【 thirteen 】

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«Ehi voi due, smettetela immediatamente!» strillò la professoressa mentre in qualche modo riusciva a farsi strada attraverso il capannello di gente che si era radunato attorno ai due, commentando sottovoce e lanciandosi piccoli cenni con le mani. Frank, ancora ribollente di rabbia, si sforzò di tenere fermo l'avambraccio e di non far cadere il pugno sulla faccia dell'altro ragazzo, che dal canto suo cercava di fare lo stesso ma mirandogli al petto. Il moro prese un profondo respiro e con la testa che gli ronzava fece ricadere il braccio lungo il fianco, cercando di non pensare alle scintille di adrenalina che internamente lo alimentavano come un fuoco, ma provando a concentrarsi sul freddo dolore delle unghie conficcate nel palmo, del taglio che aveva sul labbro o dei pensieri che correvano veloci senza lasciargli l'opportunità di decifrarli. Si impose di riprendere fiato con una velocità normale, e con un immenso sforzo represse tutto l'odio che provava per il ragazzo che gli stava davanti e chiuse gli occhi, voltando la testa di lato. Era vagamente consapevole degli altri studenti che ancora lo guardavano e parlottavano a basso volume come fosse una bestia da circo, ma era ancor più consapevole di tutti i suoi nervi in tensione, del sangue caldo che gli fluiva nelle vene e dello stesso corpo di cui era prigioniero, con i capelli tutti scompigliati, la maglietta spiegazzata e qualche livido sospetto qua e là. Quando trovò il coraggio di riaprire gli occhi, ovvero pochi secondi dopo, Frank si ritrovò la professoressa a scrutarlo con sguardo truce e le mani sui fianchi. Be', non che quello fosse un ottimo incentivo per tornare alla realtà. Si ficcò a forza le unghie nella pelle della mano.
«Si può sapere cosa è successo qui?» domandò quella in tono austero, continuando a spostare lo sguardo tra i due ragazzi. Frank si levò i capelli dalla faccia con un gesto nervoso, sforzandosi di non sbuffare. Guardi, proprio nulla, stavo prendendo il tè con questo coglione qua accanto.
«Ci scusi prof.» azzardò il ragazzo alla sua sinistra alzando gli occhi al cielo, un rivolo di sangue che gli colava giù dalla narice destra, per non parlare delle tumefazioni che di lì a poco gli sarebbero spuntate su torace e braccia, merito dei colpi e delle nocche doloranti di Frank. A riguardarlo in faccia gli veniva voglia di prenderlo ancora a pugni, ma represse l'istinto con un sospiro profondo.
«Questo non mi spiega di certo l'accaduto.» replicò l'insegnante in tono amaro, puntando lo sguardo su Frank. Lui prese a mordicchiarsi l'interno della guancia, tutto pur di non lasciar trasparire la tensione che come un elastico si stava allentando dentro di sé. Incrociò le braccia. «Allora, volete dirmi cosa è successo o devo estorcervelo in maniera meno piacevole?»
«Mi ha provocato.» rispose Frank secco. Verso la fine dell'ora di letteratura inglese quel cretino che aveva accanto a cui sanguinava il naso e tutto il resto aveva avuto la grande idea di scrivere su una quantità indefinita, ma di sicuro molto grande, di bigliettini la parola Pansy, poi li aveva appallottolati e si era messo a lanciarglieli. All'inizio Frank, come di suo solito completamente esente e distaccato dal resto del mondo, era intento a guardare un punto fisso della lavagna col mento poggiato sulla mano e neanche se ne era accorto, ma quando le piccole collisioni avevano cominciato ad intensificarsi lo aveva intravisto con la coda dell'occhio comodamente seduto al banco dietro ridacchiare e strappare pezzetti di carta da un foglio, con tanta euforia e concentrazione che un bambino mentre giocava con le macchinine avrebbe solo potuto ammirarlo. Allora si era limitato ad ignorarlo, pensando che prima o poi avrebbe smesso da solo, ma quando alla fine dell'ora si era ritrovato colpito da una media di cinquanta palline, tutte sparpagliate per terra sotto la sedia, sul banco ed un paio anche nel cappuccio, si era alzato ed allontanato in fretta con solo la direzione per la mensa in testa - tutto pur di uscire da quell'aula seduta stante, inoltre aveva pure appuntamento con Mikey - l'idiota aveva avuto la grande idea di chiamarlo appena fuori dalla classe, di farlo girare e di tirargli un'intera pagina di quaderno appallottolata su cui era scritta col pennarello nero la parola con cui si divertiva tanto ad offenderlo, causando così le risate del resto della classe che aveva assistito con tanta gioia anche al mitragliamento cartaceo. A quel punto Frank non ci aveva visto più e, mosso da un impeto accecante, lo aveva spinto al muro senza tanti complimenti e gli aveva rifilato un colpo in pieno stomaco, che poi era stato corrisposto ed in breve tempo si era trasformato in un vero e proprio picchiarsi. Ma forse da riferire sarebbe stato lungo, lo avrebbe fatto solo se strettamente necessario. Non c'era alcun bisogno di auto-umiliarsi. Inoltre era troppo concentrato ad affondarsi i denti nella carne dell'interno della guancia per aprire la bocca e spiccicare ancora parola.
«Questo non vi dà comunque alcun diritto di prendervi a pugni. La violenza è da evitare in questa scuola.» replicò la professoressa, che nel frattempo aveva allontanato gli studenti ammassatisi attorno a loro, sebbene qualcuno ancora lo guardasse da lontano. «Iero, è la terza volta nel mese che ti vedo coinvolto in qualcosa del genere. Dovrei mandarti dal dirigente, ma per questa, ed ultima, volta chiuderò un occhio. E tu invece,» il suo viso si spostò verso l'armadio a due ante accanto a lui ed assunse un'espressione contrariata. «Vai a farti medicare in infermeria, ti sanguina il naso. Mi auguro di non assistere mai più a qualcosa del genere, anche perché non sarò così indulgente, con nessuno dei due. Non prenderò provvedimenti disciplinari seri, ma questo influirà sulla vostra condotta finale. Ora andate, su.» concluse sbrigativamente, per poi fare dietrofront e andarsene in mezzo a tutti gli altri ragazzi che ammassavano il corridoio. Tra questi Frank intravide anche una testa munita d'occhiali che ben conosceva, per cui si sforzò di non guardarsi indietro e di camminare verso Mikey in modo disinvolto, per quanto glielo consentisse la rigidità degli arti dovuta alla rabbia.
«Possibile che tu non riesca a stare neanche un giorno senza fare a botte con qualcuno?» gli domandò non appena fu abbastanza vicino da poterlo sentire. Frank sbuffò e si issò per bene lo zaino pesante sulle spalle, seguendo l'altro verso la mensa. «Insomma, non tanto, ma neanche un giorno.»
«Ieri non è successo.» replicò, notando che la sua voce si era fatta roca e seccata.
«Ma l'altro ieri sì.» effettivamente non poteva dargli torto da quel puto di vista, ma non era mica colpa sua se improvvisamente quello che gli pareva metà istituto avesse riscoperto la gioia di rompere le scatole a Frank Iero. Erano praticamente due settimane che la gente aveva ripreso a lanciargli commenti acidi o ad attaccarlo fisicamente, lanciandogli i palloni a ginnastica quando invece si stava giocando a pallavolo o tornando ad appellarlo femminuccia o debole. E così Frank, già dal canto suo composto per il 70% non da acqua, bensì da ansia, tensione, in pratica una miccia impregnata di benzina, non faceva altro che cedere improvvisamente e dare sfogo alla sua ira fisicamente. Era come se fosse sul costante punto di esplodere, tutte le preoccupazioni accumulate fino a quel periodo erano probabilmente giunte ad un livello massimo di sopportazione, ed anche un minimo squilibrio nell'ambiente riusciva ad innescare una reazione spropositata. Era qualcosa che rasentava i suoi attacchi di sconforto che ormai non lo trovavano più impreparato, perché il processo era simile: la stessa incapacità di focalizzarsi su un pensiero diverso, la stessa impressione che tutto gli si stesse restringendo addosso che provocava una conseguente claustrofobia ai polmoni, la stessa voglia di prendersi la testa fra le mani e di urlare di smetterla, il respiro grosso, il battito accelerato ed un riflesso che lo costringeva a far scattare qualcosa, una gamba od una mano, in quel caso sulla faccia di qualcuno. Ricordava molto ciò che gli accadeva prima, ma le due azioni erano ai totali antipodi. Questa forza strana, invece di ancorarlo al fondo sudicio di un pozzo nero colmo di disperazione ed umido di lacrime represse, lo allettava su e lo costringeva ad arrampicarsi a mani nude col dolore che vibrava nei nervi, graffiando di sangue le mura e alimentando col fuoco della rabbia le stesse energie che gli facevano stringere i denti ed andare avanti. Era un invito a farsi avanti e reagire, un pistone che veniva compresso improvvisamente, facendo agitare tutte le molecole presenti nell'aria di un moto confuso ed irrazionale. E Frank aveva perso l'autocontrollo di accantonare il pensiero. Non lo subiva più, ora lo prendeva per la testa e gli tirava una ginocchiata in faccia.
Cosa che poi si rifletteva spesso su chi lo aveva provocato: dell'altro giorno aveva ancora dei leggeri lividi sulle braccia, ma lui non si era mai fatto nulla di serio. Scendendo le scale per arrivare al piano di sotto si portò due dita alla bocca, e se le ritrovò coperte da un velo rosso e viscoso. Si morse il labbro ed il sapore ferroso lo accompagnò per il resto della camminata verso la mensa. Con Gerard non aveva parlato dei suoi repentini scatti d'ira, che fossero dovuti a qualcuno che lo provocava o che fossero totalmente immotivati, con lui aveva cercato di non farne parola. Ormai con Gerard le cose stavano andando esattamente come sarebbero dovute filare dall'inizio tra psicologo e paziente: si vedevano un paio di volte a settimana e Frank mano a mano lo introduceva alla sua vita confusionaria e monotona, gli parlava del suo rapporto con gli altri ed il peso che sentiva si scioglieva poco per volta, aiutato dal calore del sorriso e dei gesti dell'altro quasi fosse stato fatto di cera. Si stava cominciando ad abituare alla sua vista come solo psicologo e nulla di più, e andava benissimo così. Gerard lo ascoltava con attenzione e seguiva attentamente i suoi gesti e le parole che diceva, intervenendo poche volte e dandogli alcuni consigli mirati per tentare di farlo interagire con qualcuno di diverso da Mikey, Ray e Jamia. Gli aveva detto di non aver paura di farsi avanti, che la maggior parte dei pensieri e delle congetture che si faceva erano un riflesso delle sue ansie da adolescente ed era normale averle, esattamente quanto era normale che fossero totalmente assurde quanto fuori contesto. Doveva solo superare quella minima barriera tra pensare ed agire, cosa che generalmente si riusciva a fare agendo d'istinto. E Frank d'istinto ci stava agendo, però forse in una maniera un tantino diversa da quanto Gerard si immaginava. Che poi cosa Gerard pensasse di lui non ne aveva la minima idea, e spesso se lo chiedeva, anche se stava entrando in pace con l'idea che di lui non dovesse pensare nulla di così particolare, come si era prefissato era solo il suo psicologo ed andava benissimo così. Non avevano più parlato né della volta in cui Frank aveva consolato Gerard né del bacio alla fiera d'arte, ormai un'inaccessibile ricordo di sabbia, ma per il moro non era un così grosso problema. Probabilmente se durante una delle sedute si fosse rimesso a pensare al fatto che quelle labbra sottili, proporzionate e di un rosa tanto chiaro che sembravano colorate con un pastello a cera erano state sulle sue per qualche secondo di un tripudio autunnale, e gli avevano trasmesso con quel minimo contatto al sapore di lacrime e caffè tante di di quelle emozioni che al solo pensare di elencarle gli sarebbe ribattuto il cuore o venute le vertigini, insomma, se si fosse messo a pensare a tutto questo o ai suoi capelli che gli scivolavano freschi tra le dita mentre lui dormiva quietamente poggiato su di lui, così perfetto e distante, avrebbe totalmente sbroccato, altro che risse occasionali a scuola, sarebbe sbroccato psicologicamente. Non voleva neanche pensarci, era meglio reprimere tutto in un angolino buio che poi scattava improvvisamente nei momenti meno opportuni sotto forma di rabbia violenta. Già, era meglio così.

dear psychologist 【 frerard 】Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora