Di alambicchi, congegni ed ingegni

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Zoltan, così si chiamava in realtà il Ragno.

Soltanto Donald conosceva il suo nome di battesimo; gli altri, al massimo conoscevano il suo cognome, Kossuth; proveniva da una piccola provincia ungherese, Novaj.

Aveva vissuto lì fino a quando un incidente con una delle sue macchine aveva provocato la morte di un uomo e lui era stato costretto a fuggire per evitare il linciaggio.

Anche a Novaj la gente mostrava diffidenza verso le sue creazioni; aveva sperato che in una metropoli eclettica come Londra le cose sarebbero andate meglio, ma non era stato così.

Semplicemente, poteva nascondersi più facilmente; aveva imparato ad esser più cauto e a non concedere i propri servigi a chiunque.

Per un po’ di tempo aveva goduto anche di una certa notorietà: superata la diffidenza iniziale dei londinesi nei suoi confronti – era pur sempre uno straniero – le sue macchine erano state apprezzate; purtroppo il suo successo era durato solo pochi anni: la prima a dare segni di instabilità era stata Jasmine, una macchina costruita per Lord Everton, ricco vedovo in cerca di compagnia; qualche mese dopo averla acquistata egli venne rinvenuto morto, ucciso, nel proprio letto e i sospetti ricaddero proprio sull’androide in suo possesso poiché la stanza era chiusa dall’interno e la macchina era lì dentro, con lui.

Ovviamente non era stato possibile provare un bel nulla e il Ragno aveva fatto in modo di defilarsi per il tempo necessario a far dimenticare l’episodio.

Negli anni a venire si erano verificati altri incidenti – così lui li definiva – con le stesse caratteristiche, ma lui era sempre riuscito a cavarsela mentre i casi restavano irrisolti: per sua fortuna c’era ancora chi si lasciava affascinare dalle sue creazioni, qualcuno di molto influente, che faceva in modo di tenerlo al sicuro da ogni accusa formale.

Zoltan aveva un segreto, per far sì che le sue macchine fossero così terribilmente realistiche.

Era stato un chirurgo, un tempo: proprio grazie a questa sua professione aveva potuto sviluppare il progetto, la ricetta per crearle; era iniziato tutto con la morte della sua amata Gabi in seguito ad una lunga malattia.

Incapace di rassegnarsi, Zoltan aveva conservato il cervello della giovane ed alcuni tessuti del suo corpo, convinto che avrebbe potuto ricrearne un clone.

Per lunghi mesi aveva lavorato al primo prototipo: ingranaggi al posto degli organi, ferro e fibre sintetiche invece di ossa e muscoli; con i campioni di tessuto epiteliale era riuscito a ricreare la pelle che li ricopriva. Aveva modellato il cranio di modo che riproducesse i lineamenti di Gabi, le aveva tagliato i capelli per poterli impiantare sulla macchina, così come le aveva preso gli occhi per inserirli nell’androide.

Infine, ecco l’ingrediente segreto: aveva inserito nella scatola cranica il cervello che aveva asportato all’amata e lo aveva rivitalizzato utilizzando un complicato quanto innovativo sistema di impulsi elettrici generati da un alimentatore a vapore che mettevano in moto l’intero meccanismo.

La macchina non era dotata di una propria volontà, per lo meno non inizialmente: si limitava a riprodurre atteggiamenti e frasi che le venivano insegnati, in una sorta di processo di imprinting, ma tanto bastava a farla assomigliare quanto più possibile ad un essere umano, soprattutto se non si prestava troppa attenzione ai particolari.

Donald aveva rapito una giovane che assomigliava a Virginia; l’aveva uccisa, aveva asportato occhi, cervello, capelli; infine, poiché non c’era tempo di attendere che Zoltan clonasse la cute, l’aveva scuoiata per fornirgli il rivestimento.

Ed ora Zoltan aveva appena terminato di creare la macchina con quelle fattezze.

“Adesso spiegami cosa vuoi fare con lei” domandò stancamente, allontanandosi dal bancone ove giaceva la sua ultima creazione

“Lo vorrei sapere anche io”

Al sentire quell’affermazione, Donald e Zoltan si voltarono contemporaneamente verso l’ingresso del vagone.

Lawrence era lì. 

Requiem per una sposaWhere stories live. Discover now