30 Novembre 2888

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- Lawrence -

Quella era l’undicesima ragazza, in un anno, trovata morta a quel modo: nuda, sfigurata, orribilmente mutilata.

Il modus operandi faceva pensare al caso di Jack lo Squartatore, risalente a circa mille anni prima e ovviamente la stampa non aveva perso tempo nel far notare le similitudini, aveva calcato la mano sui particolari macabri.

Lui, diventato ispettore capo proprio all’inizio di quell’anno, non sapeva più dove sbattere la testa: temeva di sapere chi fosse il colpevole, anche se sperava di sbagliarsi.

La vittima doveva esser stata una bella ragazza, da viva.

Era stata rapata a zero, le dita le erano state amputate, il volto sembrava esser stato tagliuzzato appositamente per renderlo irriconoscibile.

“Da cosa deduci che fosse bella?” Matthew, il suo vice, nonché suo miglior amico, richiamò Lawrence alla realtà

“Guarda la sua pelle liscia, Mat. Guarda le caviglie sottili … Era quanto meno una ragazza che si prendeva gran cura di sé.” Gli rispose, con un sospiro.

Il sospiro era dettato dalla stanchezza, dal rimpianto di una giovane vita spezzata da un folle.

Perché poteva essere solo un folle, qualcuno che si accaniva così sulla sua vittima.

Forse aveva ragione sua nonna Mathilda, quando gli diceva che non era tagliato per fare il poliziotto: “Sei troppo puro di cuore, Lawrence. E i poliziotti devono avere un po’ di nero dentro, per comprendere i criminali”.

Non le aveva dato retta, allora. A volte se ne pentiva amaramente.

Forse avrebbe dovuto fare il giornalista come Ewan, suo cugino, o continuare a lavorare nella drogheria di famiglia, invece che lasciarla a suo fratello Marc.

Si sentiva troppo stanco e nauseato. Diede qualche istruzione a Matthew, affinché il cadavere venisse rimosso dalla strada una volta terminati i rilevamenti, quindi prese una carrozza e si fece portare in commissariato.

Lì, si disse, sarebbe riuscito a ragionare meglio.

- Moma -

Era certa che sarebbe successo, i segni erano stati chiari. La notte precedente, poi, lo aveva sentito passare. Lei e il piccolo sgorbio che viveva nella sua casa avevano fiutato l’odore di morte che arrivava dal vicolo.

Era rimasta in disparte ad osservare il via vai dei poliziotti e dei curiosi, con il mostriciattolo attaccato alle gonne, fremente. Lo aveva con sé fin da quando era una ragazzina; ormai era passato tanto tempo che nemmeno ricordava più il momento preciso in cui erano diventati praticamente una cosa sola: semplicemente, un giorno se lo era ritrovato fra i piedi e da allora le era sembrato impossibile aver vissuto alcuni anni senza che lui fosse presente, così come le sembrava impensabile immaginare un futuro senza lui accanto. Lo chiamava il mostriciattolo ma lui non se ne aveva a male. Del resto, era un piccolo essere informe senza età e senza nome. Era alto poco più di un metro, aveva la pelle raggrinzita ed incartapecorita come quella di un vecchio, le gambe storte, le braccia lunghe e magrissime. Pochi capelli sulla testa; quello che possedeva, di buono, era una dentatura impressionante: Moma a volte si chiedeva se avrebbe potuto sbranare qualche essere vivente, con quei denti affilati ed aguzzi.

 Il mostriciattolo faceva paura.

 Non a lei, di certo.

 "Ne ha uccisa un’altra. Non riesce a fermarsi” mormorò, allungando il collo per sbirciare quel piede candido del cadavere che sbucava da sotto il lenzuolo, in mezzo al capannello di poliziotti.

 La morte non la impressionava più. Nemmeno la cattiveria degli uomini. La lasciavano indifferente. Aveva tanti anni, troppi, per emozionarsi ancora.

 Tuttavia, quegli omicidi la interessavano.

 Moma guardò il giovane ispettore montare su una carrozza che poco dopo le passò accanto a tutta velocità. Sollevò lo sguardo per cercare il volto di Lawrence attraverso il finestrino, poi si voltò

 “Vieni, torniamo a casa” Sussurrò, aiutandosi col bastone a riprendere il cammino.

 Il mostriciattolo si soffermò ancora un momento a fiutare l’aria, poi si affrettò a seguirla. 

Requiem per una sposaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora