Quanti passi ci vogliono? (parte uno)

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Quanto tempo c'è voluto.

Me lo domando spesso.

Quanti secondi ci sono voluti perché mia madre smettesse di vivere, di esistere.

Il medico legale a quel tempo ci disse che era stato un attimo, una frazione di secondo. Un colpo singolo. Uno sparo diretto. La pallottola aveva preso il punto perfetto per porre fine a tutto quanto. Non ha sofferto, me lo ripeteva in continuazione, come se bastasse, come se fosse qualcosa. Tua madre non ha sofferto, non ha provato nulla. E' stato come esserci e poi scomparire.

Ma qualcosa deve aver provato. Qualcosa, un rumore, un suono, mentre tutta la sua vita veniva distrutta in un singolo istante. Deve essersene resa conto, forse prima, quando aveva la canna della pistola puntata sulla fronte. Qualcosa, qualunque cosa. L'istante in cui si era resa conto che la sua vita era finita, che qualcuno aveva deciso di schiacciare il pulsante STOP. Quel momento in cui tutto si solleva per poi cadere e schiantarsi a terra. Deve esserci stato qualcosa, la sensazione più percettibile.

A volte, quando dormivo, ripensavo a questo. Da allora ho cominciato a contare i miei passi. Trecentoventi da casa a scuola, quattrocentosettantasette da scuola al supermercato. Non so perché, è stato istantaneo. Forse volevo ricordare, ricordare che anche per me quelli avrebbero potuto essere gli ultimi passi, che anche io avevo un pulsante STOP nell'anima, che non avrei dovuto permettere a nessuno di schiacciarlo fino a che non fossi stata sicura che Luke se la sarebbe cavata anche senza di me.

Sono settecentocinquanta passi da casa alla Star High School Academy, oggi ho deciso di camminare. Luke è andato dal medico con zia Teresa, ha saltato la tortura. Io no, ed è meglio così. Niente Luke, niente minacce. Protezione garantita.

Il cancello d'ingresso della scuola non è ancora troppo affollato, gli studenti presenti sono probabilmente quelli più emarginati, a cui piace arrivare in orario e seguire le lezioni. Io non sono una di loro. Sono quella che sta lì, in disparte, che fa paura e ha paura, quella che si muove e viene evitata per legge o garanzia. E quando cammino li vedo, vedo gli occhi su di me, vedo gli sguardi, i sussurri, le risatine nervose. E non capisco. Non capisco. A volte vorrei poter sapere leggere la mente, poter comprendere perché alcune persone fanno quello che fanno. Tradire, odiare, o amare, a volte tutto insieme, a volte separatamente. Cosa li spaventa da voler screditare in questo modo una sconosciuta, cosa li porta a dirsi "è così che funziona", quando vedono qualcosa che non conoscono, che non vogliono comprendere? Non lo so. Non l'ho mai capito.

Sono passate due settimane, due settimane intere dal primo giorno di scuola. I fratelli King sono stati di parola, il veto è stato esteso anche su di me. Ora nessuno ha il coraggio di incrociare il mio sguardo, nessuno ha la forza di venirmi a parlare. Mi va bene così, mi stanno facendo un favore. Non so parlare, non so discutere, di solito mi arrabbio e basta.

Ma non posso negarlo, questo posto è diverso. Un veto nella mia vecchia scuola significa qualcos'altro. Significava testa dentro il gabinetto, armadietto pieno di spazzatura, foto compromettenti diffuse a macchia d'olio, e lividi. Quanti lividi. Centinaia, migliaia. Ho ricevuto la mia prima cicatrice in quarta elementare, e l'ultima pochi mesi fa, con quella mazza da baseball e quelle mani che si proteggevano dalla mia furia.

Poi tutto è finito, e di colpo, le cicatrici di fuori non sembravano niente. Non facevano male, era dentro che stavo morendo. E prima che potessi accorgermene, ero già finita.

Quindi sì, non lo nego, qua è certamente meglio. A volte l'indifferenza è un'arma potente e distruttiva, altre volte, invece, una piacevole compagnia. I fratelli King non sono crudeli, non mi hanno fatto del male, non mi hanno voluta distruggere, pur avendone le possibilità, e me ne sorprendo. Al posto loro, forse, io lo avrei fatto.

La custode di cuori {COMPLETA} (IN REVISIONE)Where stories live. Discover now