【 seventeen 】

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Ormai le sue labbra sapevano di sangue.
A furia di mordersele e torturarsele queste non facevano a tempo a guarire che già subivano un nuovo attacco dal nervosismo di Frank. Il ragazzo si passò la punta del dito sulla superficie scabrosa del labbro inferiore, indugiando un po' troppo su una ferita ancora aperta, ma riuscì a ritrarre il dito in tempo. Quando lo guardò si accorse di una piccola macchia vermiglia che spiccava sul pallore della pelle. Sbuffò innervosito e tornò a rivolgere la sua attenzione allo schermo del computer, scorrendo con gli occhi lungo tutti i punti del modulo. Gli pareva di averli completati tutti, nome, cognome, data di nascita, domicilio, un curriculum vitae di una decina di righe e poche altre richieste alle quali aveva risposto. Gli sarebbe bastato premere sull'icona di invio e la sua richiesta per un'audizione alla NYMA sarebbe stata mandata ai dirigenti della scuola di musica. Alla fine il permesso per partecipare all'audizione lo aveva ottenuto davvero, ma aveva aspettato un po' prima di mettersi al lavoro per il modulo. Decise di ricontrollarlo un'ultima volta, nonostante fosse tipo la quinta, e così rilesse tutto accorgendosi a malapena che si stava ricominciando a mordere il labbro. Sua nonna lo aveva sostenuto tutti il tempo, anzi, proprio lei gli aveva aperto quell'opportunità mentre sua madre aveva acconsentito forse anche grazie al suo supporto, e di ciò doveva solo esserle grato. Almeno, avrebbe dovuto, ma in quel particolare momento non si sentiva molto in vena di provare emozioni positive. Lanciò una breve occhiata alla lettera abbandonata da qualche parte sul comodino, ritraendo subito lo sguardo per evitare di farsi sopraffare dal suo significato. Era riuscito a non piangere la prima volta, nonostante sentisse perfettamente la voragine in petto allargarsi sempre di più, facendogli quasi del male fisico ad ogni respiro soffocato che cercava di inalare. Suo padre, l'uomo per il quale provava un segreto, ed ora immotivato, rancore. La persona che incolpava di aver abbandonato lui e sua madre, qualcuno a cui voleva bene, ma incapace di farsi carico delle sue responsabilità. Incapace di voler bene a suo figlio. Incredibile come le cose potessero apparire tanto differenti rispetto a ciò che veramente erano. Frank era cascato in quel tranello superficiale con entrambi i piedi, e se ne pentiva. Suo padre gli mancava. Certo, gli era sempre mancato, ma aveva fatto l'abitudine a quei lunghi periodi di assenza. Non che fosse piacevole, era come cercare di dormire con una coperta troppo leggera, era frustrante ma dopo un po' ci si faceva l'abitudine ed infreddoliti o meno ci si addormentava. Tuttavia, scoperta la lettera, la coperta gli era stata strappata via. I denti strapparono una pellicina al labbro inferiore e subito il sapore del sangue gli si riversò in bocca. Si sentì colpevole con se stesso per aver pensato ad Anthony in tali termini, per averlo ritenuto un incapace. Non lo era, e poi chi non era infallibile al mondo? Con la coperta strappata via rimpiangeva le sue mute accuse nei confronti del padre, avrebbe voluto vederlo subito per spiegarglielo, esattamente come quando ad otto anni veniva assalito da una fitta di nostalgia e si rannicchiava sul letto a soffocare le lacrime. Da quel punto di vista non era cambiato tanto. Dopo aver finito di leggere quella lettera era caduto sul letto e si era accucciato, tenendosi le braccia strette al petto in un patetico tentativo di abbracciarsi da solo. Doveva tenere insieme tutti i pezzi, perché aveva l'impressione di potersi frantumare in innumerevoli, miserabili cocci da un momento all'altro. Uno dei tanti momenti in vuoi improvvisamente gli venivano risucchiate via le forze vitali, il sangue pareva prosciugato dal capillari e l'ossigeno scivolava via dai suoi respiri disperati. Uno dei tanti momenti che sembravano lontani da quando Gerard lo stava aiutando a rimettere apposto la sua vita, ma che erano tornati più forti di prima solo grazie a quella pagina scarsa di parole. Grazie al cielo in quel momento si trovava da solo, per cui non ebbe bisogno di nascondersi dietro a maniche o cappucci. Gli bastava stringere la presa sulle sue costole tanto da farsi male ed affondare gli occhi brucianti nel cuscino e forse sarebbe passata l'agonia. Sapeva perfettamente di star trattenendo le lacrime, le sentiva pungere le palpebre doloranti e la gola, come infinite gocce di acido pronte a ferirlo al minimo cedimento. Aveva voglia di urlare, di graffiare qualcosa e di stringere talmente forte da romperlo, di stare meglio, di strappare la lettera e di premersi le mani sugli occhi, ma paradossalmente l'unica cosa che poteva fare era stringersi sempre di più la morsa sul torace e rannicchiarsi per rimpicciolirsi, per implodere su se stesso, un'ennesima macchia vuota in un mondo troppo scuro. Voleva essere abbracciato da qualcuno, ma al contempo non poteva sopportare il pensiero di farsi vedere in quello stato. Patetico, aveva pensato. Sei solo un ragazzino patetico. Così aveva tenuto duro, stretto i denti e serrato gli occhi, si era convinto di stare bene e si era alzato seduto, ricadendo immediatamente sul materasso. Debole, così si era appellato in quel momento. Si era dovuto strofinare parecchie volte gli occhi con le mani e prendere abbondanti boccate d'aria prima di ritrovare la forza di mettersi seduto, la testa incredibilmente pesante e il torace altrettanto leggero. Pareva vuoto, senza più organi a permettergli di tirare avanti, cuore a battere e costole a tenere il tutto insieme. E non era un vuoto bello, leggero come una foglia autunnale che piroetta trascinata dal fresco vento di Ottobre, come uno di quei vuoti provocati da un sorriso amaro che ti facevano sentire leggero e spensierato. Era un vuoto sbagliato. Anomalo. Non c'era altra maniera di descriverlo. Ma sarebbe passato, non sarebbe durato per sempre. Infatti non si era sbagliato, gli era bastato raccogliere la lettera da terra e ripiegarla con cautela, neanche fosse stata un rifiuto radioattivo, e buttarla sul comodino. Aveva razionalizzato la situazione. Suo padre sarebbe tornato prima o poi, allora gli avrebbe parlato, avrebbero chiarito e tutto si sarebbe risolto. Gli era bastato stare dieci minuti seduto a ripeterselo e ricordare le giornate di sole passate insieme per farselo passare. Era tutto finito, era passata, e nonostante si sentisse meglio le lacrime ancora non se n'erano andate. Stavano lì, si stavano calcificando in fondo alla gola come piccolo monito per Frank. Ma lui le aveva ignorate, loro ed il groppo in gola che lo aveva accompagnato nei giorni seguenti. Comunque in quel momento il problema non gli si poneva, anzi, si sentiva abbastanza sereno se non fosse stato per la consapevolezza di quelle lacrime sedimentate che gli ostacolavano un po' il respiro. Suo padre aveva fiducia in lui, quindi avrebbe potuto benissimo smetterla di guardare quel fottuto modulo per l'ennesima volta ed inviarlo. Frank puntò i pugni sul copriletto e si puntellò sulle braccia, lasciandosi sfuggire un sospiro nervoso. Faceva freddo, i piedi gli si stavano congelando ma lui si ostinava a rimanere seduto a gambe incociate sul letto con il laptop poggiato sulle ginocchia. Fuori nevicava leggermente, i piccoli fiocchi sembravano quasi polvere trascinata dal vento in un candido acchiapparella senza fine. Si riscosse e puntò di nuovo lo sguardo sullo schermo, soffermandosi sull'icona di invio. Mentre ci portava il cursore sopra venne preso da una leggera ebbrezza ed il suo cuore pretese più spazio nel petto, un po' come quando improvvisamente gli veniva in mente Gerard e si sentiva impotente, disarmato di fronte alla bellezza di quel ragazzo. Le sue labbra continuavano a sapere di sangue, era stato troppo lo stress di quei giorni tra i suoi nonni che erano tornati anticipatamente a casa visto il clima poco collaborativo, la lettera di suo padre, lo studio spropositato ed i resoconti con se stesso. Il cuore stesso pompava il sangue nelle sue labbra screpolate ed arrossate, sulle quali si passò la lingua nel momento esatto in cui premette sul tasto di invio.
Ecco, lo aveva fatto, non c'era più tempo per ripensamenti o cambi di idea. Si prese giusto il tempo di controllare che l'invio fosse stato effettuato con successo, poi spense di scatto il computer e saltò giù dal letto, infilandosi le scarpe e mettendosi il morbido giaccone addosso, come un confortevole abbraccio sulle spalle provate da tanta stanchezza. Sfilò il telefono dalla tasca per controllare l'orario, ma sapeva bene che tanto era ora di andare. Anche quel giorno avrebbe avuto un incontro con Gerard e sua madre si era dimostrata felice di accompagnarlo ma prima lui avrebbe voluto scrivere ed inviare il modulo per l'audizione. Comunque si era fatta una certa, nonostante le nuvole ad oscurare il urlo prossimo al tramonto, e Frank doveva assolutamente andare. Era felice di andarci, per distrarsi, per vederlo. Per un secondo si chiese se forse non sarebbe stato meglio portare con sé la lettera del padre, ma prima ancora di pensarci due volte era schizzato fuori dalla porta della camera e stava scendendo le scale.
«Sei pronto Frank?» domandò sua madre non appena lo vide. La donna chiuse il libro e lo ripose accanto a sé sul divano, per poi alzarsi e prendere cappotto e giacca.
«Sì, andiamo.» rispose lui brevemente, infilandosi le mani nelle tasche e raggiungendo la porta di casa. Frank sperò che sua madre non riuscisse a percepire il nervosismo che gli si insediava in ogni cavità corporea, mista ad una specie di eccitazione irrefrenabile che gli dava la sensazione di essersi appena bevuto un litro e mezzo di caffè. Un caffè dolce, con un leggero aroma di retrogusto. Il caffè era quella sensazione strana, e lo zucchero invece arrivava quando Gerard gli sorrideva e lo ascoltava. Ma Linda a quanto pareva non ci aveva fatto caso, in quanto si era limitata a seguirlo verso la macchina parcheggiata davanti casa, coperta da un velo di neve, e ad avviarsi per le strade innevate canticchiando un motivetto sottovoce. In effetti i due non parlarono fin quando Frank non fece un commento casuale alla neve, che rendeva più scivolose le strade.
«Se sai guidarci, non è poi così difficile, a dire la verità la mia preoccupazione maggiore è che la neve non sfondi il tettuccio.» la donna rise, per poi lanciare un'occhiata al figlio, il quale aveva storto il naso. «Sai, dicono che verrà una bufera uno di questi giorni.»
Frank non rispose, rimase a guardare fuori dal finestrino i fiocchi che sempre più radi vorticavano verso il suolo, col rumore degli pneumatici scricchiolanti sulla neve fresca di sottofondo. Voleva fare una domanda a sua madre, ma non relativa al meteo o alle commissioni che poi sarebbe andata a fare. In un certo senso aveva paura della risposta, forse avrebbe preferito rimanere nella sua alcova di ignoranza pur di non doversi scontrare con la realtà. Frank tornò a mordersi le labbra, stuzzicando coi denti una piccola ferita che subito tornò a sanguinare. Era un atteggiamento immaturo da parte sua. E poi quella muta domanda continuava stuzzicare la sua curiosità, implorandolo di chiarire il dubbio...
«Mamma» esordì, spostando lo sguardo su di lei. «Ma tu lo ami ancora papà?»
«Perché mi fai una domanda del genere?» replicò lei, impassibile. Frank poggiò la testa contro lo schienale del sedile.
«Non posso?»
«Non ho detto questo, mi stavo solamente chiedendo il perché.»
«Tu lo ami ancora o no?» ripeté lui, questa volta con un tono di voce più fermo e deciso. Voleva solo saperlo, dare conferma ai dubbi ed agli indizi lasciati espressi o sottintesi dalla grafia curvilinea di suo padre. La donna prese un lungo respiro, lanciandogli un'occhiata.
«Frank, la situazione non è così facile da spiegare. Io ed Anthony ci siamo amati tanto negli anni, però con il tempo le cose cambiano. Quello che c'era tra noi due, che ci ha portati alla tua nascita - e credimi se ti dico che sia stata la parte migliore del nostro rapporto - ora... Frank, ripeto, le cose cambiano, ed anche le persone.»
«E quindi?» Frank maledisse la sua voce per essersi rotta all'ultimo, però proprio non sopportava i giri di parole o i temporeggiamenti. Non in quel caso, perlomeno, non con qualcosa che sembrava palese ma che pareva voler continuare ad essere inutilmente nascosto.
«Firmeremo le carte per il divorzio al suo ritorno, ma tu questo lo sai già, ce ne hai anche parlato.» a Frank tornò vivido in mente il ricordo della sera in cui aveva discusso con i suoi. Non riusciva ad accettare l'idea del loro divorzio. Gli parve ancora di risentire la federa del cuscino umida di lacrime contro la sua faccia per cercare di soffocare il malessere. «Non dipende da nessun altro, tantomeno da te. Riguarda semplicemente noi, ma tu ormai sei maggiorenne e maturo, credo che tu possa capire. Non smetteremo di essere i tuoi genitori, okay? Saremo comunque tua madre e tuo padre, solo perché non c'è più ciò che c'era una volta non significa che finirà tutto. Hai capito?» Frank annuì, sebbene in realtà capisse poco e niente. Erano affari dei suoi genitori, eppure si sentiva in qualche modo esposto, forse pure offeso. Si disse che non aveva alcun senso. La macchina accostò al ciglio della strada, accanto allo studio. Fuori la neve aveva quasi smesso di cadere. «Frank, davvero, non avercela con noi. Sappi che ti vogliamo bene sempre e comunque.» Che cosa stupida da dire, pensò mentre si metteva una maschera neutra sulla faccia ed usciva dalla portiera della macchina, rabbrividendo a contatto con l'aria pungente. Se veramente si preannunciava una bufera, Frank sospettava che il mondo sarebbe morto di congelamento prima. «Io ora vado a fare delle commissioni, farai sicuramente prima di me, quindi torna a casa dopo in caso tu non abbia altri programmi.» gli disse sua madre prima di salutarlo e andare via. Frank non rimase neanche un secondo a guardare la macchina che si allontanava, in parte per l'amarezza del momento, in parte perché faceva un freddo becco. Con gli ultimi fiocchi vorticanti che gli si depositavano sulla giacca ed i capelli color carbone corse alla porta dello studio, consapevole della presenza di Gerard lì dentro. Un sorriso spontaneo ed involontario gli si formò sulle labbra screpolate, facendogli accelerare il passo. Praticamente saltò i tre gradini d'ingresso, stringendosi sotto la giacca per attenuare la morsa del freddo. Non poteva evitarlo, il suo cuore non stava andando a mille per la corsa.

dear psychologist 【 frerard 】Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora