La scomparsa di Sherlock

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Londra, 1882, febbraio, giovedì mattina.

Londra aveva sempre esercitato un certo fascino nella vita del dottor John Watson.

Da quando era tornato ferito nel corpo e nella mente dalla guerra anglo-afgana, si era stabilito a Baker Street condividendo l'appartamento con quell'amico bizzarro e sorprendente che era Sherlock Holmes. 

Si erano conosciuti al Saint Bartholomew's Hospital grazie a un vecchio collega, mentre cercava lavoro come medico aggiunto.

Quel ragazzo di ventiquattro anni lo aveva affascinato con la sua intelligenza pronta e acuta. Sembrava vedere cose che nessun altro scorgeva e in sette mesi avevano stretto un connubio amichevole e sorprendente benché lui, fosse più vecchio di quasi dieci anni.

A volte lo trovava molto più maturo per la sua età, altre invece doveva guidarlo come un adolescente capriccioso. La ferita alla gamba gli dava ancora fastidio ma vivere a Londra lo inebriava, si sentiva attratto dalla capitale, ed era tornato per restare. 

La sua vita non era certo noiosa, visto che il giovane Holmes si era inventato una sorta di lavoro: consulente investigativo.

Era molto bravo, ma spesso si gettava a capofitto in mezzo a omicidi di ogni genere o si perdeva in noiose crisi di apatia quando non aveva per le mani dei casi importanti. A volte tornava con qualche ferita che lui, malgrado le proteste, medicava con cura. 

Quel giovedì mattina, Watson era sceso presto, aveva salutato la signora Hudson, la proprietaria della casa, che da tre giorni gli rivolgeva lo sguardo preoccupato e malinconico.

"Il signor Holmes è tornato?" Lui scosse la testa in diniego. 

"Niente, nessuna novità, nessun messaggio." 

Preoccupato lo era anche lui, non era da Sherlock sparire senza avvertire.

Solitamente, il giovane investigatore, inviava una missiva tramite uno dei numerosi piccoli orfani che vagavano per la città, rassicurando Watson che era sano e salvo. Lui si prendeva cura del ragazzino, offrendogli un pasto e un penny, seguendo le istruzioni di Sherlock.

Ma tre giorni senza notizie erano veramente troppi. 

Così si decise; si vestì con cura, prese il cappotto e il cappello a tese larghe, chiamò una carrozza e aspettò in ansia ripensando all'ultima volta che aveva visto il suo amico.

"Buongiorno Watson, è in ritardo stamattina." sentenziò Sherlock senza rivolgergli lo sguardo.

John sollevò le sopracciglia, il suo amico era entrato in uno di quei momenti di apatia che tanto temeva.

Era lunedì e il giovane investigatore indossava ancora il pigiama e sopra la sua solita vestaglia a quadri marrone, lo trovò sprofondato sul divano a guardare il soffitto. 

Era annoiato e questo lo portava a essere irritante e scorbutico. 

John si preoccupò; ogni volta che cadeva in uno stato d'inattività, per combattere la depressione e la noia, faceva uso di cocaina diluita, motivo di accese discussioni tra loro.

"Ha visto il mio marocchino rosso? Devo mantenere la mia mente in movimento, la mancanza di casi mi impigrisce! Queste giornate uggiose mi uccidono!"

"Ormai la conosco Holmes, per questo la prego di non iniettarsi quella robaccia." Lo rimbrottò e lo fissò con aria severa, consapevole che non sarebbe servito a molto.

Sospirando, aprì il numero dello Strand magazine che la signora Hudson lasciava sul tavolo insieme alla colazione.

"Non è robaccia John, la uso con attenzione, mi aiuta a mantenermi vivo e non mi spegne il cervello."

Le strade di Londra_ La scomparsa di SherlockDove le storie prendono vita. Scoprilo ora