31. libertà, trafficante di armi e circo

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«Oddio ma tu sei Bernardeschi?» Federico si abbassò gli occhiali da sole, tenendoli tra le dita di una mano, e sorrise alla ragazza che era appoggiata alla portiera della macchina. Lui era ancora sotto il portico, giusto fuori dalla porta d'uscita della stazione. Aveva un orribile cappellino di maglia giallo in testa e per il resto era vestito completamente di nero, con delle scarpe da ginnastica bianche un po' usurate. Si avvicinò a lei e trascinò dietro la propria valigia, per poi fermarsi a qualche passo dalla macchina e farle un sorriso entusiasta.

«Sono io, sono io. Vuoi mica un autografo o una fotografia?» rispose, trattandola come una fan qualsiasi. Alessia, invece, aveva addosso una giacca pesante, un paio di jeans dal lavaggio chiaro che cadevano morbidi sulle sue gambe, senza segnarle troppo, e un paio di scarpe nere allacciate strette. I suoi lunghi capelli erano legati in una coda stranamente ordinata e ricadevano sulle sue spalle e su tutta la sua schiena come delle onde scure, eleganti e sinuose, oltre che incorniciare il suo viso pallido. Sotto i suoi occhi azzurri non campeggiavano più le occhiaie che l'avevano accompagnata fino a quel momento, segno che si era riposata almeno un po' durante quella prima parte delle vacanze di Natale.

«Prima sali, fenomeno, questo è il posto per i taxi» lei aprì la portiera del posto del passeggero e gli fece cenno di salire, prese la sua valigia e la infilò velocemente nel bagagliaio prima di saltare al posto del guidatore e immergersi nelle strade trafficate di Trieste. Quella città per lei aveva sempre significato una cosa: libertà. Da adolescente ci andava solo d'estate, da sola, e passava le giornate con suo padre. Mentre lui lavorava, lei si appostava alla biblioteca del centro di fisica teorica, sfogliando libri in inglese di qualsiasi genere, chiaramente sempre legati alla scienza, e girovagando per i corridoi, per le aule, osservando le lavagne che venivano spostate su e giù per i muri mentre lunghissime formule venivano maneggiate con cura da tutti come se fossero dei bambini o dei cuccioli di un animale in via d'estinzione.

«Com'è andato il viaggio?» gli chiese, mentre aspettava che l'ennesimo semaforo di Piazza Libertà diventasse verde per permetterle di proseguire. Non avrebbero passato tanto tempo in macchina, al massimo una ventina di minuti contando il traffico fastidioso, ma sarebbero dovuti tornare indietro fino a Miramare. La casa di suo padre, infatti, era lì sopra, tra gli alberi che ricoprivano una delle tante colline carsiche che si gettavano direttamente nel mare Adriatico.

«Lungo» rispose Federico in un sospiro, guardandosi intorno. Alla sua sinistra, dopo qualche minuto, apparve il mare, con giusto il marciapiede di Barcola dove i triestini amavano prendere il sole durante l'estate a ostacolare la sua visione. L'acqua era calma, placida, limpida sotto la luce del sole serale che, grazie alla sua intensità e al particolare colore rosso che assumeva solo durante i tramonti invernali, creava dei riflessi interessanti e quasi abbaglianti. La ragazza ridacchiò a quel lamento silenzioso, mentre gli occhi verdi di lui correvano alla propria destra, dove una delle tante case lussuose era incastrata nella roccia e un uomo in bicicletta correva nella ciclabile che li affiancava.

«Natale? A Olivia e Mami sono piaciuti i regali?» continuò lei. Era solo il ventisette dicembre eppure nei giorni passati non avevano avuto l'occasione di sentirsi perché avevano preferito passare quel tempo con i propri familiari e godersi la magia del Natale quanto più possibile. Un paio di settimane prima Federico l'aveva chiamata, la disperazione chiara nel suo tono di voce, chiedendole di aiutarlo nel scegliere il regalo per le proprie nipotine e lei si era fatta venire un'idea niente male che l'aveva convinto subito. Chiaramente, prima ne aveva parlato con Gaia per capire se l'idea andasse bene e poi si era precipitato a cercare ciò che lei gli aveva proposto.

«Ne sono andate matte, Mami avrebbe voluto uscire a pattinare anche se faceva un freddo becco. Come ti è venuto in mente?» rispose, appoggiando il gomito alla portiera e la testa alla propria mano, facendo scivolare il suo sguardo su di lei che guidava tranquilla per le strade. Il mare scomparve e venne rimpiazzato da una salita fastidiosa alla cui fine c'era un piccolo spiazzo di erba con sopra il simbolo della città. Federico pensò che fosse estremamente simile a quello di Firenze e si chiese se quella fosse solo una casualità. Quell'alabarda bianca su sfondo rosso, per lui, assomigliava tremendamente al giglio della città toscana, nonostante lì i colori fossero invertiti.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora