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MLK – U2
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Louis confessa.

La sera era fredda, quasi gelida, e si insinuava sotto il tessuto degli abiti dei passanti, facendoli rabbrividire ed invitandoli a stringersi sempre di più nei loro cappotti, nascondendo i visi arrossati nelle sciarpe di lana e cercando un riparo dal vento di ghiaccio. Le strade erano buie, avvolte nel silenzio, solo pochi lampioni ad illuminare i marciapiedi e l'asfalto nero, i rami degli alberi spogli e immobili nell'aria, come non avessero vita. La luna era muta nel cielo pulito, nessuna nuvola in vista, le stelle brillanti nel sospiro invernale.

La vita oltre le mura era addormentata, serena, silenziosa.

Così contrastante.

Perché il mondo di Louis era tutto l'opposto.

I paramedici spalancarono le porte del pronto soccorso con un tonfo, facendole sbattere contro le pareti così bianche da sembrare quasi accecanti, obbligando il pavimento sotto la barella che trasportavano con loro a tremare. Le ruote stridevano sul linoleum brillante, e il corpo di Harry si muoveva privo di sensi, scosso dagli spostamenti bruschi e sconnessi. I paramedici urlavano a squarciagola, dettando informazioni ed istruzioni alle prime infermiere che si avvicinarono a loro di corsa, e il loro fiato sospeso riempì l'aria chiusa e soffocante.

Il caos portò le proprie mani alla gola di Louis, strozzandolo a morte.

Perché mentre la sera vorticava nella sua calma e nel suo silenzio, il mondo che fu costretto ad affrontare quella notte lo pugnalava ad ogni istante, con quei colori troppo accesi, le urla assordanti, il rumore delle ruote della barella sul linoleum, e con quel corpo nato per sorridere ora privo di ogni luce, addormentato su un materasso scomodo e sottile.

Nulla aveva più senso.

Rimase solo una cosa, in quel mondo di caos.

La speranza che Harry potesse aprire gli occhi e guardare Louis con quelle sue iridi così verdi.

Il castano non aveva staccato le mani dalla barella nemmeno un istante. Aveva corso insieme ai paramedici per i corridoi dell'ospedale, sentendo le guance bruciare sotto le lacrime che avevano cominciato a riversarsi sul suo viso contorto, le dita avvinghiate al ferro gelido, incapaci di separarsene. Avrebbe voluto stringere la mano di Harry, ma il ragazzo era così rotto, così rovinato, così martoriato. Temeva che anche solo un sospiro avrebbe potuto infrangerlo per sempre.

"Si deve fermare qui," disse poi un infermiere sulla trentina, bloccando il passaggio a Louis e schiacciando il palmo della mano sul suo petto, tenendolo fermo.

"No," sussurrò scuotendo la testa, sentendo il proprio volto cadere sotto il peso del pianto. "No. Non posso," mormorò ancora, tentando di opporre resistenza. "Non posso lasciarlo solo," pianse amaramente.

"La prego, mi deve ascoltare," ripeté l'infermiere. "Deve rimanere qui. I medici le diranno tutto, non deve preoccuparsi," lo rassicurò chinando leggermente il capo per incontrare il viso di Louis, fisso sul pavimento in linoleum così accecante di fronte a loro.

"Gliel'avevo promesso," fu ciò che sospirò prima di portare le proprie mani a coprirsi gli occhi, nel vano tentativo di fermare quelle lacrime così crudeli che non avevano smesso di pugnalarlo nemmeno un istante. "Gli avevo promesso che non sarebbe più stato solo," si contorse prima di affondare le dita nelle carne, a tal punto da non sentirle, piegando la schiena e tremando sotto una consapevolezza troppo pesante da sopportare.

"La terremo informato," disse poi l'infermiere, appoggiando una mano sulla sua spalla. "Perché non mi segue? Abbiamo bisogno di sapere cos'è successo, in modo tale da poter aiutare il suo amico," mormorò avvicinandosi lentamente. Louis alzò leggermente lo sguardo, fissandolo in quello dell'uomo. Deglutì rumorosamente, prima che la propria vista cominciasse ad annebbiarsi pericolosamente.

BITE [in revisione]Where stories live. Discover now