per raggiungere l'aula di francese. Là era sicuro che ci stessero i termoregolatori accesi, e Frank moriva dalla voglia di sentire una sensazione di calore sulle guance invece di un freddo pungente. Nel corridoio verso le scale riconobbe un ragazzo con i ricci di Ray, e quando gli si avvicinò constatò che era proprio lui. Poco male, Ray frequentava la sua stessa classe di francese.
«Ehi Ray.» lo salutò, mettendosi al suo fianco ed alzando lo sguardo, sforzandosi di essere amichevole e di fare un passo avanti nei rapporti umani. Almeno era ciò che gli consigliava Gerard. «Come va?»
Ray si prese un attimo per guardarlo. «Oggi viene Christa da New York, proprio fuori scuola. Dato che ci sono le vacanze, ha ottenuto il permesso per passare a Belleville un paio di giorni.»
Christa, la fantomatica ragazza di Ray quel giorno sarebbe venuta a trovarla. Nonostante molti dubitassero della sua reale esistenza Frank non vedeva perché dovesse mentire su un argomento del genere. E comunque quel giorno lo avrebbe scoperto.
«Passerà qui il ringraziamento?»
«No, quello no.»
Pochi giorni dopo ci sarebbe stata la festa del ringraziamento. Non che Frank morisse dalla voglia di accoltellare un tacchino ammazzato, ma era comunque una buona motivazione per dei giorni extra di vacanze. Sempre ammesso che fosse riuscito a superare quell'ultimo giorno di scuola. Se ci pensava, il tempo era passato davvero in fretta. Nelle quasi due settimane precedenti aveva fatto in tempo a nevicare almeno una volta, sistemare le cose sia con Mikey che con Jamia e farsi dare l'amplificatore da Bob, il quale si era addirittura complimentato con lui. Farai strada, scricciolo, gli aveva detto. Frank ne dubitava, in ogni caso. Ah, e aveva anche visto altre due o tre volte Gerard, il quale riteneva che lui stesse facendo dei gran passi avanti con la sua socialità ed i passati episodi di bullismo, nonostante Frank non si fosse ancora aperto riguardo a quegli strani momenti di totale oppressione e sconforto che a volte lo trascinavano con sé. E nessuno dei due aveva menzionato la discussione riguardo il bacio.
Nonostante i corridoi fossero pieni di ragazzi che chiacchieravano e ridevano allegramente tra di loro per l'eccitazione dovuta alle vacanze Frank, sempre al fianco di Ray, la cui attenzione però era rivolta totalmente altrove, raggiunse ben presto l'aula di francese. Cercò con gli occhi un posto un po' isolato dai pochi altri che discutevano dei progetti da attuare nelle vacanze e non appena l'ebbe trovato si diresse verso il banco sotto la finestra, in penultima fila. Non si sorprese quando Ray prese posto accanto a lui. La campanella suonò nel preciso istante in cui Frank si accomodò sulla sedia, lasciandosi sfuggire un sospiro, il quale fu seguito dall'entrata dell'insegnante, che tutti salutarono educatamente con un bonjour strascicato. Frank si sforzò di rimanere attento almeno fino all'appello, ma dopo una decina di minuti di spiegazione sulle schede a proposito del Colonialismo francese da studiare per le vacanze la voce nella testa di Frank che gli suggeriva di guardare fuori dalla finestra ebbe la meglio. Di fuori il cielo sembrava un'unica, uniforme pennellata di acquerello grigio. Le nuvole biancastre lasciavano spazio ad un alone luminoso in corrispondenza del sole, il quale però non era abbastanza potente da lasciare che i suoi raggi tiepidi filtrassero attraverso la cortina di cotone e illuminassero quella Belleville un po' desolata e decisamente intirizzita dal freddo incombente, che aveva lasciato come suo messaggio una misera spolverata d'acqua sporca. Il suo sguardo tornò al cielo. Quel giorno tutto era uno slavato acquerello grigio trovato in soffitta e sperimentato su carta per sbaglio da una mano inesperta. Era troppo acquoso, troppo lontano dalla ben più carica tonalità che Frank preferiva, il grigio della grafite sfumata. E invece qualcuno ci era passato sopra con un pennello intriso d'acqua. Frank si chiese se la parte artistica di Gerard sapesse usare gli acquerelli. Di sicuro i suoi risultati sarebbero stati nettamente migliori di quella giornata autunnale mal riuscita. Ma se fosse dipeso da Gerard e dalle sue mani pallide, frementi e da quelle dita affusolate e pronte ad essere strette Frank si sarebbe pure fatto dipingere la faccia a spirali arancioni.
«Mi presti il temperino?» la voce di Ray lo fece girare di scatto, la mano che prima gli reggeva la testa da sotto il mento ricadde sul banco mentre Frank guardava distrattamente il suo compagno di banco.
«Cosa?»
«Ce l'hai il temperino?» Frank annuì. Qualcosa negli scarabocchi di ometti stecchino sul quaderno di Ray gli diceva che nemmeno l'afro era poi così attento a francese.
«Me lo puoi prestare?» Ray gli fece vedere la matita che teneva in mano, la cui punta era consumata.
«Sì, certo.» Frank si accorse di non aver neanche tolto i libri dallo zaino, che giaceva ancora chiuso accanto alla sedia. Aprì la cerniera e ne tirò fuori un quaderno (tanto per non farsi notare senza nulla sul banco) e l'astuccio, nel quale frugò finché non riuscì a trovare il piccolo aggeggino, che porse a Ray. «Ecco, tieni.»
«Grazie.» il ragazzo lo afferrò e dopo averlo guardato un paio di secondi con un'espressione incerta prese a temperare l'estremità intatta della matita. Frank decise di non farsi domande ed invece rivolse la sua attenzione alle penne sparpagliate attorno l'astuccio che aveva cacciato fuori per ritrovare il temperino. Le prese e le rimise dentro, ma nel chiudere la cerniera un fogliettino bianco appallottolato tra le matite catturò la sua attenzione. Piccolo ed accartocciato, chissà come ci era finito lì. Senza farsi notare lo prese tra due dita e lo svolse lentamente.
Lo serrò tra le dita immediatamente dopo, mormorando un'imprecazione sottovoce e ritornando a guardare fuori dalla finestra. Non sapeva dire per quale motivo il biglietto fosse nel suo astuccio, forse una mattina in cui era stato particolarmente con la testa fra le nuvole lo aveva messo assieme alle altre penne presenti sulla scrivania nell'astuccio. Una cosa era sicura, quel foglietto non sarebbe dovuto stare lì. Gli diede una stretta nervosa tra le dita. Innamorato. Aveva scritto così una sera di qualche tempo prima, su un pezzetto di carta strappato da un foglio in una grafia tremolante dovuta alla stanchezza, poco tempo dopo avere scoperto che quell'aggettivo per un certo periodo, alla sua stessa età, aveva descritto anche Gerard. Fuori doveva fare veramente freddo, le cime dei pochi alberi rinsecchiti del cortile erano sospinte dal vento. Essere innamorati implicava il concetto di amore, e già quello bastava a mandare Frank in paranoia. Un conto era la cottarella estiva per la ragazza del mare che ti invitava a prendere un gelato, ma un altro conto era provare qualcosa di tanto profondo e impegnativo nei confronti di un altro essere umano. Frank sapeva amare, lui amava la musica e le note che fuoriuscivano dalla chitarra con un solo pizzico, amava le lasagne vegetariane, il caffè, le felpe larghe, il grigio grafite e le serate arancioni, i tatuaggi e, piccolo fagotto narcisista, amava il suo ritratto custodito gelosamente nel cassetto. Ma era diverso amare un oggetto o un concetto. Non si ama qualcosa come si ama qualcuno, oppure sì?
Continuando ad ignorare bellamente la spiegazione della professoressa, Frank si chiese in cuor suo cosa fosse esattamente quell'amore che sentiva di confronti di determinate cose. Per aiutarsi il ragazzo aprì il quaderno (che scoprì essere di chimica) ad una pagina bianca e prese una penna, con la quale giocherellò sul banco finché i pensieri nella sua testa non ebbero preso un ordine concreto, poi si ritagliò un angolo e scarabocchiò poche parole chiave. Prima di tutto quelle cose gli dovevano piacere, e tanto. Dovevano suscitare un suo moderato interesse. Dovevano venirgli in mente improvvisamente e senza motivo, doveva rigirarci attorno e modellarle come un piccolo cubo di legno della sua testa, doveva testarle e giocherellarci per ammirarle da sempre nuove angolazioni. Frank riguardò la lista, leggendo le parole devono piacermi, interessanti, venirmi in mente e distrarmi, poi aggiunse un rispecchiarmi alla riga sotto. Dovevano allo stesso tempo essere insolite e rispecchiarlo, doveva trovare in qualcosa di bello una parte di sé, forse per ricordarsi che anche lui valeva la pena di vivere. Ed ultimo, doveva essere qualcosa per la quale valeva la pena vivere. Era strano il concetto di valer la pena vivere per qualcosa, significava considerare un certo oggetto o una certa attività o un certo concetto degno dei propri respiri e dei secondi di vita, significava essere pronti a dare una parte di quella stessa vita in sacrificio all'ignoto pur di proseguire la propria strada verso quel qualcosa che si ama tanto. Significava gioia e successo, ma anche sanguinare affinché il cuore possa continuare a battere.

dear psychologist 【 frerard 】Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora