🪲Ventesimo capitolo 𓂀

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Erano passati altri due giorni in cui Erdie non aveva minimamente parlato con nessuno tanto che temeva di non saperlo più fare.

Piangeva. Era tutto quello che riusciva a fare. A volte cercava di mandar giù qualcosa, altre volte cercava di chiudere gli occhi e dormire. Ma la morte di sua sorella era il suo incubo ricorrente che la tormentava anche da sveglia.
Sembrava quasi un'illusione vedere il suo letto costantemente vuoto.
Non riusciva ancora a crederci.

Quel giorno suo padre la volle aiutare in prima persona, poiché con dolore vide che rifiutava puntualmente da Krio ogni cosa la ragazza le proponesse da mangiare.

«Erdie ti ho portato un po' di latte e miele, togliendo quel sapore amaro dalla bocca sarà più facile mangiare un po' di carne».
«Non ho fame padre» gli rispose girando di lato il capo sul poggiatesta.

«Tesoro, gli dei ti hanno salvata, ma adesso tocca a te guarire il tuo corpo».
«Non voglio curare il mio corpo, sono stata io la causa della sua morte» disse scrutando suo padre, il cui corpo si tese come una corda «Lei non voleva venire con me. Sono stata io a far addormentare tutti e a scappare con lei. Dovete odiarmi».

Imhotep le accarezzò i capelli, scoprendole il viso scarno.
«Dovrei esserlo bambina mia, ma non posso. Non riesco» le confidò, senza smettere di accarezzarle il viso. «Tu sei mia figlia, il mio bene più prezioso. Non potrei mai odiarti».

«Neanche Mine ti odiava, è entrata nei miei sogni e mi ha chiesto di dirtelo».
Gli occhi dell'uomo persero due rivoli di lacrime, deglutì e scosse il capo. La sua bambina, la sua dolce e piccola bambina aveva trovato le forze di viaggiare fra i vivi.

«Spero davvero che mi abbia perdonato, tuttavia non oso sperare. Ma adesso mangia tesoro. L'infezione ti ha corroso il corpo».
«No, padre. Non voglio mangiare e non voglio guarire» rinnovò la sua posizione, piangendo «lei ha perdonato me, ma io non riuscirò mai a perdonare me stessa! »

L'uomo afferrò le mani fredde di sua figlia fra le sue.
«Conosco bene questo senso di colpa. C'è qualcosa che non vi ho mai raccontato e che riguarda la vostra nascita.
«Sai già che quando sposai vostra madre ero un semplice artigiano ma soprattutto non credevo nella potenza degli dei.
«La nascita è ricca di pericoli proprio come la creazione del mondo, ma io non ci credevo. Vostra madre invece sì. Sulla fede non eravamo in sintonia, ma era qualcosa che sapevamo affrontare.
«Il giorno del parto però litigammo. Io non pensavo fosse giusto perdere tempo in rituali che giudicavo sciocchi, ma fosse meglio preparare subito i mattoni del parto su cui tua madre si sarebbe dovuta accomodare per darvi alla luce.
«Quando giunsero le due lavatrici io beffeggiai i loro cerchi protettivi, mi presi gioco della dea Tuareg e del dio Bes, che avrebbero dovuto proteggere mia moglie» l'uomo abbassò il capo sconsolato, profondamente turbato da quei ricordi che avrebbe voluto rimuovere per sempre.

Si fece spazio fra il dolore e continuò a raccontare. « Durante il parto Siphta mi rimproverò, sembrava odiarmi. Le sue frasi malvagie mi colpirono e a nulla serviva che le levatrici mi ricordassero che quelle frasi erano dettate dal dolore immane del parto.
«Tu e Mine nasceste, eravate così piccole e vostra madre così felice... » la commozione nelle parole era lampante «Purtroppo però il sangue dal corpo della mia donna non sembrava voler smettere di uscire. Stava morendo e ce ne rendevamo tutti conto.
«Le donne vi portarono via lasciandomi solo con mia moglie, a cui avevano somministrato un potente calmante per fermare i dolori e concederle una dolce morte. Anche se Siphta non era più in sé mi confidò di temere l'attraversamento della Duat».

Imhotep si arrese al magone che gli opprimeva la gola come una bestia scalpitante e iniziò a piangere. «Implorai gli dei con ogni preghiera che lei stessa mi aveva insegnato, barattai perfino la mia vita con la sua. Ma a nulla servì disperarmi.
«La donna che amavo morì davanti ai miei occhi, solo perché ero stato così sciocco da prendermi gioco degli dei».

Imhotep fece una pausa che Erdie non violò. Si asciugò le lacrime, tirò su con il naso. Sua figlia per la prima volta osservava suo padre come un uomo fragile e non come il vizir che tutti conoscevano, saggio e imperturbabile. E in fondo al cuore era felice che suo padre non si vergognasse di mostrarsi così debole di fronte a sua figlia.

«I primi giorni dopo la morte di Siphta li ho passati da solo nella seconda stanza della nostra povera casa» riprese a narrare dopo essersi appena un po' ricomposto «Non avevo il coraggio di vedervi; mi sentivo svuotato e terribilmente solo. Lasciavo che le due levatrici si occupassero di voi due.
«Tutto cambiò quando la terza notte mi venne in sogno la dea Iside. Mi disse di non essere triste e che mi dovevo prendere cura di voi non solo perché eravate l'eredità della mia defunta moglie, ma perché derivavate direttamente da lei. E se mi fossi preso cura di voi mi avrebbe reso l'uomo più influente di Kemet».

Erdie aveva avidamente ascoltato ogni parola del padre e senza accorgersene le erano già scese troppe lacrime che non credeva più di avere. In quell'istante le salì una tremenda nostalgia di sua madre, l'avrebbe voluta conoscere e scoprire tutto ciò che la rendeva simile a Mine.

«Come può, però, questa storia farmi stare meglio padre? »
«Mine si è sacrificata per te, per salvarti. E per ringraziarla devi lottare e non rendere vana la sua morte. Ma non sei sola, io ti aiuterò in ogni modo bambina mia. Siamo una famiglia, non dimenticarlo mai».

Erdie scoppiò in un pianto liberatorio, abbracciando forte suo padre. Si promisero che insieme ce l'avrebbero fatta.

Note autore: Ennesimo capitolo che mi riempie di malinconia

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Note autore:
Ennesimo capitolo che mi riempie di malinconia. Questi passaggi talvolta li sento proprio sulla pelle.
Ce ne saranno altri tristi, perché ovviamente piove sempre sul bagnato. Ma non scoraggiatevi, anche Erdie ogni tanto sarà felice...

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