Parte 21

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Quella notte, la stanza era una per noi due, tutti e due. Elisa voleva che ci conoscessimo, che ne sapeva lei? Che ne sapevano gli altri ragazzi di quella serata che noi ci conoscevamo già. Ci conoscevamo già da un pezzo ed era come conoscersi da una vita intera, ma dovevamo fingere. Ancora un po', perchè io non volevo nulla di ufficiale. Non volevo legarmi ad un ragazzo. La mia adolescenza mi aveva già segnata. Non volevo legarmi ad un ragazzo, ma paradossalmente volevo viverlo. Tutto sembrava essere tratto da un film, un comico drammatico e un po' romantico.  Quella notte mi chiese di potermi osservare senza veli. Ed io accettai, tolsi tutti i miei veli e rimasi, lì, davanti a lui, privata di tutto. Non mi toccò, non all'inizio, rimase fermo, nella penombra della stanza che ci avevano affibbiato. I suoi occhi luccicavano al buio, sembravano gemme, non slittavano in velocità, apparivano languide. Languide gemme che saggiavano la mia pelle chiara. Inizialmente, non disse niente, ma io capì tutto. Non mi serviva che dicesse qualcosa. I suoi occhi grandi, le labbra dischiuse, il leggero rossore, mi disse ciò che la sua voce era troppo spenta per dire. Mi disse tutto, senza dirmi niente. Sembrava un animale; un muto animale notturno, dagli occhi lucenti nella notte, che punta la preda, ma ne rimane meravigliato. Sembrava un animale che piano si metteva in posizione per attaccare, ma non lo faceva: un predatore attento, che però non voleva attaccare.
Ricordo che degludì rumorosamente, quasi avesse la vocca asciutta. Poi, alzò lo sguardo e lo puntò nel mio.
"sei bellissima" mormorò quasi a denti stretti, passando un dito sulla mia pelle ancora bollente di imbarazzo. Lo disse come se non parlasse veramente con me, come se parlasse ad un quadro in un museo e lui avesse la sindrome di Stendhal. In effetti, sembrava delirare. Io sorrisi, lo ringraziai. Non credetti mai a quelle due parole incrociate e riferite a me, ma quella notte... quella notte io sentì quel complimento come fosse reale. Sorprendentemente, parlammo molto in quella condizione, prima di saggiarci.
"ti va una sigaretta?" chiesi dopo.
Lui sorrise, ma con poca gioia ed annuì.
Mi diede il suo parka. Mi corpì del suo odore, rimanendo lui al freddo. Mi abbottonò il suo giubotto che mi stava dannatamente grande. Le sue dita erano fresce, non fredde, il suo palmo caldo, gli occhi che non vacillavano un solo secondo dalla mia figura.
"Non prendere freddo" mi ammonì, come se si fosse già trasformato. Da animale, si era trasformato a guardia, che copre il quadro per non sottoporlo alle intemperie o alla polvere. Uscimmo fuori, in quello che ormai era il nostro spiazzaletto. Fumammo al gelo, io a piedi nudi, con le gambe velate di brividi e lui a maniche corte, con i capelli arruffati e le labbra incurvate. Il fumo dei nostri cilindri accesi ci circondò, avremmo dovuto smettere, ma quella non era la realtà. Quel mondo che creavamo quando eravamo da soli, in quel posto, non era lo stesso in cui vivevamo di giorno. Era un'altra cosa, un mondo parallelo tutto nostro. Nostro e di nessun altro. Mai.
Ormai non avevamo quasi bisogno di parlare, parlavamo anche in silenzio. Non avevamo bisogno di niente.
"Voglio vedere l'alba" gli imposi sorridendo, lui rise scuotendo il capo.
"Mi pare ovvio"

Non ricordo il motivo, non ricordo per cosa, ma ricordo che qualche ora più tardi andai in collera con lui, ripresi la mia felpa, la mia tuta. Lui se ne andò, in cucina, di sopra. Ci separammo e non ricordo perchè. L'alba stava arrivando e non avrebbe aspettato noi, io non mi sarei mai permessa di perderla. Aprì il cancelletto e mi appostai in una sporgenza di cemento, senza protezioni, ad ammirarla. Mentre andavo, notai i suoi occhi sgranarsi dal balcone di sopra, infame, anche lui la stava guardando. Non appena arrivai sulla sporgenza, lui sparì, non lo vidi più. Mi girai verso il cielo e feci per sedermi sul bordo.
Mentre mi abbassavo sentì una presa ferma e calda fasciarmi il polso e tirarmi indietro. Le pupille si dilatarono e ancora oggi, a pensarci, sento una fitta di calore allo stomaco. Appena mi girai, vidi lui. Lui, scalzo sul cemento gelido, sottoposto al freddo di Gennaio, con il braccio teso, la mano serrata, i muscoli in tensione, gli occhi fiammeggianti e l'espressione ricolma d'ira. Io non reagì, troppo colpita dal suo atteggiamento. Qualche secondo e mi ritrovai lontana dalla mia postazione e mi ritrovai, invece, al mio posto, con il volto sul suo petto caldo, nonostante la maglietta di cotone. Alzai lo sguardo, rammentandomi il nostro litigio.
"Ma dico sei impazzita?!" mi ammonì subito
"Perchè mai!?" chiesi urlando a mia volta discostandomi.
"È pericoloso!"
"Sara alta due metri al massimo" gli feci rendere conto alzando un sopracciglio scuro.
"Ma ti fai male lo stesso se cadi, idiota" rispose. "e poi che ci fai qua?"
"Volevo vedere l'alba!"
"Potevi venire sopra"
"ma sopra c'eri tu" gli soffiai contro.
"Appunto, sopra c'ero io" scandì "anche ora ci sono io" disse poi, facendomi cenno verso le mie spalle. Mi girai, l'alba.
Era bellissima: i colori caldi sprizzavano fuori dal buio della notte, tingendolo di azzurrino. Man mano, i colori caldi prendevano potere, macchiando il cielo ed anche l'azzurro. Con quel clima gelido, vedere quella guerra, tra giorno e notte, fu bellissimo. Più che una guerra, quella volta, sembrarono fare l'amore, sembrarono fondersi, separarsi e ricongiungersi un un miscuglio di colore ed emozioni quasi indestrivibile. Mi sentì minuscola ma anche gigante. Eravamo due giganti, gli unici, nel nostro mondo parallelo in grado di ammirare quello splendore. Gli unici svegli, in una città spenta. Gli unici ad avere il coraggio di guardare quella guerra d'amore. Gli unici, perchè era nostra. Quell'alba, fu nostra. E lo sarà per sempre.
Quell'alba  indimenticabile, l'avevamo firmata con lo sguardo. Quell'alba, aveva le nostre firme, come fosse una nostra tela e la stessimo ammirando, prima che potesse farlo il mondo. L'avevamo firmata: Caøs ed Årmoniå.

L'Alba di Caøs ed ÅrmoniåWhere stories live. Discover now