Capitolo XXXIV - Vendetta

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- Questa storia inizia tanto, tanto tempo fa. Precisamente tre secoli fa. Ti sembra tanto tempo? Sì, probabilmente lo è. Ma fidati, il dolore e la rabbia non impiegano certo qualche centinaio di anni a scemare. No, proprio no.
C'era una volta.... c'era una volta un uomo comune. Un babbano, come dite voi. Uno stalliere, per la precisione, così come il padre e suo padre prima di lui. Da generazioni lavorava nella enorme proprietà di una famiglia nobile, ricchissima e potente, i Savile; conduceva una vita semplice, frugale, la vita dei vassalli che non chiedono nient'altro se non continuare ad abitare il loro pezzo di terra e a fare il loro onesto, dignitoso mestiere. I suoi erano dei bravi padroni, di certo migliori di quelli di tanti altri nella sua condizione: avevano una casetta dignitosa, di mattoni e legno, abiti puliti e mangiavano bene. Li trattavano con rispetto, anche se non da pari. In particolare la signora lo prese particolarmente a cuore: era l'ultimo di otto fratelli, piccolo e gracile ma educato, aveva tanta voglia di imparare, di studiare, di , ed erano qualità che lei apprezzava. Aveva una figlia di tre mesi più piccola: la bambina era strana, molto strana, per il piccolo coetaneo. Faceva capitare cose assurde, muoveva gli oggetti, faceva esplodere le cose quando era arrabbiata o inquieta, e poco tollerava gli adulti, in particolare i suoi severi precettori. La madre pensò che magari, affiancandole un compagnuccio di studi, le cose sarebbero potute migliorare: certo, a lui i rudimenti, niente di più dello stretto indispensabile, ma serviva giusto per avviarla alla disciplina e al rigore accademico. Così, a sei anni, iniziarono a studiare insieme. E a giocare, anche, quando era possibile.
Sai come si chiamava quella bambina? Hermione. Buffo, no? Hermione Helen Savile.
A dodici anni gli adulti decisero che ormai erano troppo grandi per passare tanto tempo insieme: l'età imperava, lei si faceva ragazza, ormai non era più consono che giocassero a rotolarsi nell'erba e a fare il bagnetto insieme nel lago. Se avessero voluto vedersi l'avrebbero dovuto fare davanti ad un thè nel salotto, alla presenza di un adulto, e parlare di amenità come il tempo atmosferico o la salute dei cavalli.
Lo facevano, ovviamente. E si annoiavano come pazzi. Ma era una finta obbligatoria, interrompere i rapporti così di colpo sarebbe stato troppo sospetto. Quello era il prezzo, in fin dei conti modesto, da pagare per i veri momenti in cui potevano stare insieme. Erano momenti imbarazzanti, combattuti come erano dalla voglia di toccarsi e dalla consapevolezza di non poterlo fare, erano dolorosi per tutta quella frustrazione repressa, ma erano anche meravigliosi: era un bisogno feroce, lancinante, ineludibile. Si nascondevano nel fienile, dormivano abbracciati e parlavano davvero. Lei gli mostrava le sue magie e lui restava a bocca aperta, estasiato: non le avevano concesso di andare a scuola nè di tenere una bacchetta, ma lei era così potente che riusciva a comunicare con l'ambiente, a mutare il movimento delle nuvole, a far fiorire gli alberi o appassire le rose.
Intanto il giovane si spaccava la schiena: oltre ad aiutare il padre nella stalla faceva il garzone in un'osteria, l'aiuto macellaio, il taglialegna, l'aiuto fabbro. Tutto per mettere da parte qualche soldino, un piccolo gruzzoletto. Appena compiuti i ventun anni sarebbero fuggiti insieme, l'avrebbe sposata, avrebbero avuto tanti bambini e sarebbero stati felici per sempre. Ah, le illusioni della gioventù!
Inutile dirti che erano solo utopie. A diciassette anni suo padre la promise ad un nobile, un maledetto cuore di tenebra, maleducato, incivile, altezzoso e crudele. Ma era ricco, ricchissimo, dal patrimonio sterminato, ed Hermione era bellissima, bella come un bocciolo di rosa che sbuca timido da sotto l'ultima neve invernale. Quando giunse a chiedere la sua mano, obiettivamente, sarebbe stato assurdo che suo padre gliela rifiutasse, anche se aveva sentito tutte le orribili voci sul suo conto. Voci di servi scuoiati vivi, di magie oscure, di negromanzia e corruzione.
Scommetto che sai come si chiamava questo nobile gentiluomo. Malfoy, giusto. Astaroth Malfoy.
Hermione si ribellò con tutte le sue forze, era testarda abbastanza da sfidare suo padre apertamente. Scioperi della fame, mutismo serrato, disprezzo palese nei confronti del fidanzato, che rideva della sua sfrontatezza. Una volta che egli aveva dato in consegna il suo cavallo allo stalliere - un esemplare superbo, ancor oggi ricordato -, non curandosi della sua presenza, scherzò col suo servo su quanto la ragazza fosse "una puledra ribelle" e sui molteplici modi in cui lui "l'avrebbe domata".
Lei implorò il suo amore di fuggire, ma sapevano entrambi che non era possibile. C'erano delle protezioni magiche intorno all'area che non avrebbero mai consentito di uscire, e una volta ripescati la punizione per lui sarebbe stata terribile. L'unica cosa da fare era continuare ad opporsi e magari approfittare di un momento di distrazione in cui le barriere sarebbero state abbassate.
Suo padre la conosceva, in fin dei conti l'amava con la mentalità dei genitori dell'epoca. Sapeva che non le importava nulla di subire punizioni o percosse, di vedersi diseredata o rinchiusa in un convento: era veramente una testa di pietra, Hermione. Così lord Savile la colpì nel suo punto debole: il ragazzo. Non era affatto stupido, sapeva che si volevano bene, anche se non immaginava come nè quanto. Le giurò sulle anime dei suoi antenati che, se non gli avesse obbedito, l'avrebbe fatto uccidere e il cadavere gettato in pasto ai cani, così da non poterle dare nemmeno una tomba su cui piangerlo. Gli sarebbe dispiaciuto, in fin dei conti aveva un certo riguardo per i suoi genitori, anche se babbani, ma non poteva tollerare che un accordo così fruttuoso andasse perduto, nè che il nome dei Savile fosse macchiato di un tale disonore. Hermione fu costretta a capitolare.
I preparativi diventavano frenetici e lei non faceva altro che piangere nella sua stanza. Ma sapevano entrambi che non avrebbero potuto non dirsi addio in modo dignitoso. Lei preparò un posto fantastico nei sotterranei di un castello diroccato, un posto magico, come un'oasi di pura bellezza, un cuore d'oceano -.
- Nei.... nei sotterranei...? - lo interruppe Hermione, ma Patrick sembrò non sentirla, preso dalla narrazione.
- Ma! Adesso arriva il grande "ma". Quando il male entra nella tua vita non ce ne si può liberare. Il maledetto Malfoy li aveva scoperti e mandò a seguirli un suo sicario. Un vampiro.
- Tu! - sputò fuori Hermione, al colmo dello sdegno.
Patrick le sorrise, un ghigno bestiale che le fece accapponare la pelle.
- Non io, cara la mia stupidina. Il mio Maestro. Il mio iniziatore. Sladibrovik II, voivoda(1) di Aninoasa, nipote del famigerato Vlad III di Valacchia.
La ragazza rimase in silenzio per qualche istante. La verità che le balzava nel cervello la stordì e la annientò, facendole spuntare le lacrime agli occhi.
- Allora tu... tu sei....
- Piacere, miss - ridacchiò, profondendosi in un inchino teatrale - Patrick Korset, figlio di Joseph, stalliere. Dal 1775, Patrick Sladibrovick III, vampiro.

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