【 twenty 】

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Scusatemi per la lunghezza del capitolo, ma non c'era verso che lo dividessi.

«Sono tornato.» annunciò Frank quella sera, non appena si ebbe richiuso la porta alle spalle con uno scatto. Rabbrividì a causa della folata fredda che aveva preceduto il suo ingresso e si sfilò la tracolla della chitarra dalla schiena, sfregando il tessuto contro la testa, causandogli una seconda ondata di brividi, oltre quella strana sensazione di cambiamento e conquista che gli faceva sembrare che il cuore gli battesse nell'acqua. Lo ignorò e poggiò la custodia con cautela sul muro là accanto, per poi appendere la giacca all'attaccapanni, i passi di sua madre già udibili in corridoio. Si mordicchiò nervosamente l'interno della guancia, il nervosismo e la tensione di quella giornata che ancora non lo avevano abbandonato totalmente.
«Eccomi» urlò sua madre dal salotto, e per un attimo Frank desiderò avere la possibilità di mischiarsi con il bagliore ocra dei muri sotto la luce artificiale e le ombre scure dei mobili, di confondersi nella realtà. Poi però inspirò profondamente e ricacciò tutto indietro, stringendo forte la chitarra oltre la stoffa ed aggrappandosi a quel manico come se potesse effettivamente sorreggerlo fisicamente oltre che metaforicamente. La figura di sua madre fece capolino in corridoio. «Allora, come è andato? Non mi hai detto praticamente nulla per - oh, Frank, cosa hai fatto?» l'espressione di sua madre mutò radicalmente, i suoi occhi socchiusi puntati sui suoi capelli. Frank si sentì leggermente a disagio mentre si portava una mano alla testa e si spostava il ciuffo scuro di lato, sopra la rasatura bionda a cui non si era ancora abituato appieno. Si sentiva esposto, ma non poteva negare di sentirsi anche bene così, con i capelli tagliati. Era il suo modo di comunicare un cambiamento.
«Perché, non ti piacciono?» domandò, aggiustandosi con un gesto le ciocche scure, sotto sguardo studioso di sua madre. Si passò le dita sui corti capelli tinti di biondo ai lati della testa, sentendoli scabrosi e pungenti sotto il tocco. Il suo sguardo cadde involontariamente sullo specchio appeso alla parete di sinistra, la sua figura appena distinguibile nella scarsa illuminazione serale, ma vedeva comunque il suo riflesso pallido stagliarsi sulla superficie cristallina, le ciocche color carbone a contrasto con il biondo platino e la sua pelle chiara, sfiorata dalle ombre degli zigomi. Gli donava, di profilo gli stava ancora meglio, gli definiva la linea della mandibola ed in parte anche lo sguardo. Si sentiva diverso, semplicemente, più vicino a qualsiasi cosa lì dentro che gli aveva fatto prendere la chitarra e messo a nudo il suo animo poche ore prima, che aveva tagliato il silenzio con la rabbia della sua musica. Si sentiva finalmente a suo agio. Sua madre invece storse la bocca, lo sguardo sempre incupito.
«Non ho detto questo, mi chiedo solamente il perché. Non hai mai detto di volerti tagliare i capelli.»
«Infatti non ci avevo mai pensato più di tanto.» replicò con sincerità, sostenendo il suo sguardo. «Non ci avevo fatto caso, però l'ho fatto.»
«C'è una qualche ragione in particolare?» chiese Linda, non tanto arrabbiata quanto più carica di una naturale apprensione materna verso i pericoli che potevano nuocere alla prole. Ed in un certo senso Frank odiava ciò. Era ormai adulto, forse più legalmente che a livello di maturità, ma il concetto era quello, stava imparando a vivere e non poteva farlo se riusciva a vedere costantemente i muri innalzati per proteggerlo. Aveva bisogno di abbattere tutto ed uscire, affrontare i pericoli di fuori, invece di rintanarsi all'oscuro di tutto, per quanto da un lato preferisse effettivamente vivere come la sua ombra, senza turbare l'equilibrio esagerato e caotico che lo circondava con il suo buio. Ed un rinnovato interesse alla sua protezione personale non lo avrebbe aiutato di certo. Non era un bambino, non più, non voleva il fiato sul collo, voleva le sue libertà. Di decisione, di comprensione e sì, anche di sofferenza.
«Andava fatto prima o poi, e mi andava.» scrollò le spalle e la oltrepassò, dirigendosi verso il salotto per poi buttarsi su di una poltrona. «Potrò deciderlo o no, se tagliarmi i capelli.» sua madre lo seguì e si sedette di fronte a lui, compostamente, sul divano. «A me piacciono, ed è questo l'importante.»
