Capitolo XXII - Ricordi (parte prima)

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La prima cosa che vide Hermione se la ricordava perfettamente, e nonostante fosse uno spettatore invisibile la rivisse proprio come se fosse stato il giorno prima.

Niente trascina le carrozze, Harry.
Hermione avrebbe tanto voluto essere ancora così sicura della sua affermazione, così come lo era stata tre anni prima, quando ancora le cose erano appena abbozzate, tutto sommato gestibili. Allora era assolutamente certa che nulla trascinasse le carrozze, perché nulla le suggeriva il contrario; e quando non hai qualcosa che confuti la tua teoria, non c'è motivo per cui tu debba abbandonarla. Era stato più facile pensare che fosse Harry, quello con qualche rotella fuori posto, scosso dagli esiti disastrosi del Tremaghi, indebolito dal rituale di sangue subito, stressato e confuso. Era stato così semplice crogiolarsi nella propria sapienza, nelle pergamene e nei libri stampati, trincerandosi nella dorata convinzione che niente mai ti accadrà, che ne uscirai vincente e sfolgorante di nuova gloria, che è solo un problema passeggero ma poi tutto tornerà alla solita, tranquilla, felice e rassicurante banalità.
Poi erano iniziati i giochi, i giochi quelli veri, ed Hermione ci aveva volato a cavalcioni, su quel niente. Aveva avuto paura, certo, una paura tremenda, ma in una certa qual misura l'aveva trovato anche nuovo, azzardato, folle, emozionante. Il vuoto sotto i suoi piedi che era allo stesso tempo un appoggio forte e stabile, che sensazione meravigliosa! Si era sentita libera, eroica, combattiva, indomabile.
Hermione Granger, padrona del cielo e della magia, correva al Ministero per tentare di salvare il mondo.
Quasi le era venuto da ridere, al pensiero di quanto era stata superba e vanesia.
Quasi le era venuto da piangere, perché sapeva che così non sarebbe potuta essere mai più.
Perché non aveva più scuse.
Perché li vedeva.
Non c'è niente di più ingannevole e destabilizzante del senso di onnipotenza adolescenziale: quando poi valichi quel confine – e nemmeno te ne accorgi, di averlo sorpassato – ti rendi conto che in realtà sei un piccolo esserino insignificante, sottoposto alla capricciosità del destino e all'imprevedibilità degli eventi, e né tutta la scienza infusa di questo mondo né la caparbietà con cui tiri fuori gli artigli e graffi e mordi e meni fendenti riuscirà a graziarti dal dolore, dall'impotenza, dal sangue versato, dallo spettacolo osceno e insieme affascinante di decine di cadaveri ammassati, pozze schiumose di sangue e bile, occhi sbarrati e speranzosi fino all'ultimo di abbrancare un pezzetto di cielo, bocche aperte a chiedere perdono o a bestemmiare, a seconda dei casi.
Hermione era scesa dall'Espresso di Hogwarts ed aveva serrato gli occhi. Piano, piano, pianissimo, aveva iniziato a muovere qualche incerto passo in avanti.
- Vuoi una mano? – le aveva chiesto Neville, preoccupato e timido.
La ragazza aveva scosso con furia la testa, allo stesso tempo irritata da quel soccorso non richiesto e dispiaciuta per aver risposto con sgarbo. Ma la verità era che non riusciva a sopportare quella condizione di superiorità in cui Neville si veniva a trovare: lui li vedeva già a undici anni, non aveva dovuto lottare contro il suo cuore e il suo cervello nella speranza vana di impedire a quel nulla di cambiare significato.
Per l'amico, i Thestral avevano sempre rappresentato morte e caducità.
Per Hermione erano natura, fierezza animale, oggetto di studio; adesso avrebbe dovuto caricarli di un altro senso, un senso che era come un armadio stipato di ricordi – il naso da maiale di Tonks, la litigata a Grimmauld Place con Remus, i ragni di Moody, i Fondenti Febbricitanti di Fred, lo stridio di Edvige, persino i dolcetti ripieni di sonnifero che al primo anno avevano rifilato a Tiger e Goyle - ed era l'ultima cosa che aveva voglia di fare.
Hermione aveva strizzato gli occhi e mosso un passo dopo l'altro.
- Siamo quasi arrivati, Hermione. Siamo quasi arrivati – aveva udito spiegarle di nuovo la voce di Neville.
Ma lei non aveva voluto sapere dove. Le sarebbe piaciuto che le avesse risposto da nessuna parte, così come prima i Thestral erano nulla, ma ormai l'assenza, il niente, il vuoto non esistevano più. Troppo male, troppo dolore, troppa sofferenza erano nate dalla guerra, talmente tante che avevano riempito ogni spazio, ogni angolo, ogni pertugio dove il nulla avrebbe potuto rintanarsi.
Quante volte l'aveva fatto, da bambina, quello stupido giochetto? Camminare ad occhi chiusi, a rischio di sbattere contro un palo o di inciampare su un pezzetto di marciapiede rialzato.
Quanto era stato diverso farlo in quel momento, da bambina scaduta, da ragazzina traumatizzata, da donna torturata? Quanti sono i gesti che ripetiamo sin da quando abbiamo imparato a camminare, ma che ci sembrano completamente diversi? Cos'è cambiato? Cosa no?
Hermione non riusciva più a chiederselo. Troppe domande le affollavano la testa e la cosa peggiore era che non riusciva a darsi una risposta.
Era salita alla cieca in carrozza, tastando i sedili e accomodandosi pesantemente in senso contrario a quello di marcia.
Solo allora si era concessa di socchiudere gli occhi.
Aveva sobbalzato, stupita e vergognosa, quando aveva visto quelli di Draco Malfoy sondarla centimetro dopo centimetro e subito dopo piantarsi nei suoi, allo stesso tempo terribili e bellissimi.
Era già lì, lui, quando lei era salita? O era arrivato in quel breve lasso di tempo al buio senza che lei lo sentisse?
Aveva aperto la bocca per dirgli di scendere, di sparire, di allontanarsi, ma non era riuscita a pronunciare una sola parola di senso compiuto.
Era molto magro e pallido. Come lei.
Aveva quello sguardo perso, confuso, sfuggevole. Come il suo.
Aveva perso quella boria da nobile, l'arroganza del potente, il disprezzo del migliore che non era più. Come lei.
- Apri gli occhi.
Non era riuscita nemmeno ad afferrargli il braccio; la sua chioma bionda già si allontanava.
Ci era voluto un mese e mezzo per parlarsi di nuovo.

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