«Non lo metto in dubbio, ma non hai mai compiuto un cambiamento del genere senza-»
«Di cambiamenti ce ne sono stati fin troppi ultimamente, non trovi?» replicò lui piccato. Tutta la libertà che aveva sentito poche ore prima, con la chitarra in mano ed una melodia fin troppo nota in testa ora gli si stava rivoltando dentro. Era stato finalmente capace di respirare aria nuova, fuori da Belleville e dal New Jersey, che per quanto fossero sempre stati casa sua ora gli stavano cadendo addosso, ingabbiandolo. Lui non aveva bisogno di starsene seduto a guardare il tempo che passava, ne sarebbe stato capace di sedersi sul ciglio della strada per tutta la vita ad aspettare che questa scivolasse via, per poi rimpiangere tutto quando era ormai andato. Era capace di rimanere nello stesso angolo per un tempo indefinito, animato solamente dalla paura di disturbare un sistema che senza di lui sembrava perfettamente funzionante, sdraiato a guardare il soffitto fino a soffocare per mancanza d'ossigeno. E proprio per questo doveva svincolare da quei legami che sembravano accoglienti ma che poi lo avrebbero intrappolato per sempre, perché pensava troppo e si faceva decisamente troppe congetture su ogni suo secondo di vita, e così non arrivava a nulla, inciampava sempre e continuamente nella mediocrità della sua vita e si limitava ad accettarlo camminando con sempre più attenzione, invece di cambiare strada e correre fino ad avere le ginocchia dolenti ed i polmoni brucianti. Si era creato un suo presente parallelo nella testa, sempre chiuso lì a gambe incrociate, a pensare, a creare disordine e rumore in una stanza stagna e sigillata alla quale praticamente nessuno aveva accesso. Ma lui doveva vivere, per quanto in fondo l'idea della vita non lo allettasse più di tanto. Era sospeso nel grigio, ed invece di continuare a girare la miscela di colori doveva agire d'impulso, senza riflettere su conseguenze ed eventualità. Doveva svellere le serrature e buttare via tutte le chiavi per poi correre via, abbandonare tutto quello che aveva per potersene andare senza macigni addosso. Era questo richiamo di libertà che lo aveva tanto disturbato in quei diciotto anni di vita, confinato in quella che in fondo era solo una città, tra quattro mura decorate con poster e mensole cariche di libri, mura impilate di armadietti e persone con le quali proprio non riusciva ad interagire, strade che aveva percorso fino alla nausea, tutta la sua realtà che nonostante la rigirasse come gli paresse fosse sempre la stessa, per quanto alla fine non gli interessasse sentiva di stare soffocando, e sentiva alla sua accidia il contrapposto desiderio di buttare tutto all'aria, di far esplodere quella culla conosciuta e protetta in mille pezzi, soffocando la deflagrazione con gli assoli di chitarra, facendo in una volta tutto quel frastuono che aveva sempre ovattato. Per questo la scuola di musica lo aveva attirato, in fondo, un cambiamento completo e radicale della sua vita, qualcosa che gli avrebbe permesso di prendere a calci le fondamenta mezze abbandonate e ricominciare daccapo, con diciotto anni di ricordi a cui dare fuoco. Ed il repentino taglio di capelli era solo una manifestazione di quella lotta interna che se lo stava contendendo tutto, pezzo strappato per pezzo strappato. Quando poi si era guardato allo specchio si era finalmente sentito diverso, padrone di se stesso per una volta. Era un cambiamento che andava fatto, doveva eliminare quell'ammasso scuro che lo proteggeva da sguardi malevoli, e lo aveva fatto su due piedi, senza pensarci. Era forse una delle migliori decisioni che aveva mai preso, si era riuscito a separare da una parte di sé che lo teneva ancorato lì, in un presente artefatto e modellato, saturo di fumo grigio. E gli aveva fatto bene, non aveva la minima idea di rinnegare la scelta presa poco prima, aveva avuto ragione quando aveva detto che andava fatto. Forse si trattava un po' di autoconvinzione, ma già sentiva diverso il suo atteggiamento con la sua apparenza, un po' più libero dalle strette persuadenti della sua realtà passata. Aveva turbato il suo preteso equilibrio, ma ancora non gli bastava. Era solo il primo passo di qualcosa che coinvolgeva tutto il suo essere, qualcosa che, se ne rese conto in quel momento, si sarebbe necessariamente dovuto concludere con un totale abbandono.
«Ciò non giustifica questo cambiamento totale.» rispose sua madre, incrociando le gambe e puntando lo sguardo su di lui. «Frank, sono solo preoccupata per te. Non hai altro che la scuola di musica per la testa, ed ora torni a casa con i capelli tagliati. Mi sto preoccupando.»
«Be', non dovresti. Sto bene così, davvero, mi sento più a mio agio. Non c'è motivo di preoccuparsi per me.»
«Stai cambiando.»
«Ho diciotto anni.» asserì, sprofondando sempre di più nella poltrona, un moto di frustrazione che gli si agitava nel petto. Si morse con forza il labbro, puntando lo sguardo sul soffitto color ambra, illuminato dalle iperboli dorate delle lampadine, mentre percepiva sua madre emettere un sospiro. Gli era davvero difficile in quel momento contenersi dall'esternare tutte le emozioni che gli si stavano rimescolando dentro, montando l'una sopra l'altra e sconquassando tutto, richiamando a gran voce la sua attenzione come a dire parla per una buona volta, non ignorarci, non porta a nulla, dillo che esistiamo, perché stiamo qui e poi ti senti una merda. E alcune di loro avevano la voce di Gerard, quelle più forti, che lo facevano voltar verso di loro e gli davano la forza necessaria per ascoltare tutte le altre, per ascoltare se stesso. Si sentiva esplodere dentro, eppure si conteneva e tratteneva tutte le schegge nella loro posizione, per poi mollare tutto e lasciarle cadere solo quando era solo, e poteva ferirsi con i frammenti che passavano dal cristallo al rosso, e lasciava che gli penetrassero nella carne senza un lamento, attribuendo le lacrime di frustrazione al dolore. E tutto questo per cosa? Per uno stupido equilibrio di interazione sociale al quale era sempre stato educato, vero il quale provava un immenso odio. Era un equilibrio ipocrita ed elusivo, e stava cominciando a non sopportarlo proprio, era sempre più forte il desiderio di scagliarci un pugno contro e romperlo in mille pezzi, di specchiarsi in quella ragnatela cristallina ed ammirare finalmente il vero riflesso della società - rotta, sconnessa, esattamente come si sentiva lui. Così attraverso quel vetro stagno per molte volte la sua voce era stata soffocata, e lui non aveva mai protestato. Ora aveva voglia di gridare e di far esplodere tutto, per dire che invece c'era e aveva visto tutto, per ammirare quel tutto bruciare e assordare tutti coloro che con lui erano stati solo sordi, per parlare con la sua voce e con la sua chitarra, con gli accordi, con i sentimenti che sembrava così giusto fluissero da dentro di sé al mondo tramite sei corde e degli accordi graffianti e melodici. Come quando sua madre lo portava in ospedale a fare le analisi del sangue e vedeva il liquido venir pompato attraverso il tubicino di plastica, liquido vivo, di un rosso puro e intenso. Ecco cos era, la sua stessa fonte vitale che veniva pompata di fuori e pioveva carica degli stessi sentimenti che lo animavano su chi aveva sete e ne aveva bisogno, su lui stesso, vedere quella forza uscire dal suo corpo e dal suo animo lo faceva stare meglio. Era una canalizzazione del suo essere. E per quante volte avesse represso quel desiderio di far uscire un po' di rabbia rosso sangue ma si fosse trattenuto per i sordi, quelli che hanno paura degli aghi o gli incapaci di capirlo non lo sapeva più. Ed in riscatto per tutte quelle volte ora voleva solo esplodere di rabbia, e tingere tutto di un rosso assordante. Il suo sguardo scattò verso la madre. E allora perché non farlo? Perché si sarebbe dovuto trattenere ancora? Non avrebbe aiutato nessuno, sarebbe stato soltanto un altro vetro, un altro mattone nel muro. E lui il muro voleva distruggerlo, non costruirlo.
«Sai cosa?» domandò retoricamente, senza alzarsi dalla poltrona ma volgendo lo sguardo verso la madre, la quale ricambiò. Frank sentiva quella specie di esplosione irradiargli il petto, i nervi, il sangue - tutto, tutto il suo corpo, lui stesso era quel divampare di emozioni che in un secondo diede fuoco a tutte le sue certezze. E per una volta non le trattenne. «Forse sono cambiato, hai ragione, ma ad essere cambiato non sono io. Da sempre sono così, come mi vedi ora, eppure ho sempre cercato di reprimerlo. Perché non mi credevo abbastanza per intervenire, preferivo prendere le cose come mi capitavano piuttosto che farmi valere ed ottenere ciò che meritavo. E mi sono sempre nascosto, ho sempre impedito che le persone mi si avvicinassero più del necessario o che io stesso potessi avvicinarmi al mondo più del necessario. Ma ora sono stanco. Ad essere cambiato non sono io, semplicemente ora non ho paura di farmi vedere per ciò che sono, e non voglio avere paura. Mi conosci, con le persone che non conosco non sono estroverso, ma fa parte del mio carattere non essere tanto accomodante, anche un po' incostante. Ma sai cosa? In questi ultimi mesi la mia visione della vita è cambiata - la mia vita stessa è cambiata, per il meglio e per il peggio. Sono cresciuto più di quanto non lo abbia fatto in anni, non a livello fisico quanto a livello di persona. Mi sto cominciando a trovare, scopo che avevo abbandonato tempo fa, eppure ora, nel momento in cui meno me lo aspettavo qualcosa sta girando per il verso giusto. Ora ho delle persone che mi vogliono bene ed un obiettivo, e non ho la minima intenzione di farmi mettere i piedi in testa, non più. Sto cominciando a contare su me stesso, e non permetterò più che la mia voce venga ignorata, per quanto sia solo una tra tante. E forse ora posso anche cominciare a considerarmi adulto, sicuramente più di prima, non voglio più costringermi a nascondermi, e per questo mi sono tagliato i capelli. È un taglio, nel vero e proprio senso della parola. Sono io, sono Frank, la stessa persona di prima, ma non voglio più reprimermi o nascondermi per far piacere agli altri, non voglio aver paura di gridare anche io. La chitarra è questo mio modo di far sentire la mia voce è tutto quello che ho dentro, è il mio livello di comunicazione. La musica è ciò che mi fa vivere, mi dà uno scopo. Per quanto mi riguarda è ciò che conta di più per me, ed è l'unica cosa che ho davvero intenzione di perseguire nella vita. Che sia andato male o bene, io frequenterò quella benedetta scuola. E va bene così. Mi sono fatto valere all'audizione, e ho dato me stesso più di quanto non abbia mai fatto. Le persone cambiano mamma, le cose cambiano, le vite cambiano. Siamo costellati di cambiamenti, la nostra vita è formata dalle curve che facciamo per raggiungere la meta. Ci sono cose che cambiano superficialmente oppure più profondamente, che vanno per il meglio o per il peggio. Ed in me è cambiata questa tendenza a nascondermi, non voglio farlo più, io voglio vivere. E se voglio farlo con i miei sogni e le mie speranze, suonando una chitarra a ritmo di ciò che ho dentro posso farlo. Non sono più un bambino, ora ho una totale libertà di scelta, la mia libertà di scelta. Non puoi reprimere le mie libertà. Ti voglio bene e lo sai, te ne vorrò per la vita, ma nonostante sia tuo figlio io non sono più un bambino. Non ho bisogno di essere protetto dai pericoli e dai cambiamenti che potrebbero danneggiarmi, ho bisogno di affacciarmi ad essi, ho bisogno del mio spazio nella vita, della mia vita, di sbagliare anche, ma di imparare da me stesso e non dagli altri. Ho bisogno di vivere, mamma, per quanto tutto i cambiamenti potrebbero toccarmi. Ferirmi, o migliorarmi, a seconda dei casi. Ma non importa, perché sono io, e voglio che sia così. Sto bene così, e non voglio più reprimermi. Mai più, mi devo quantomeno questa forma di rispetto.»
«Non ho mai cercato di negartela, Frank.» rispose sua madre, la cui riga sottile delle labbra era rimasta immutata, nonostante il suo sguardo si fosse raddolcito. «Non lo vorrei mai. Però capisci che ti ho visto cambiare in poco tempo, e per una madre comunque è essenziale - no aspetta, fammi finire» esclamò Linda al tentativo di Frank di aprire la bocca. «Mi viene naturale. Ma non è di certo mia intenzione bloccarti dal fare ciò che desideri. O comunque limitarti nella tua crescita personale, assolutamente. Ti voglio bene anche io, è per questo che mi preoccupo. È l'istinto naturale di una madre. Non sono contraria a ciò che hai detto, sono solo... preoccupata, però concordo. Ma non voglio che tu pensi che il mio affetto genitoriale per te sia un legame soffocante, perché non è così, e lo sai bene. È bello che tu senta di star trovando il tuo spazio nel mondo, lo meriti. Hai tante qualità, Frank, meriti a volerle riconosciute.» il ragazzo non rispose, riportò lo sguardo al soffitto, l'attenzione ancora risolta alle parole dette e sentite. Non si pentiva di averlo fatto, sebbene sentisse che sua madre fosse rimasta turbata, forse dalla sua irruenza, o dall'insinuazione che fosse soffocante. Ma non era quello. E poi c'era una domanda che gli ronzava in testa, e stava davvero scomodo accasciato scompostamente sulla poltrona. Si rimise seduto per bene e poggiò testa allo schienale, poi volse lo sguardo alla donna.
«Papà è morto, vero?» domandò con un tono più serio di quanto volesse, cercando un contatto diretto negli occhi di sua madre. Ci furono pochi attimi di silenzio prima che la donna si alzasse e si muovesse verso di lui, per poi sedersi sul bracciolo alla sua sinistra. La sua figura oscurava la luce della lampadina, Frank poteva solo sentire lo sguardo dei suoi grandi occhi scuri puntati dolci ed apprensivi su di lui. Voleva la risposta, voleva una risposta vera e matura, non alterata dal loro rapporto, raddolcita o parafrasata. Voleva la risposta cruda, sapere come fosse davvero la situazione, per quanto il suo cuore sembrasse battere nel vuoto, in mezzo al suo petto, solo il sangue ad alimentare il suo corpo.
«Frank, sai bene che la situazione è complicata...»
«Mamma» la ammonì lui, inarcando le sopracciglia. «Voglio saperlo, davvero.»
Linda sospirò, le sue occhiaie appena visibili nel controluce. «No Frank, in questo momento tuo padre è dato per disperso, lo abbiamo sentito entrambi. Non è morto.»
«È solo un modo carino per dirlo.»
«Ti sbagli. Quando ci sono questo genere di incidenti ci si mettono anche mesi prima di recuperare tutti i dispersi, e ciò non toglie la possibilità che si sia salvato.» Frank soffiò nervosamente su una ciocca scura che gli era ricaduta sul viso, ma quando sua madre gliela spostò dall'altro lato della testa prese a mordicchiarsi l'anellino sul labbro.
«Allora è solo un modo carino di anticiparlo.»
«Non devi darlo per morto, perché non puoi saperlo.» disse con serietà sua madre, allontanando la mano dal suo viso. Era palese che, nonostante tutto, si stesse sforzando di trattenere le emozioni causate dalla scomparsa di Anthony. «Non possiamo pretendere di saperlo. Non mi hanno dato molte informazioni sull'incidente, ma ci sono possibilità che si sia salvato, non aiuta in una situazione così arrendersi subito alla peggiore delle prospettive.»
«Io non voglio che sia morto.» sussurrò Frank, lo sguardo fisso sull'unica lampada accesa nella stanza, offuscata da un tremendo paralume arancione. Dovette mordersi l'interno della guancia fino ad avere una lancinante fitta di dolore pur di fermare il calore che affluiva sempre di più a guance e occhi, a loro volta sempre più umidi. Non voleva piangere di nuovo, per quanto il vuoto nel petto minacciasse di implodere da un secondo all'altro. Che patetico, non sai neanche reggere il discorso. Sbuffò e reclinò la testa all'indietro, lo sguardo puntato su Linda. «Gli voglio bene, mi ha insegnato lui a suonare la chitarra. È stato pensando a lui che ho deciso di frequentare la scuola di musica. Non voglio che lui sia morto.»
«Anche io tengo tanto a lui. Siamo una famiglia.»
«Tu non lo ami più.» asserì, senza rancore.
«Siamo molto legati.» le risposte elusive di sua madre, non le sopportava davvero. Ma non ci si voleva soffermare, anche per Linda era un grande shock e non voleva esserle di peso. «È un uomo forte, davanti al pericolo ha sempre avuto la forza di affrontarlo.»
«Mi manca.» disse dopo qualche attimo di silenzio, un groppo in gola che non accennava a sciogliersi. Era giusto essere tristi, delusi, arrabbiati. Non doveva vergognarsi delle sue emozioni. E non si tirò indietro quando sua madre avvolse un braccio attorno alle sue spalle e lo strinse dolcemente a sé. Ocra, ecco il colore delle luci, come la malinconia di un ricordo fulgente, oramai passato. Il colore delle luci e dell'affetto di una madre che bastava per la tristezza di entrambi.
«Manca anche a me.»

dear psychologist 【 frerard 】Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora